La lunga storia dell’escalation. “Resta solo la via della pace” - di Moshe Zuckermann

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Pubblichiamo la traduzione dell’intervista di Sarah Schmalz a Moshe Zuckermann, comparsa sul settimanale svizzero Die Wochenzeitung (Woz) numero 41 del 12 ottobre 2023.

 

Woz: Signor Zuckermann, quanto è grande lo sconvolgimento che Israele sta vivendo in questo momento?

Moshe Zuckermann: “Quello che stiamo vivendo da sabato (7 ottobre, ndr) è senza precedenti. Mai così tanti civili israeliani sono stati uccisi sul suolo israeliano. Senza precedenti è anche il fatto che Hamas penetri così in profondità, da poter massacrare e sequestrare persone indisturbata”.

 

Com’è potuto succedere?

“I servizi segreti hanno completamente fallito, ma anche tutto il lato operativo. Molte unità, alle quali in realtà competeva la protezione dei Kibbuzim nel sud, erano state portate in Cisgiordania per sorvegliare feste religioso-sioniste. È un fiasco inimmaginabile che ha anche a che fare con il fatto che la politica israeliana negli ultimi tempi ha affrontato Hamas con una nonchalance che bisogna quasi definire arroganza. Il governo credeva che Hamas non avesse interesse in un attacco a Israele”.

 

Di questo attacco resteranno impresse soprattutto le immagini del massacro in un festival musicale dove Hamas ha massacrato e sequestrato giovani che festeggiavano. Lei ha criticato la nonchalance del governo nei confronti dell’avversario. Ma da anni mette anche in guarda rispetto al fatto che la politica di occupazione non porta sicurezza a Israele. Una posizione che a fronte dell’orrore di Hamas è difficile da sostenere?

“Non assolvo Hamas in alcun modo dalla responsabilità per il massacro. Hamas è un’associazione terroristica fondamentalmente cattiva. Ma il terrorismo nasce sempre in un contesto. Israele si è ritirato dalla striscia di Gaza nel 2005, ma continua a tormentare la popolazione che vi è intrappolata, per esempio controlla la fornitura di elettricità. E Israele dopo attacchi con razzi ha ripetutamente bombardato la Striscia di Gaza, con migliaia di vittime civili. Se collettivamente si controlla e si uccide abbastanza a lungo, si promuove il terrorismo. Va anche detto – e questo è uno dei paradossi più grandi - che Israele è stato l’ostetrico di Hamas. Politici destrorsi hanno sostenuto l’organizzazione dopo la sua nascita, anche finanziariamente. Perché si considerava la moderata Olp sotto il suo leader carismatico Yassir Arafat un pericolo per Israele, e la si voleva indebolire”.

 

I dibattiti sul Medio Oriente all’interno della sinistra a volte sono schematici in modo frustrante: da una parte coloro che considerano antisemita ogni critica nei confronti del governo israeliano, dall’altra diversi antisionisti che non vogliono chiamare per nome il terrorismo di Hamas. Lei personalmente si definisce un antisionista, ma mette il dito sulle ferite e sulle contraddizioni interne a Israele.

“Un antisionista pensa che il sionismo non sarebbe mai dovuto nascere. Io sono stato sionista perché avevo l’impressione che dopo il 1945 la fondazione di uno Stato degli ebrei fosse necessaria. Ma oggi non posso più essere sionista perché il sionismo si è rivelato ciò che nella sua impostazione è in effetti sempre stato: razzista e espansionista. Tutti i governi israeliani dal 1967 in poi, con la colonizzazione della Cisgiordania, hanno fatto in modo che il sionismo diventasse un regime di occupazione. Con questo, gli aspetti di conquista e appunto anche di vessazione ne sono anche diventati il tratto caratteristico. E anche la violenza e il terrorismo che l’occupazione genera. Io credo che se il sionismo non trova la via della pace, stia portando avanti il suo declino”.

 

Una delle sue tesi di base è che i governi israeliani per la maggior parte questa pace in effetti non l’avrebbero proprio voluta. Come arriva a questa analisi?

“Il fatto di volere la pace fin dall’inizio è stata la più grande bugia del progetto sionista. Già nel 1967 – a partire dal momento in cui aveva del territorio che si sarebbe potuto staccare per una soluzione pacifica – si è mostrato che questo in realtà non lo si voleva. Nessun governo israeliano ha percorso questa via. L’ex presidente del consiglio dei ministri Ehud Barak una volta disse che dall’altra parte non c’era un partner per la pace. Certamente anche i palestinesi hanno commesso errori. Ma Israele aveva molte più possibilità di mettere in moto un processo di pace. Invece ha costruito sempre più insediamenti, oggi in Cisgiordania vivono 600mila coloni. Far rientrare queste persone ormai non sembra quasi più possibile, a parte il fatto che alcuni in quel caso probabilmente prenderebbero le armi. I palestinesi invece oggi sono deboli come non mai”.

 

Lei arriva a dire che a partire dalla logica interna del sionismo non sia proprio possibile volere la pace.

“In effetti penso che il sionismo avrebbe potuto dispiegarsi anche in forma diversa. Forse tutto sarebbe stato diverso se l’ex presidente del consiglio Yitzhak Rabin avesse raggiunto un accordo di pace. Ma non è una coincidenza che Rabin sia stato assassinato da un fondamentalista sionista-religioso. A parte una prospettiva psicologica, si può sostenere anche la tesi: il progetto sionista non può volere la pace perché non ha mai creduto nella sua persistenza”.

 

Cosa intende?

“È stato sotto un segno negativo fin dall’inizio. Le condizioni di base per un moderno Stato nazionale non erano date: gli ebrei non erano in possesso del territorio, non erano un collettivo omogeneo e non era data nemmeno la base culturale della lingua nazionale. Quindi il consolidamento della società israeliana è stato sempre ‘ex negativo’, a partire dal negativo. Anche per questo la questione della sicurezza viene feticizzata e ideologizzata a tal punto. La società israeliana vive del fatto che la minaccia viene dall’esterno. Ma bisogna anche riflettere su cosa succederebbe se improvvisamente regnasse davvero la pace”.

 

Cosa accadrebbe?

“Le cuciture della società salterebbero. Israele è una società lacerata. Ci sono conflitti tra religiosi e non religiosi, tra gli ebrei sefarditi, ossia orientali, e gli ashkenaziti europei, tra i residenti da lungo tempo e i nuovi arrivati. Potrei elencare altre coordinate di conflitto”.
Per il governo attuale vale in particolare ciò che lei ha chiamato “feticizzazione della questione della sicurezza”: con la sua politica di occupazione oppressiva la coalizione consolida la situazione instabile, e il presidente del consiglio dei ministri Benjamin Netanyahu si presenta continuamente come l’uomo forte. Israele attualmente ha il governo più di destra radicale che abbiamo mai avuto. Netanyahu è coalizzato con i kahanisti ultrasionisti radicali di destra. Neanche evocano più la minaccia, ma dicono direttamente che gli arabi non hanno nulla da fare nel cuore del territorio israeliano e nei territori occupati. Viene richiesta apertamente una sostituzione di popolazione, pulizie etniche. Quando Meir Kahane, l’allora capo del movimento kahanista, negli anni ottanta chiese cose simili, non fu più ammesso alle elezioni. Oggi i kahanisti sono parte del governo e Netanyahu con Itamar Ben-Gvir ha nominato ministro della polizia il maggiore estremista. Quando uno come lui è ministro della polizia, quale sicurezza può aspettarsi la società civile? Cosa possono aspettarsi gli arabi in questo Paese? E in condizioni del genere, che naturalmente minano continuamente la pace, come si può anche solo immaginare di poter generare sicurezza?”.

 

E in questa situazione ora irrompe il terrorismo di Hamas. Gli attacchi sono una cesura. Ma in che direzione si andrà?

“Lo scenario più ottimista è la nascita di un nuovo movimento per la pace. Il movimento di protesta che in Israele da mesi scende in piazza contro la prevista riforma della giustizia, finora non ha posto la questione dell’occupazione. È tabù. Ogni politico che dovesse chiedere la pace con la premessa di un ritiro dai territori occupati, dello smantellamento degli insediamenti, della soluzione della questione di Gerusalemme e in qualche modo anche di un accordo sul tema del diritto al ritorno dei profughi palestinesi, nel giro di poche settimane politicamente sarebbe completamente finito. Attualmente parliamo del terrorismo, ma non del contesto generale della catastrofe. Netanyahu è riuscito a far semplicemente sparire la questione dei palestinesi dall’ordine del giorno israeliano. Dopo la guerra dello Yom-Kippur, il governo dell’epoca del partito laburista fu fatto cadere dalle proteste. In Israele dopo una guerra – che ora durerà per settimane o mesi - nel migliore dei casi si arriva a proteste che integrano l’elemento della pace. Dall’altra parte per via del terrorismo temo una sorta di regressione”.

 

In che senso?

“Rispetto alla percezione di Israele, che ora ha di nuovo le spalle coperte. Tutti solidarizzano con Israele, ma le persone non sanno con quale Israele a guida estremista stanno solidarizzando. Perfino il presidente Usa, Joe Biden, che per molto tempo ha tenuto a distanza Netanyahu, ora ha promesso aiuti militari. Israele, che nell’ultimo periodo è stato maggiormente criticato, improvvisamente è di nuovo la vittima, anche se in questo conflitto è esattamente l’opposto: la politica israeliana genera vittime. Ma ora sono stati attaccati cittadini israeliani. E non i coloni nazional-religiosi in Cisgiordania, ma Kibbuzim. Persone che spesso hanno un’impostazione socialista e vogliono la pace. Temo che ora la posizione di base della stagnazione potrebbe consolidarsi. Anche all’interno di Israele questa sarebbe una grande catastrofe, perché siamo governati da una banda criminale”.

 

Moshe Zuckermann (74 anni) è un sociologo israelo-tedesco e professore emerito di storia e filosofia all’università di Tel Aviv. È autore di libri sul conflitto in Medio Oriente, ha pubblicato anche: “Israels Schicksal. Wie der Zionismus seinen Untergang betreibt” (non tradotto in italiano).

 

FONTE: https://www.woz.ch/2341/die-lange-geschichte-der-eskalation/es-bleibt-nur-der-friedensweg/!EK6104XB2BH

 

 

Traduzione dal tedesco di Sveva Haerter

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