L’omicidio di Satnam Singh e la filiera della schiavitù - di Giacinto Botti

“Il vostro non è un paese buono” è la tragica, semplice constatazione di Soni, la vedova di Satnam Singh, il bracciante di origine indiana morto all’ospedale San Camillo di Roma il 19 giugno, due giorni dopo essere stato abbandonato dal padrone davanti alla casa in cui abitava in provincia di Latina, e dopo che un macchinario dell’azienda agricola in cui lavorava in nero gli aveva tranciato un braccio e spezzato le gambe.

Una sentenza lapidaria, che smonta definitivamente il mito degli “italiani brava gente” rilanciato da quel “sono atti disumani che non appartengono al popolo italiano” pronunciato dalla premier Meloni, dopo giorni di silenzio, e naturalmente condiviso dal cognato Lollobrigida, ministro dell’agricoltura, che ha tenuto a dire di un caso isolato che non riguarderebbe tutta la filiera agricola e ha dato la colpa a “un criminale”.

Certo, c’è un sovrappiù di criminalità e crudeltà nel comportamento della famiglia Lovato, titolare della “cooperativa” che sfruttava Satnam e Soni e tanti altri migranti sikh, da cinque anni indagata per lavoro nero e caporalato. E c’è da augurarsi che la magistratura emetta rapidamente la giusta sentenza per quello che si configura come un vero e proprio omicidio. Ma la condizione lavorativa di Satnam e Soni non è purtroppo isolata: secondo l’ultimo rapporto agromafie della Flai Cgil, un quarto di tutti i braccianti, cioè circa 230mila persone, è soggetta a sfruttamento nelle campagne italiane.

Satnam Singh, 31 anni, e la moglie Soni non avevano più il permesso di soggiorno e venivano sfruttati dai Lovato almeno dodici ore al giorno, senza un regolare contratto e con “paghe” ben al di sotto dei minimi contrattuali. “Da sempre in questo territorio il lavoro agricolo è anche sinonimo di sfruttamento e caporalato, lo denunciamo, raccogliamo le testimonianze dei lavoratori, li aiutiamo a rivendicare i loro diritti, incalziamo le istituzioni, informiamo”, ha dichiarato Laura Hardeep Kaur, segretaria generale della Flai di Frosinone-Latina.

Non è solo una questione di mancati controlli e di criminalità e disumanità padronale. Da ormai troppo tempo c’è in Italia un sistema produttivo e di impresa che alimenta e si alimenta di precarietà, lavoro nero e schiavitù. La legge Bossi-Fini approvata dalla destra nel 2002 - di cui da sempre chiediamo l’abrogazione - è pensata esattamente per alimentare un bacino di forza-lavoro irregolare, ricattabile, priva di diritti e della possibilità di rivendicarli, ad uso e consumo di padroni piccoli e grandi che costituiscono la base sociale ed elettorale di Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia.

Sono gli stessi che il governo Meloni non intende disturbare, ai quali ha regalato 18 condoni fiscali e per proteggerli ha negato l’attivazione delle misure previste dalla legge 199 del 2016 contro il caporalato – perfino per quanto riguarda l’utilizzo dei fondi del Pnrr per smantellare i ghetti in cui sono costretti i migranti – e il potenziamento del sistema ispettivo del lavoro e previdenziale, così come ogni misura concreta di prevenzione contro la mattanza quotidiana di morti e infortuni sul lavoro.

Sì, il nostro non è un paese “buono”. Sta a noi della Cgil continuare a lottare per contribuire a migliorarlo, lottando con ogni mezzo democratico per applicare pienamente la nostra Costituzione antifascista.

 

 
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