Il disegno di legge Calderoli sulla autonomia differenziata ha superato il voto del Senato ed ora dovrà essere esaminato dalla Camera. Calderoli ha cantato vittoria, ma il percorso del suo provvedimento è tutt’altro che privo di ostacoli. Il disegno di legge costituzionale di iniziativa popolare (per abbreviare: Lip) che modifica parti del titolo V della Costituzione sciaguratamente introdotto dal centrosinistra nel 2001, è stato respinto con voto negativo dal Senato. Esito tutt’altro che sorprendente, visti i rapporti di forza esistenti.
Eppure non è stata vana la presentazione, poiché ha saputo prima aprire una discussione nel paese, poi costringere l’aula del Senato a parlarne, quindi unificare le opposizioni, dall’Alleanza Verdi Sinistra fino ad Italia Viva, passando per il Pd e il M5stelle, nel voto a favore della Lip. Di questi tempi non è poco.
Ora la Lip bocciata al Senato potrebbe essere ripresentata alla Camera dalle forze di opposizione, e mettere i bastoni tra le ruote del cammino del ddl Calderoli. Soprattutto vi è la possibilità, oltre a quella di ricorrere a un referendum abrogativo, che una Regione possa in tempi brevi “promuovere la questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Consulta entro sessanta giorni dalla pubblicazione della legge o dell’atto avente valore di legge” (secondo comma dell’articolo 127 della Costituzione). In questo senso si sono già pronunciati il presidente della giunta regionale campana, e quello della giunta pugliese.
Non solo, ma è anche possibile che un Comune, così come è stato richiesto esplicitamente al Comune di Napoli da Massimo Villone, presidente del Coordinamento per la Democrazia Costituzionale, apra una consultazione sulla legge fra i cittadini. Se questo avvenisse, si metterebbe ancora più in luce l’opposizione di parti considerevoli, e in alcune regioni maggioritarie, della società civile al progetto governativo che promuove la secessione dei ricchi, e lo spaccamento dell’Italia in un sistema di staterelli-regione. Vedremo nei prossimi giorni.
Intanto la maggioranza di governo è dovuta ricorrere a modifiche al suo stesso testo sul premierato, viste le evidenti incongruenze che esso conteneva. Ma le modifiche apportate non migliorano il primitivo disegno di legge costituzionale, anzi per molti aspetti lo peggiorano e lo rendono persino più confuso e contraddittorio. A quest’ultimo riguardo basta fare un esempio che concerne la questione di cosa succede a seguito di una fiducia negata al governo. Il nuovo testo emendato si “dimentica” di normare il caso della bocciatura della questione di fiducia posta dal governo ad un articolo di legge, come l’articolo unico di conversione di un decreto legge (caso frequentissimo come sappiamo) o ad un emendamento. Che deve fare in questo caso il presidente della Repubblica? Sciogliere le camere o cercare di mettere in piedi un nuovo governo? O che altro? Il nuovo testo governativo non lo dice, il che è indice – come ha giustamente scritto il costituzionalista Francesco Pallante – “di un dilettantismo o di un cinismo senza pari” o di entrambe le cose, aggiungerei.
Tuttavia non sono tanto queste incongruenze ad allarmare, quanto il fatto che la sostanza del disegno meloniano rimane inalterata. La presidente del Consiglio vuole annichilire la funzione del Parlamento e del presidente della Repubblica da ogni punto di vista, in modo di lasciare mano libera al o alla premier eletto/a dal popolo. Un simile disegno si può solo sconfiggere non emendare. È in gioco la sopravvivenza della Repubblica nata dalla Resistenza, che la Meloni vuole cancellare per dare vita alla cosiddetta Terza Repubblica.
Per farlo deve smantellare la natura parlamentare del nostro sistema democratico, l’equilibrio esistente tra i suoi poteri. Lo vuole fare tramite uno stravolgimento del testo costituzionale e una nuova legge elettorale marcatamente maggioritaria, con premio di maggioranza. Anche se nel testo finale non dovessero comparire soglie sopra le quali dovrebbe scattare questo premio, ciò che importa alla Meloni è sancire in Costituzione il principio maggioritario. Sarà poi una nuova legge elettorale a fare il resto.
La questione fondamentale è quindi che in seconda lettura il ddl governativo non venga approvato con la maggioranza dei due terzi, che impedirebbe la convocazione del referendum. Ma ecco che esponenti della destra governativa e del centrosinistra, Pd compreso, (da Marcello Pera a Stefano Ceccanti, passando per Pietro Ichino, Enrico Morando, Angelo Panebianco, per fare solo qualche nome) si muovono per trovare un’intesa bipartisan, nella speranza che un maquillage al testo governativo spinga i due terzi del Parlamento a votarlo.
Un tentativo che va respinto alla radice. Non solo perché non cambierebbe il principio dell’accentramento dei poteri in un’unica persona, ma anche perché sarebbe clamoroso che proprio su un disegno di legge che vorrebbe affidare al popolo la scelta del premier, sia vietato al popolo di potersi esprimere tramite referendum.