Lo spettro che in questo ultimo mese si aggira per l’Europa ha le sembianze di un trattore e l’ombra di una protesta, quella degli agricoltori, che ha un portato di mille sfaccettature e connotazioni diverse nei vari Paesi europei, seppur apparentemente legate dal filo verde dell’agenda europea verso la Politica agricola comune (Pac).
In Italia la questione ha tante altre gradazioni di problematiche, strumentali e non. Le proteste vengono animate da una avversità contro la politica europea del Green Deal, additato come un progetto di “estremismo ambientalista” contro la produzione agricola e i consumatori; e contro gli accordi commerciali di libero scambio come il Ttip e il Merconsur (anche il nostro sindacato conduce una battaglia contro questi due Trattati). Poi ci sono alcune rivendicazioni contro norme fiscali e tributarie che gli agricoltori vorrebbero azzerate.
Da molti dati forniti da autorevoli osservatori di settore il comparto, almeno nel nostro Paese, sta vivendo una fase di difficoltà riconducibile a fattori esogeni come la finanziarizzazione delle commodities agricole (il loro prezzo è anche termometro delle crisi finanziarie e speculative a livello globale), e da molti fattori endogeni che caratterizzano in senso negativo l’agricoltura italiana.
Sinteticamente, questi fattori negativi sono riconducibili alle caratteristiche strutturali del tessuto imprenditoriale agricolo, ovvero la ridotta dimensione aziendale in termini economici e di superficie, senilizzazione e bassa scolarizzazione dei capi azienda; produttività molto inferiore rispetto a quella degli altri settori economici; investimenti su dotazioni infrastrutturali insufficiente; carente offerta di servizi alle imprese.
A queste si aggiungono alcune specifiche carenze organizzative del settore. Ad esempio, il disequilibrio tra prezzi al consumo e alla produzione; elevata numerosità degli attori coinvolti nei processi di commercializzazione; carente capacità degli operatori di organizzarsi e strutturarsi facendo rete; bassa capacità di concentrazione dell’offerta dei prodotti agricoli e dei prodotti di qualità; criticità nel rapporto tra settore agricolo da un lato e trasformazione-commercializzazione dall’altro. Infine si aggiungono sia le criticità di tipo territoriale, che riguardano in particolare le aree interne del nostro Mezzogiorno, sia la bassa propensione all’innovazione e all’associazionismo del nostro settore agricolo.
Tutto questo ci dice una cosa precisa: al pari delle politiche industriali, in questo Paese non si ha una visione d’insieme chiara e strutturale su che tipo di agricoltura vogliamo sviluppare in Italia, come la vogliamo processare e organizzare in un contesto globale di cambiamenti climatici e ambientali, sostenibilità delle produzioni, giustizia alimentare, diritto di accesso al cibo di qualità a tutti e dignità del lavoro libero da sfruttamento lavorativo in ogni sua declinazione.
In questo quadro è giusto sottolineare che dagli anni ‘90 in poi il nostro Paese ha abdicato alla gestione complessiva e strategica delle politiche interne di settore, lasciando il passo alla frammentazione regionale e delegando in toto la questione all’Ue. Per cui il tema della sovranità alimentare oggi appare un argomento tremendamente serio ma ridotto ad un mero titolo ministeriale intriso di propaganda, privo di significato e vuoto nei contenuti.
È vero che c’è un tema assolutamente concreto: il settore primario è alla mercé delle grandi catene distributive, che remunerano marginalità spesso così ridotte da non riuscire neppure a sostenere il costo di produzione. Ma dal punto di vista sindacale occorre innestare in questa discussione il tema del lavoro e di chi quotidianamente, con fatica e sudore, contribuisce con il proprio lavoro a garantire il cibo sulle nostre tavole, i lavoratori spesso vittime di sfruttamento lavorativo e caporalato.
Le norme europee del Green Deal e della Pac (contestate ma votate anche dall’attuale governo) devono essere da stimolo per gettare le basi per una agricoltura sostenibile dal punto di vista ambientale e produttivo, attraverso gli investimenti messi a disposizione dall’Ue. Se questo settore vuole sopravvivere, e contestualmente dare un contributo a migliorare le condizioni ambientali e climatiche del pianeta, deve necessariamente rinnovarsi e cogliere le sfide che queste criticità ci impongono come riflessione e impegno collettivo. Le coltivazioni intensive, le irrorazioni massicce di fertilizzanti chimici anche proibiti e dannosi per la salute, gli allevamenti intensivi stanno distruggendo l’ambiente e gli insetti impollinatori, nonché rendendo le superfici agricole sterili. Questo è il quadro reale della situazione.
Infine è irrinunciabile la condizionalità sociale introdotta nella Politica agricola comunitaria, che come sindacato rivendichiamo con fermezza, perché riteniamo ingiusto che le risorse pubbliche vadano anche a chi non rispetta la dignità di lavoratori e lavoratrici, non applicando i contratti collettivi o non rispettando l’ambiente quale patrimonio collettivo e bene comune.