La bicicletta è una mia passione da sempre, e da tanti anni l’ho fatta diventare il mio sport. Fin da bambino passavo le giornate pedalando: con i miei amici, ma spesso da solo, giravo per San Donato, il mio paese alle porte di Milano. La fascia urbana che allora era ancora campagna, con le stradine sterrate che non portavano da nessuna parte, e che in sella alla mia “saltafoss” percorrevo sognante. Oggi mi piace pensare che lo spirito sia lo stesso, e quel che faccio non sia altro che la continuazione dei giochi di quel bambino che non sapeva stare fermo.
La NorthCape4000 è una corsa, non è soltanto un viaggio: ufficialmente non c’è un vincitore ma quando affianchi due ciclisti su una strada non esiste partita amichevole, si corre più forte che si è capaci. Uno che arriva prima esiste eccome, ma lui rispetto a me fa uno sport diverso. Io mi accontento di fare del mio meglio, di correre al massimo delle mie possibilità godendo della strada e dei paesaggi, degli amici che si incontrano lungo il tragitto e della fatica che si fa. Tanta fatica, perché la bicicletta è uno sport impegnativo, che non regala nulla e che costringe ad essere disciplinati negli allenamenti e nell’alimentazione; soprattutto se il tuo obiettivo è quello di percorre tantissimi chilometri nel minor tempo possibile.
Siamo partiti in 250 da Rovereto, abbiamo attraversato le Alpi dal Brennero, superato le montagne austriache e della bassa Baviera. Siamo passati da Monaco e da Berlino, attraversando una parte della Cechia. Poi finalmente la Scandinavia con la Danimarca, la Svezia, la Finlandia, e infine la Norvegia con l’arrivo a Capo Nord.
Una traversata che da corsa si rivela essere un’avventura densa di emozioni, sensazioni e tanta fatica. La fatica che nel corso dei giorni diventa anche emozione. Perché quando pedali così a lungo entri in relazione intima con il tuo corpo e la fatica fisica si rivela molto più che una semplice sensazione. Un mare di contraddizioni che arrivano alla mente e al cuore: il piacere fisico della percezione di sé, della propria forza e forma. La soddisfazione di comprendere la personale capacità di resistere allo stress, alle difficoltà, allo sforzo. La noia della ripetitività dei gesti, delle routine giornaliere senza le quali non si arriverebbe mai alla fine.
Durante una corsa simile si rimane in bicicletta più di dodici ore ogni giorno, e il tempo assume una diversa connotazione: la mattina ed il pomeriggio non sono più soltanto percezioni temporali ma assumono una dimensione spaziale. I chilometri percorsi diventano l’unità di misura del tempo e le necessità fisiche i segnali da ascoltare, sempre: la fame, la stanchezza o un dolore più o meno intenso. Ma è soprattutto la fame ad accompagnare la strada: la colazione, il pranzo, lo spuntino (che tanto spuntino non è mai) del pomeriggio e poi la cena. La cena che è anche il momento della convivialità, dello stare insieme a bere birra e parlare, di come è andata la giornata, delle difficoltà incontrate, del programma del giorno dopo.
Durante la corsa accade una cosa molto particolare, tra le molte: alla partenza eravamo tanti e tutti assieme, raggruppati. I primi giorni quindi si incontrano un po’ tutti i ciclisti partecipanti; basta una sosta e si è raggiunti dai tanti che erano indietro. Una percorrenza un po’ più lunga e si raggiungono quelli che erano davanti. Nei primi giorni non si è mai da soli, ma non si è nemmeno mai con nessuno. Ognuno fa corsa a sé. Percorsa un po’ di strada e trascorsa circa una settimana, si formano invece in maniera spontanea dei gruppetti. Ci si allunga lungo tutto il percorso, ognuno pedala secondo il proprio ritmo, e su ogni porzione di terreno si formano addensamenti di ciclisti che hanno la stessa velocità ed uguale percorrenza giornaliera.
E’ importante sapere che la corsa è in completa autonomia. Questo significa che ognuno la può interpretare come preferisce, non ci sono limiti. Io voglio percorrere 200 chilometri al giorno, un altro ne vuole percorrere 250, un terzo infine ne vuole fare 300. La sola regola è che nessuno può avere un aiuto esterno di nessun genere e che c’è un tempo limite per completare il percorso: in questa edizione la partenza è stata la mattina del 20 luglio e bisognava arrivare entro la mezzanotte del 10 agosto.
Come spiegavo, in questa maniera dopo qualche giorno si formano dei gruppetti e più si va a nord e ci si addentra in Scandinavia, più le strutture alberghiere diventano rare. Così anche senza organizzarsi ci si ritrova negli stessi alberghi e si mangia negli stessi luoghi (che siano supermercati o ristoranti poco importa). E’ così che a me è capitato di incontrare, sul traghetto che da Rostock conduce in Danimarca, Marco e Federico, due ragazzi toscani che diventeranno i miei amici di viaggio. Da quel giorno abbiamo condiviso la gioia di percorrere chilometri meravigliosi e la noia di strade dritte e lunghe all’infinito; abbiamo organizzato le giornate e prenotato alberghi, deciso quanti chilometri percorrere e a quale velocità farli. A Rovereto sono partito da solo, lungo la strada ho fatto amicizie che son durate un giorno o poco più, alla fine ho abbracciato la compagnia e l’amicizia di due ragazzi straordinari.
Le emozioni sono anche legate ai paesaggi che ho visto. Il verde delle Alpi, dell’Austria e della Baviera. Con montagne meravigliose e prati perfetti. I paesini spettacolari ed eleganti di queste vallate uniche. Poi le città della Germania: Monaco e Berlino. Berlino è una città del mondo: l’ho attraversata per la prima volta eppure avevo la sensazione di conoscerla tutta. Dalla Germania dell’est abbiamo raggiunto il Mare del Nord e la Danimarca con le sue pianure e i ponti spettacolari che impressionano per modernità e grandezza. Dopo Copenaghen finalmente la Svezia, lunga ed immensa con foreste infinite e laghi enormi. Dopo tanti giorni passati siamo arrivati in Finlandia, a Rovaniemi, dove abbiamo sostato al villaggio di Babbo Natale: un luogo inventato ad arte per vendere un prodotto stupido e divertente. Ultimo paese la Norvegia, con i fiordi e la meraviglia del sole a mezzanotte. Infine l’arrivo a Capo Nord quando, dopo ventotto ore consecutive in sella alla bicicletta e aver percorso 450 chilometri tutti di un fiato per la voglia e l’entusiasmo di arrivare, ho visto lo splendore del mare dei fiordi, circondato dalle montagne e dai mille colori riflessi dal sole notturno, ho costeggiato spiagge gelide ma scaldate da un tepore sorprendente, ho visto villaggi di pescatori piccoli e romantici, ma che immagino terribili e faticosi per chi ci vive.
Diciotto giorni precisi, una media di 240 chilometri al giorno in circa dodici ore dalla mattina alla sera. Non saprei dire quanti chili di pasta e pizza, di ciambelle e torte, di panini con strani prosciutti ho mangiato. Quanta birra ho bevuto; il rito della birra serale era obbligatorio, la fine e il completamento della giornata. Il momento in cui si chiudeva un piccolo capitolo per aprirne uno il giorno dopo.
Come per me chiudere un capitolo era scrivere il diario che pubblicavo tutte le sere su facebook: lo strumento con cui fissare nel tempo la mia memoria, ciò che avevo visto. Il mezzo grazie a cui restavo connesso con gli amici, mi regalavo la sensazione di avere sempre qualcuno accanto a me perché, anche se un viaggio in bicicletta fino a Capo Nord è una vacanza solitaria, lo è in maniera particolare, ed è bello condividerla.