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Lo sciopero generale del 17 novembre – il primo delle cinque giornate modulate per regioni e settori - è riuscito, sul piano politico e delle adesioni. Alla faccia della illegittima violenza della precettazione, degli attacchi al diritto di sciopero, della campagna denigratoria contro Cgil e Uil che, senza la Cisl filogovernativa, lo hanno indetto contro le politiche economiche e sociali del governo. Un governo pericoloso di lobbisti, vigliacco e oscurantista, classista e padronale verso il mondo del lavoro dipendente, crudele verso i meno abbienti, i più fragili, i migranti, i pensionati, i giovani e le donne.
Il mondo del lavoro pubblico e privato ha risposto nonostante i costi economici, le minacce e i ricatti subiti.
Con determinazione e coerenza sindacale abbiamo proclamato e sostenuto lo sciopero, in continuità con le nostre mobilitazioni, per dare voce e speranza a un paese che sta pagando il prezzo della crisi. Esercitiamo il diritto di sciopero contro chi vorrebbe cancellarlo, come nel ventennio.
Non era facile. Abbiamo riportato al centro del confronto politico il lavoro, le condizioni materiali e sociali delle persone, facendo vivere nel paese la nostra piattaforma rivendicativa, il merito sindacale e politico, la difesa della scuola e della sanità pubblica, la nostra idea di società e di futuro.
Facciamo vivere la caparbia volontà di difendere la Costituzione antifascista e la democrazia partecipata, rappresentativa e parlamentare, perché la questione istituzionale è da sempre questione sociale.
Questo governo classista, liberista, razzista e securitario va fermato. Stanno costruendo un regime autoritario nel quale il conflitto, fonte vitale per la democrazia e il cambiamento, viene denigrato e colpevolizzato, il diritto di sciopero attaccato, il sindacato messo alla gogna.
Il pensiero unico si sta insediando nel paese con l’occupazione del potere, delle istituzioni, dei media, con la demagogia del premierato, con la scissione dei ricchi e lo svuotamento del Parlamento. Un progetto generale reazionario che non va sottovalutato. Vogliono un governo con potere autoritario e centralizzato, oligarchico, con l’ordoliberismo come disegno ideologico; uno Stato che si piega al mercato senza l'intermediazione delle rappresentanze sociali.
Abbiamo bisogno di radicalità, di andare alle cause che producono povertà e diseguaglianza di genere e di classe. Non ci facciamo intimidire! La situazione economica e sociale è destinata a peggiorare per le guerre, la crisi climatica, una situazione internazionale conflittuale e con un’Unione europea divisa e priva di ruolo, per le scelte classiste del governo. Continueremo la mobilitazione con altri scioperi generali, costruendo una diffusa consapevolezza per allargare un ampio fronte sindacale e sociale e chiamare il popolo democratico e di sinistra a riempire ancora il Circo Massimo.
La lotta di classe non è mai finita.
Presentato nel giorno dello sciopero di Cgil e Uil contro la manovra economica del governo Meloni che, fra le tante, riesce a peggiorare la già indigeribile legge Fornero e attua una “riforma” fiscale che premia chi sta meglio e punisce chi sta peggio, il Rapporto Caritas 2023 su povertà ed esclusione sociale in Italia offre una radiografia impietosa dello stato delle cose.
“Dopo quasi trent'anni dalla prima uscita del Rapporto - sottolinea la Caritas - il fenomeno della povertà può dirsi completamente stravolto nei numeri e nei profili sociali. Si contano oltre 5 milioni 674mila poveri assoluti, pari al 9,7% della popolazione: un residente su dieci oggi non ha accesso a un livello di vita dignitoso. È un fenomeno ormai strutturale e non più residuale come era in passato”.
Ai tantissimi che hanno rinunciato a una giornata di paga nelle fabbriche, nei laboratori, nei negozi e negli uffici per dire “Adesso basta!” e chiedere giustizia sociale, il documento conferma quanto le realtà sindacali che hanno incrociato le braccia, a partire dalla Cgil, abbiano ragione. Perché oggi in Italia si è poveri anche lavorando.
I lavoratori poveri che si rivolgono alla Caritas sono il 22,8% dell'utenza. Il 51,9% sono uomini, il 48,1% sono donne, gli stranieri il 64,9%. L'età compresa è fra i 35 e i 55 anni, i coniugati sono il 53,7%, il 75,9% con figli. Il 76,7% vive in case in affitto. Si tratta di impiegati in professioni poco qualificate: colf, badanti, addetti alle pulizie, operai, manovali, impiegati nella ristorazione e nel commercio. “A loro il lavoro non basta – certifica anche la Caritas - non sempre garantisce una vita dignitosa per sé stessi e per la famiglia. “Sopravvivere´ è la parola più citata: una condizione che mette in rilievo la consapevolezza di non avere aspettative, di non riuscire spesso a vivere una vita piena. Sono lavoratori in nero, in grigio, part time forzati, con contratti regolari ma tutti con salari inadeguati”.
Una testimonianza diretta sulla situazione a Gaza dopo il 7 ottobre.
Sono arrivata a Gaza il 19 settembre scorso. Una missione che mi avrebbe vista impegnata nella visita ai nostri bambini e bambine, 206, inseriti nel progetto Gazzella di adozione a distanza; per verificare le attività delle cliniche dentali di Shaty camp e El Burej che abbiamo rinnovato, e il monitoraggio dei servizi del progetto dell’Associazione Fonti di Pace, finanziato con l’8xmille della Chiesa Valdese, per la riabilitazione di bambini e adulti con disabilità.
Quando il 7 ottobre sono iniziati i bombardamenti, ero ancora presso la struttura del Palestinian Medical Relief Society (P.M.R.S.), nostro partner a Gaza. I bombardamenti, fin da subito intensi, hanno determinato l’immediata chiusura di scuole e uffici. I primi morti per strada li ho visti davanti alla sede del P.M.R.S., causati da una bomba che aveva colpito l’edificio a fianco del nostro.
Nei giorni successivi sono stata testimone al pronto soccorso del Al El Quds Hospital dei risultati dei bombardamenti contro i civili: le ambulanze trasportavano anche più di un ferito, altri arrivavano con mezzi privati. La situazione era drammatica: arti staccati e messi in sacchi di plastica, ferite e bruciature profonde causate dal fosforo bianco, casi di soffocamento perché rimasti sotto le macerie o a causa dei gas delle bombe.
Situazione sanitaria
Dal 2007 la striscia di Gaza è sotto assedio, e prima ancora dell’aggressione del 7 ottobre gli ospedali e le strutture sanitarie lamentavano la cronica mancanza di medicinali, strumentazioni e attrezzature per la cura e la prevenzione. Fin dai primi giorni dell’aggressione il taglio dell’energia elettrica ha costretto le strutture sanitarie a dipendere dai generatori e dai pannelli solari. Oggi, dopo oltre un mese dall’inizio dei bombardamenti, si contano più di 11mila morti, di questi il 40% sono bambini, e più di 30mila feriti. Il direttore dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha dichiarato che “a Gaza nessuno è sicuro e un bambino muore ogni 10 minuti”.
Si denunciano continui attacchi contro centri sanitari, ospedali e distretti sanitari. Il Baptist Alj Hospital è stato bombardato, con oltre 500 morti. Sotto i bombardamenti le ambulanze raggiungono i feriti con grande difficoltà, e gli attacchi israeliani non le risparmiano: 57 ambulanze colpite e 198 operatori sanitari uccisi. Gli ospedali sono al collasso. Si opera senza anestesia, si disinfetta con l’aceto e i materiali sanitari monouso sono finiti. I corridoi degli ospedali sono pieni di feriti sistemati per terra, obitori traboccanti e migliaia di persone occupano gli spazi esterni degli ospedali, parcheggi e giardini, nella speranza di trovarsi in un posto sicuro.
Bambini e adulti malati oncologici non possono essere curati, lo stesso per i malati cronici o che hanno bisogno di dialisi. Almeno 120 neonati nelle incubatrici degli ospedali di Gaza sono a rischio a causa dell’esaurimento del carburante, che serve per il funzionamento delle attrezzature.
Le forze di occupazione israeliane hanno ripetutamente bombardato e chiesto l’evacuazione degli ospedali El Shifa, Naser, El Quds, Indonesian, Ranteesi. Quest’ultimo è un ospedale pediatrico dove c’è l’unico centro oncologico dedicato ai bambini, ne sono ricoverati 63 di cui 15 in terapia intensiva, dieci attaccati ai respiratori e altri 38 che necessitano di ricovero.
L’ articolo 18 della IV Convenzione di Ginevra cita “Gli ospedali civili organizzati per prestare cure ai feriti, ai malati, agli infermi e alle puerpere non potranno, in nessuna circostanza, essere fatti segno ad attacchi; essi saranno, in qualsiasi tempo, rispettati e protetti dalle Parti in conflitto”. Israele nel corso dell’aggressione ha più volte calpestato il disposto della IV Convenzione di Ginevra articolo 18, in palese violazione del Diritto umanitario internazionale.
L’intero sistema sanitario a Gaza sta crollando. Il personale sta lavorando dal 7 ottobre scorso in condizioni estreme e senza sosta. Esausti, a fatica danno assistenza ai feriti. Sono esauriti farmaci, ventilatori, materassi su cui mettere i feriti, disinfettanti e materiali medicali adeguati per la cura, quali i fissatori. Questa situazione impone scelte drastiche come le amputazioni degli arti quale unica soluzione.
Dall’inizio dell’aggressione Israele ha impedito l’entrata regolare degli aiuti umanitari: acqua, farmaci e generi alimentari. Il gasolio non è stato autorizzato in quanto Israele si oppone alle consegne di carburante, sostenendo che potrebbe essere confiscato da Hamas ed usato per i combattimenti. La mancanza di gasolio ha portato al collasso dei servizi sanitari.
In una situazione di normalità a Gaza entrano circa 500 convogli al giorno. Dall’inizio dell’aggressione sono entrati a singhiozzo non più di 20 convogli al giorno.
La popolazione civile ha dovuto abbandonare le case per imposizione di Israele
L’Unrwa (agenzia Onu per i rifugiati palestinesi) parla di 1.700.000 persone evacuate dalle loro case, che significa il 70% della popolazione di Gaza. Ci sono ancora civili che stanno sfollando, sotto i bombardamenti e senza corridoi umanitari. Circa 700mila civili sono ospitati presso strutture Unrwa, scuole o sedi logistiche. Altri presso le scuole governative, in case di parenti o negli spazi adiacenti agli ospedali, parcheggi e giardini. Unrwa è in grado di fornire giornalmente un panino e una scatoletta di carne a persona. La fame è tanta. Lo scatolame, dopo i bombardamenti di supermercati e negozi alimentari, resta l’unica risorsa. La mancanza di gasolio, cibo e acqua - si beve acqua inquinata da nitriti e nitrati e contaminata da metalli pesanti - ha ridotto i palestinesi allo stremo.
L’aggressione in corso espone i bambini a episodi estremamente traumatici. Non hanno un luogo sicuro dove rifugiarsi, sono privati di qualsiasi senso di sicurezza, in migliaia sfollati dalle loro case, circondati da morte e sangue. Ansia, paura, preoccupazione per la propria sicurezza e per quella dei propri cari, incubi e ricordi inquietanti, insonnia, difficoltà a esprimere le proprie emozioni. È un’esposizione a traumi di guerra che ha un forte impatto sull’equilibrio mentale anche degli adulti.
Nella striscia di Gaza è in corso un’aggressione armata senza precedenti. Non possiamo parlare di guerra. Ci troviamo di fronte ad uno scontro tra uno degli eserciti più potenti al mondo e un insieme di corpi combattenti che hanno a disposizione armi non sofisticate, lanci di razzi per la maggior parte intercettati dagli Iron Dome.
Dall’inizio dell’aggressione Israele ha sganciato 30mila tonnellate di bombe sulla popolazione civile di Gaza. Saranno devastanti le conseguenze sull’ambiente e sulle persone: inquinamento atmosferico e contaminazione del suolo e dell’acqua compromettono qualsiasi uso produttivo. Un bombardamento atomico a rate.
Quale democrazia?
Oggi nella striscia di Gaza è in corso un genocidio. Malgrado ciò si parla di Israele quale unica democrazia del Medio Oriente che va difesa e giustificata. Uno Stato democratico si basa su valori, principi e pratiche che lo qualificano: libertà, uguaglianza, solidarietà, diritti universali esigibili e convivenza di etnie, culture e religioni diverse, dove i cittadini sono gli esclusivi detentori del potere politico. Non è democrazia quella di Israele che non ha una Costituzione come indirizzo di valori e diritti comuni, non ha definito e posto limite ai suoi confini, si è data una legge che la qualifica come Stato nazione degli ebrei.
Il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha dichiarato lo scorso 24 ottobre alla riunione del Consiglio di Sicurezza: “E’ importante riconoscere che gli attacchi di Hamas non sono venuti dal vuoto. Il popolo palestinese è stato sottoposto a 56 anni di soffocante occupazione. Hanno visto la loro terra costantemente divorata dagli insediamenti e tormentata dalla violenza: la loro economia soffocata; la loro gente sfollata e le loro case demolite; le speranze di una soluzione politica alla loro situazione sono svanite. Ma le rimostranze del popolo palestinese non possono giustificare gli spaventosi attacchi di Hamas. E questi terribili attacchi non possono giustificare la punizione collettiva del popolo palestinese”. Una dichiarazione che fa riflettere sulla storia del popolo palestinese.
È difficile ipotizzare il dopo, ma sicuramente nulla sarà più come prima. Dalle relazioni con i nostri colleghi e partner locali a Gaza, dal nostro modo di intervenire e portare gli aiuti e solidarietà alla popolazione. Un senso di impotenza accompagnerà il nostro agire futuro, perché quello che sta accadendo nella striscia di Gaza è una sconfitta per tutti noi.
13 novembre 2023
La Palestina, come il resto del mondo arabo, è stata sotto il dominio ottomano dal 1516 fino al 1914, quattrocento anni.
1917 – Dichiarazione Balfour: il 2 novembre, il governo britannico promette a Lord Rotschild la creazione di un “focolare nazionale per il popolo ebraico” in Palestina. All’epoca solo il 4% della popolazione è di religione ebraica, mentre il 20% è costituito da cristiani e il 76% da musulmani.
1919 – Il Congresso Nazionale Palestinese respinge la dichiarazione di Balfour e chiede l’indipendenza della Palestina.
1922 – La Società delle Nazioni affida alla Gran Bretagna il Mandato sulla Palestina. L’amministrazione britannica incoraggia l’immigrazione ebraica.
1947 – Il 29 novembre, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, per mezzo della risoluzione 181, approva il Piano di partizione della Palestina tra uno Stato per gli arabi palestinesi e uno per gli ebrei, ed assegna a questi ultimi il 56% della Palestina, mentre all’epoca rappresentano il 33% della popolazione e detengono solo il 6% delle terre.
1948 – I britannici rinunciano al Mandato lasciando il problema in mano alle Nazioni Unite.
1948-1949 – Il 14 maggio 1948 Israele proclama la propria indipendenza: per i palestinesi è la Nakba (Catastrofe), che costringe 800mila palestinesi all’esodo mentre 531 villaggi vengono rasi al suolo. L’11 dicembre, l’Onu adotta la Risoluzione 194 con cui chiede a Israele di consentire il ritorno dei rifugiati.
1967 – Tra il 5 e il 10 giugno, durante la guerra dei Sei Giorni contro gli arabi, Israele occupa il resto della Palestina storica, cioè la Cisgiordania, la Striscia di Gaza e Gerusalemme est. Il 22 novembre, la Risoluzione 242 delle Nazioni Unite esige il ritiro di Israele dai Territori Occupati.
1982 – Il 6 giugno Israele lancia contro il Libano la cosiddetta “Operazione Pace in Galilea”. Tra il 16 e il 18 settembre, milizie libanesi protette dall’esercito invasore israeliano entrano nei campi profughi di Sabra e Shatila e massacrano oltre tremila palestinesi, per lo più vecchi, donne e bambini.
1987 – L’8 dicembre nei Territori occupati esplode la Prima Intifada, sollevazione popolare nonviolenta, per chiedere l’autodeterminazione e l’indipendenza del popolo palestinese.
1988 – Il 15 novembre, durante la sessione del Consiglio Nazionale Palestinese dell’Olp riunito ad Algeri, Yasser Arafat proclama lo Stato indipendente di Palestina sui confini del 4 giugno 1967.
1993-1995 – Gli Stati Uniti promuovono tra i rappresentanti della Palestina e quelli di Israele una serie di incontri, noti come Accordi di Oslo, che si interpretano come il primo passo verso la creazione di uno Stato palestinese. Durante il cosiddetto “processo di pace”, Israele raddoppia il numero degli insediamenti illegali nei territori palestinesi.
2000 - La visita provocatoria di Ariel Sharon (allora capo dell’opposizione parlamentare in Israele) sulla Spianata della Moschea di Gerusalemme provoca l’inizio della Seconda Intifada.
2000 - L’iniziativa di pace della Lega Araba offre a Israele il riconoscimento e la pace in cambio del ritiro dai Territori occupati nel 1967 e di una soluzione al problema dei rifugiati palestinesi. Israele ignora la proposta, invade tutte le città palestinesi e comincia la costruzione del muro dell’apartheid (2002).
2003-2004 – Il presidente Yasser Arafat è in stato d’assedio all’interno della Muqata di Ramallah. Il 9 luglio la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja dichiara che “la costruzione del muro e il regime che lo accompagna sono contrari al diritto internazionale”. L’11 novembre 2004 l’intenzione di eliminare Yasser Arafat culmina con la sua morte.
2008-2009 – Israele compie una brutale aggressione contro il popolo palestinese nella Striscia di Gaza, assassinando 1.500 palestinesi e ferendone 5.500. Migliaia di abitazioni, centri commerciali, scuole e luoghi di culto vengono distrutti.
2010 - Le forze di occupazione israeliana continuano con la confisca di terre e proprietà dei palestinesi in Cisgiordania e a Gerusalemme Est per la costruzione degli insediamenti di coloni israeliani. La politica di Israele a Gerusalemme si basa sulla pulizia etnica, culturale e religiosa dei palestinesi.
2012 – Il 14 novembre, Israele lancia un’altra offensiva militare aerea contro la Striscia di Gaza che dura una settimana. La cosiddetta “operazione Pilastro di Difesa” causa la morte di 167 palestinesi. Il 29 novembre l’Assemblea Generale dell’Onu, con il voto favorevole di 138 Paesi compresa l’Italia, approva la Risoluzione A/RES/67/19 che riconosce la Palestina come Stato Osservatore delle Nazione Unite.
2014 – L’8 luglio Israele scatena un’altra devastante aggressione contro Gaza che dura fino al 26 agosto. La cosiddetta “Operazione Margine di Protezione” uccide 2.104 palestinesi, tra cui 495 bambini e 253 donne.
2015 – Il 30 settembre, 119 paesi, compresa l’Italia, votano a favore dell’innalzamento della bandiera palestinese sul Palazzo dell’Onu.
2016 – Il 18 ottobre l’Unesco approva una risoluzione intitolata “Palestina occupata” che riguarda la città vecchia di Gerusalemme. La risoluzione, al fine di tutelare il patrimonio culturale palestinese, riconosce il “Monte del Tempio” con il solo nome arabo Haram al Sharif (Spianata delle Moschee), definisce Israele una “potenza occupante” e critica il modo in cui gestisce l’accesso ai luoghi sacri; chiede ad Israele di rispettare lo status quo della città di Gerusalemme in vigore prima del settembre del 2000 (la Spianata delle Moschee sotto il controllo del ministero giordano degli Affari islamici e dei luoghi sacri). Il 23 dicembre, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, approva, con l’astensione degli Stati Uniti, la risoluzione 2334 che condanna gli insediamenti israeliani.
2017 – Il 14 gennaio il presidente Abu Mazen inaugura l’Ambasciata dello Stato di Palestina presso la Santa Sede. Il 27 maggio, dopo 40 giorni di digiuno, termina uno dei più imponenti scioperi della fame mai portati avanti dai detenuti nelle carceri israeliane, cui partecipano 1.800 prigionieri palestinesi. Il 6 dicembre il presidente Usa Trump proclama Gerusalemme capitale di Israele. Con la sola eccezione degli Usa e il voto favorevole dell’Italia, il Consiglio di Sicurezza il 18 dicembre respinge la decisione di Trump, con la risoluzione ripresa e approvata dall’Assemblea Generale delle Nazione Unite il 21 dicembre dello stesso anno.
2018 – Il 30 marzo la popolazione palestinese di Gaza intraprende la “Grande Marcia del Ritorno”, subendo una tremenda repressione da parte dell’esercito israeliano che causa più di 200 morti e migliaia di feriti. Il 18 luglio la Knesset (il Parlamento israeliano) approva una legge che qualifica Israele come “Stato – nazione del popolo ebraico”. Il 31 agosto gli Usa decidono di uscire dall’Unrwa, l’agenzia dell’Onu per l’assistenza ai profughi palestinesi, fondata nel 1949, l’8 settembre di annullare lo stanziamento annuale per i sei ospedali palestinesi di Gerusalemme Est, e il 10 settembre di chiudere la sede dell’Olp a Washington.
2020 – Il governo israeliano, con il sostegno del presidente degli Usa Trump, annuncia la sua intenzione di annettere parte della Cisgiordania, annuncio mai realizzato finora grazie alla reazione del popolo palestinese e alle proteste di tanti Paesi. Il presidente dell’Anp Abu Mazen ha reagito duramente all’annuncio del governo israeliano di essere pronto ad annettere parte della Cisgiordania, dichiarando “finiti” tutti gli accordi con Israele e Stati Uniti.
2023: L’attacco militare omicida di Hamas e la guerra scatenata da Israele contro Gaza hanno causato finora oltre 50mila vittime tra morti, feriti e dispersi da entrambi le parti.
Tre gli scenari possibili per il prossimo futuro
Deportazione della popolazione di Gaza fuori dalla Striscia, ripresa della colonizzazione della Cisgiordania con nuovi insediamenti. Questo scenario porterebbe israeliani e palestinesi a vivere in un contesto di guerra permanente, con i rischi di instabilità militare e politica in tutto il Medio Oriente.
Recuperare in modo immediato l’equazione “due Stati per due popoli” attraverso la convocazione di una Conferenza Internazionale di Pace, sotto l’ombrello della Nazione Unite, che sancisca la fine dell’occupazione militare di Israele e la nascita dello Stato palestinese, in base al diritto e alla legalità internazionale.
Formare uno Stato federale tra due Stati alla pari (Palestina e Israele) che garantisca i diritti a tutti i suoi concittadini, israeliani e palestinesi, in modo eguale senza nessun privilegio né discriminazione. In un progetto di questa portata sarebbero auspicabili due cose: in primis l’integrazione della Giordania in questa federazione, e in secondo luogo l’ammissione del nuovo Stato federale nell’Unione europea, per un progetto di ricostruzione socio economica e politica del nuovo Stato.
Quale di queste strade sarà perseguita dipende, in questo momento, dalla comunità internazionale e dalla sua volontà e capacità di intervenire nel conflitto armato per ricondurlo alla diplomazia, assicurando una soluzione politica giusta che restituisca speranza a questi popoli martoriati.