Ridurre l’orario di lavoro e redistribuirlo, non c'è altra via! - di Giovanni Mazzetti

Da mesi e anni sentiamo proclamare, coram populo, che si deve contenere la spesa dello Stato perché “non ci sono i soldi” e “la coperta è corta”. Per chi conosce un po’ di storia sembra, così, di essere ripiombati indietro di un secolo.

John M. Keynes, dimostrò, inascoltato, che quell’affermazione era il frutto di una “distorsione dell’esperienza”, causata dai limiti culturali dell’epoca. A suo giudizio le amministrazioni pubbliche potevano, e “dovevano spendere”, perché le risorse c’erano e i bisogni anche, e il farli incontrare era l’“unico” modo per far fronte alla Grande Crisi. Visto che quella distorsione è tornata a dilagare, sarà bene riesumare la spiegazione keynesiana del problema.

 

Che cos’è il denaro?

Il denaro è il simbolo del potere di appropriarsi di una parte del prodotto della società, derivante dal fatto che “si è contribuito a crearlo”. Ma quel denaro non sgorga dal nulla, deriva piuttosto da fatto che qualcuno - spendendo - ci ha chiesto di fornire quel contributo. Infatti ciascuno di noi acquisisce un denaro quando ha svolto o fatto svolgere un lavoro che ha soddisfatto bisogni altrui. Per questo gli viene concesso un potere “equivalente” sul prodotto complessivo. La cooperazione si esprime così di volta in volta “nella forma di uno scambio”, e la riproduzione della società interviene attraverso il susseguirsi delle spese.

Quando gli individui si lamentano che il denaro manca, non fanno altro che dire che si trovano in “difficoltà a cooperare”. Loro non possono produrre per altri perché questi, non ricevendo denaro, non spendono. Ma non possono nemmeno chiamare altri a soddisfare i propri bisogni, appunto perché non acquisendo denaro dai primi, a loro volta non possono spendere. In altri termini: la cooperazione, “nella forma esistente”, si è inceppata, e in molti si impoveriscono.

Ma che “tipo di bisogno è quello che si esprime attraverso un passaggio di denaro”? Si tratta della “domanda”. Un membro della famiglia che prepara la cena per i familiari non chiederà del denaro. Quel bisogno non assume, dunque, la forma di una domanda. I membri di un’associazione ambientalista si riuniscono per raccogliere i rifiuti sulle spiagge; nessuno di loro si aspetterà di ricevere in cambio del denaro. Vanno incontro a un bisogno, anche se questo non si presenta come una domanda. Questa forma di cooperazione si distingue da quella che passa attraverso la spesa di denaro. La prima è un rapporto “immediatamente sociale”, il perseguimento di “uno scopo comune”, la seconda corrisponde, invece, alla “forma privata”, nella quale la cooperazione non è “il fine”, ma solo “il mezzo” per soddisfare “i propri bisogni”.

 

Perché il denaro viene a mancare?

Il singolo che agisce come privato non ha alcun potere per porre rimedio al fatto che il denaro non gli affluisce. Ma dopo la guerra si affermò ovunque la strategia keynesiana, che cercava di porre rimedio alla grave crisi precedente. Keynes sosteneva, infatti, che si trattava di prendere atto che, se i capitalisti erano indubbiamente stati in grado, nel corso dell’Ottocento, di condurre la società, sviluppando il rapporto di scambio, ad un livello economico impensabile da chi li aveva preceduti, tuttavia “si dimostravano non più in grado di continuare a svolgere la funzione positiva che avevano avuto nel periodo della loro egemonia”.

La proclamazione che non si potessero far altro che “sacrifici”, serviva solo a dissimulare quell’incapacità, perché quelle risorse c’erano, ed erano abbondanti, solo che non riuscivano a rientrare in circolo attraverso la mediazione degli imprenditori. Bisognava cioè “imparare a vederle”, attraverso una forma d’esperienza diversa da quella dei capitalisti, che si dimostravano ciechi nei confronti della loro esistenza.

L’appello allo Stato affinché facesse, in tempo di pace, ciò che aveva sempre fatto in guerra, e cioè intervenisse direttamente per utilizzare la forza lavoro e le risorse disponibili, finché Keynes fu in vita fu osteggiato, e solo dopo la morte, nel 1946, si accondiscese ovunque ad imboccare quella strada. La spesa pubblica, dal 10%, crebbe fino al 40% del Pil, e si moltiplicò di migliaia di volte in termini reali; l’occupazione pubblica, triplicando, arrivò a coprire tra il 25% e il 30% della forza lavoro complessiva, assicurando la piena occupazione stabile, per un trentennio, e la soddisfazione sostanziale dei “diritti sociali”. Emancipati dall’impotenza che aveva prevalso nella fase storica precedente, tutti gridarono al “miracolo”.

Quello era però tutto meno che un “miracolo”. Scaturiva piuttosto dall’accettazione della necessità di “modificare il criterio sottostante alla decisione di spendere”. Se i capitalisti subordinavano al movente del profitto la loro spesa in investimenti, utilizzando le risorse che rendevano via via superflue con l’innovazione, lo Stato doveva impiegare quelle risorse nella soddisfazione dei bisogni (spendendo il denaro “come reddito”), senza sottostare al vincolo che ogni spesa dovesse comportare la riproduzione di un denaro equivalente o di un profitto (spesa di capitale).

Una spesa, quella pubblica, che doveva procedere in parallelo con la realizzazione di un’organizzazione della produzione complessiva, prima abbandonata allo spontaneo evolvere del mercato.

 

Quando i soldi sono tornati a “mancare”

Sul finire degli anni settanta, quando il movimento dei lavoratori era nel pieno della sua forza, proprio grazie alla trasformazione realizzata, intervenne un cambiamento radicale, che, restando incompreso, minò alla base quell’accenno di egemonia. Di che cosa si è trattato? E perché non fu compreso?

La spesa pubblica, riattivando la circolazione produttiva, garantiva, infatti, “un sostegno” anche al settore privato, attraverso il meccanismo noto come moltiplicatore. Questo fenomeno dimostrava che la spesa pubblica non si esauriva in se stessa. Infatti i privati, che finalmente vedevano riaffluire quei soldi che prima mancavano per la loro stessa astensione dalla spesa, erano nuovamente in grado di metabolizzare molti bisogni anche nella forma della domanda privata. Quando lo Stato spendeva, non doveva così aumentare le imposte, appunto perché, per l’effetto combinato delle due spese, il reddito nazionale cresceva in misura multipla rispetto alla spesa iniziale, garantendo così la copertura del deficit senza un aumento delle imposte e senza sottoscrivere un debito.

Tutto sembrava procedere senza intoppi. Ma dalla fine degli anni settanta le cose cambiarono radicalmente. Lo Stato infatti continuava a spendere per soddisfare in misura crescente bisogni sociali, ma i privati non riuscivano a far tornare nuovamente in circolo, con nuovi investimenti, il denaro che affluiva loro, perché continuavano a “condizionare” la propria spesa al perseguimento del profitto.

L’aumento del reddito divenne di anno in anno più contenuto, fino a ristagnare, determinando una contrazione delle entrate fiscali. Il deficit cominciò così a crescere. Invece di procedere come aveva suggerito Keynes, accettando quel deficit, e coprendolo con l’emissione di “un denaro fittizio” (del tutto simile a quello creato dalle banche), che avrebbe permesso di agire al di là dello spontaneo afflusso del denaro, si tornò (in Europa) alle politiche dei tagli e dei sacrifici, e dell’aumento delle imposte e del debito, subordinando nuovamente la soddisfazione dei bisogni ai limiti imposti dalla riproducibilità del denaro.

 

La profezia di Keynes

Sin dal 1930, Keynes aveva previsto che, noi suoi nipoti, avremmo finito col precipitare in uno stato confusionale e in una nuova crisi. La strategia che proponeva, affidandosi alla spesa pubblica per “creare il lavoro necessario e possibile”, avrebbe funzionato solo per una fase storica, ma poi sarebbe nuovamente insorta una difficoltà di impiegare le risorse disponibili nella riproduzione del lavoro anche attraverso l’intervento dello Stato. Non si sarebbe più trattato di continuare ad affermare quella che Beveridge definiva come “una signoria dello stato sul denaro”, perché il denaro – non solo quello speso “come capitale”, ma anche quello speso “come reddito” – non sarebbe più stato il mediatore efficace della cooperazione produttiva. La società non sarebbe cioè stata più in grado di rivitalizzare la domanda, e con essa di riprodurre il lavoro. Pur essendo stata emancipata dalla miseria nera del passato, avrebbe avuto difficoltà a imparare a formulare i bisogni emergenti in forme corrispondenti alla possibilità di soddisfarli.

Ma la proposta di Keynes, di introdurre “giornate lavorative di tre ore e settimane di quindici”, è stata del tutto ignorata, e invece di battersi per una “redistribuzione del lavoro tra tutti”, siamo tornati a tollerare che i governanti dichiarino che dobbiamo “stringere la cinghia” perché “non ci sono i soldi”, buttando a mare la conoscenza ormai secolare, che quelli mancano perché stiamo pretendendo di muoverci come avevamo imparato a fare nel vecchio mondo, invece di “esplorare” le possibilità insite nel mondo in evoluzione.

 

 
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