Ho letto il testo dei documenti congressuali e ascoltato gli interventi della segretaria generale Fp e della segretaria generale Cgil di Varese. La parola che spesso è stata citata è “crisi”, termine sul quale vorrei fare alcune riflessioni prendendo in prestito il titolo di un romanzo di Luigi Pirandello (a cui chiedo scusa).
Se è dalla fine degli anni ’80 e inizio ’90 che assistiamo ad un lento declino, accentuato dalla corsa al consumismo sfrenato, è nell’ultimo ventennio che queste “strategie” si ritrovano anche nelle relazioni sociali a tutti i livelli. I rapporti interpersonali sono stati troncati dal fiorire di social network che, utilizzati impropriamente, hanno isolato sempre più i cittadini (anche con fenomeni sempre più frequenti di Hikikomori, burn-out e cyber-bullismo), in un crescendo di fenomeno dell’“io” al centro del rapporto familiare e lavorativo, a discapito della condivisione sociale e del sentirsi parte di una comunità.
La crisi sociale cui stiamo assistendo si è trasposta nel mondo del lavoro. L’essere umano, in quanto lavoratore, ha perso la conoscenza della propria capacità di chiedere il rispetto dei propri diritti, con la conseguenza che si è snaturata la sua attribuzione peculiare di essere non solo forza lavoro, ma produttore del risultato di quella forza.
L’uno-lavoratore è diventato valore di uno, inteso come singolo-monade in un contesto di molti-insieme da cui si è isolato, ha quindi perso la possibilità di esprimere quanto vale, e per questo ha la responsabilità di aver svalorizzato il lavoro e la dignità che ne deriva.
Se è vero che è in atto una “crisi di rappresentanza e partecipazione democratica” a tutte le attività che renderebbero meno prevalenti le divergenze tra la politica e la società, è anche vero che un’altra colpa dell’uno-lavoratore è il fatto che con la propria immobilità (non si fanno più gli scioperi) e la moda del “lassez passer, lassez faire” (non si chiede più l’applicazione dei contratti), ha sostituito il proprio ruolo, all’interno della società, con quello che è il prodotto/risultato, di cui diventa vittima. L’uno-lavoratore si è successivamente trasformato in “nessuno”, come concetto di nemmeno uno, o zero, come valore numerico. La questione è che il lavoratore ha permesso da una parte di trasformare sé stesso nel prodotto del suo sforzo e della sua forza lavoro, e dall’altra ha consentito la perdita “dell’equilibrio e convivenza tra umanità e natura”, il rapporto tra essere umano, all’interno di un insieme di altri esseri umani (i componenti della società), e natura umana, intesa come caratteristica specifica del singolo (l’essere lavoratore).
L’uno-lavoratore ha, in ultima battuta, dimenticato di fare parte di un insieme di esseri umani-“centomila” ed è diventato “nessuno” dimenticando di fare parte, come tutti i cittadini, di quella politica cui ha rinunciato a partecipare attivamente.
“Politica” deriva dall’aggettivo greco πολιτικός, a sua volta derivato da πόλις, città, per designare ciò che appartiene alla dimensione della vita comune, dunque allo Stato (πόλις) e al cittadino (πολίτης). Era centro e insieme oggetto della politica in cui la πόλις deve essere considerata il luogo dei “molti” (οἵ πολλοί), e anche il luogo che fa di tali molti un insieme, una “comunità” (κοινωνία). Allora il lavoratore ha davvero perso l’occasione di rinforzare quanto di buono è stato ottenuto negli anni duri di lotta sindacale, consegnando di fatto il Paese alle forze parafasciste che attualmente sono al governo.
La crisi del sistema lavoro contemporaneo, declinata chiaramente nel documento congressuale, ha assistito e assiste al declino di valore anche nel lessico quotidiano, per cui il lavoratore da licenziare diventa “esubero” e, aggiungo, la “risorsa umana” è diventata “capitale umano” con una accezione chiaramente rivolta a temi puramente economici.
È evidente, come questo sistema, in cui vincono modelli economici che guardano solo all’incremento costante del risultato-liquidità, va a discapito della qualità, della formazione e del giusto valore da attribuire al lavoratore in quanto tale. Ed è altrettanto chiaro che, in un sistema economico tanto incancrenito da dare valore solo alla “pecunia” (perché “non olet”), il valore umano “uno, nessuno e centomila”, l’essere umano-lavoratore in quanto tale viene svuotato a tal punto da diventare un numero tra i numeri. Sottolineo quanto questa china sia pericolosa e, se non abbiamo memoria corta, cosa è accaduto quando degli esseri umani sono stati trattati come numeri.
Chi vuole che si interrompa la crisi di identità cui stiamo assistendo ha il compito di convincere sé e gli altri che la soluzione non può che essere ricercare e ritrovare l’unità di obiettivi e di intenti che, in passato, hanno consentito alla Cgil di vincere le sfide del mondo del lavoro. Se vogliamo bloccare il meccanismo di svalorizzazione del lavoro e del lavoratore, ognuno di noi ha il dovere di mettere a disposizione la propria volontà di cambiare, ed è l’unica cosa che possiamo fare, insieme. W la Cgil!