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Nei primi tre mesi del 2023 sono già arrivate all’Inail 196 denunce di infortunio sul lavoro con esito mortale, con un incremento del 3,7% rispetto allo stesso periodo del 2022. “Un andamento che va contrastato con ogni mezzo”, ha detto il presidente dell’istituto Franco Bettoni, perché sempre i dati dell'Inail raccontano che nel 2022 ci sono stati 1.090 morti sul lavoro, tre in media al giorno, e sono stati registrati 1.911 infortuni sul lavoro ogni 24 ore. In totale 697.773, in aumento del 25,7% rispetto al 2021 e del 25,9% rispetto al 2020. “Cifre che vanno probabilmente raddoppiate – annota lucidamente il manifesto - perché in molti casi gli infortuni non sono denunciati”.
Anche nella Giornata mondiale per la salute e la sicurezza sul lavoro, istituita dall’Organizzazione mondiale del lavoro e fissata ogni 28 aprile, la strage non si è fermata. E non si fermerà, perché il governo Meloni, dopo aver annunciato che la sicurezza deve essere una priorità, sta andando nella direzione opposta.
Lo prova la controriforma del Codice degli appalti, con la liberalizzazione e la reintroduzione dei subappalti a cascata. Un provvedimento che, fra le tante, porta ad una ulteriore frammentazione e precarizzazione del lavoro. Avviando un circuito ancor più patologico, visto che i dati Inail dicono che la maggior parte degli incidenti avviene nelle imprese molto piccole e nella catena degli appalti. Con i (pochi) controlli che al massimo arrivano alle aziende che hanno vinto gli appalti, mai nei subappalti.
Insomma la cosiddetta riforma, spacciata dal governo come una semplificazione del settore, in realtà elimina norme che garantivano l'applicazione del contratto nazionale, la congruità tra il costo dell'appalto e il costo del lavoro, le clausole sociali. Quindi la salute e la sicurezza di chi ogni giorno va al lavoro, sapendo però che non è scontato, soprattutto nei settori più a rischio come l'edilizia, di poter tornare a casa la sera.
Il 25 aprile e il Primo Maggio sono date storicamente legate da un filo rosso che intreccia valori, diritti sociali e civili, ideali di eguaglianza, di democrazia, di solidarietà, di libertà e di giustizia. Sono giornate di lotta e di speranza, essenza e parte costitutiva del cammino compiuto dal movimento antifascista e operaio, nazionale e internazionale.
“Cittadini, lavoratori! Sciopero generale contro l’occupazione tedesca, contro la guerra fascista, per la salvezza delle nostre terre, delle nostre case, delle nostre officine. Come a Genova e a Torino, ponete i tedeschi di fronte al dilemma: arrendersi o perire”. Con queste parole il comandante Sandro Pertini, il 25 aprile 1945, proclamava lo sciopero generale a Milano, città medaglia d’oro della Resistenza.
Quest’anno la manifestazione milanese per il 78°anniversario della Liberazione ha visto un’imponente mobilitazione di donne e uomini, militanti antifascisti di diverse generazioni che si riconoscono e si sostengono, difensori della memoria, di un popolo che si riconosce nei valori della Costituzione, a partire dal ripudio della guerra che non restaura mai diritti e democrazia, ma ridefinisce solo i poteri. Una piazza che vuole la Pace, contro l’aumento delle spese militari e il taglio di quelle sociali e contro l’invio di armi in Ucraina, una scelta folle che alimenta lo scontro tra imperi e il massacro di un intero popolo.
Il 25 Aprile va ricordato, difeso e onorato ogni giorno, in un paese che non ha mai fatto i conti con il ventennio fascista e i suoi orrori. La Costituzione antifascista è memoria storica, conquistata con la lotta partigiana e la liberazione dal nazifascismo. Non va permesso a nessuno, (post)fascisti, revisionisti e ministri vari, di cancellare o disconoscere la lotta e il sacrificio di tante e tanti per conquistare la democrazia e la libertà, equiparando il nazifascismo al comunismo. Fra chi ha lottato ed è morto per affermare quei valori, e chi ha scelto di immolarsi in nome della dittatura fascista. Non esiste alcun nesso tra la lotta partigiana e la guerra in Ucraina.
Il linguaggio, le parole fanno cultura, creano coscienza, costruiscono, sedimentano e affermano un’egemonia di pensiero e di proposta. In questi anni si è cercato, con l’ideologia della non ideologia e dell’omologazione, di far perdere senso e identità alle differenze storiche tra destra e sinistra: la storia e la tavola dei valori sono state sconvolte.
Il Primo Maggio è la giornata internazionale del lavoro: del riscatto, della denuncia e della lotta. Il suo significato è scritto nella storia e nelle lotte del movimento operaio. Vietata dal regime fascista, la festa fu ripristinata con l’avvento della Repubblica grazie alla lotta di Liberazione e agli scioperi del ‘43, pagati con la deportazione e la morte di migliaia di lavoratori nei campi di concentramento.
Attuale nei suoi simboli e nel valore solidale, questa giornata di lotta cade oggi in una situazione difficile per il mondo del lavoro e per il paese, e rimane occasione di manifestare in tante piazze per affermare il diritto al lavoro e a un salario dignitoso, alla salute, all’istruzione, alla prevenzione contro infortuni e morti sul lavoro, in difesa dell’ambiente e del futuro della terra. Per ricordare il ruolo del mondo del lavoro nella conquista della democrazia, della giustizia, dei diritti sociali, civili e politici.
La Costituzione non è un orpello ma parte viva del nostro presente. L’antifascismo non è stato solo lotta armata ma lotta politica, sociale e ideale di emancipazione, di trasformazione per costruire un paese democratico, libero e diverso, più eguale è più giusto.
Quest’anno il 25 Aprile e il Primo Maggio hanno assunto particolare significato per il fatto che, per la prima volta dopo la Liberazione, l’Italia ha un governo di estrema destra, lobbista e classista sul piano sociale ed economico, liberista nei confronti del mondo del lavoro e la parte più debole della società, oscurantista verso i diritti delle donne, delle persone Lgbtq+, indifferente e repressivo verso le nuove generazioni, disumano verso gli immigrati, nazionalista, bellicista, guerrafondaio e sottomesso agli Usa e alla Nato. Un governo che – in questo in continuità con i precedenti - aumenta precarietà e diseguaglianze, e vuole manomettere l’impianto istituzionale e l’unità del paese con l’autonomia differenziata e il presidenzialismo: una avventura reazionaria.
Un governo che esercita la “dittatura parlamentare”, e che meriterebbe subito quello sciopero generale che oggi siamo impegnati a costruire con la mobilitazione unitaria di Cgil Cisl Uil, la convocazione di assemblee di informazione e di ascolto nei luoghi di lavoro, le tre manifestazioni interregionali del 6, 13 e 20 maggio. Lo sciopero generale è l’obiettivo della Cgil.
La Costituzione è fondata sul diritto al lavoro e non sul capitale, attende ancora di essere applicata, attuata nei suoi principi fondamentali, a partire dal lavoro, valore fondante della Repubblica e diritto universale per ogni donna e ogni uomo. Quel lavoro che la politica ha ignorato e al quale occorre restituire dignità, contro la precarietà e la disoccupazione che, impoverendo ampi settori di popolo, sottraggono la prospettiva di una vita dignitosa alle nuove generazioni.
Il domani si costruisce oggi. Occorre guardare oltre i propri confini e avere un’idea generale e ideale di futuro. Occorre riprendere una battaglia ideale e culturale e riaffermare il valore del conflitto e dello sciopero come strumenti della democrazia e leva del cambiamento.
Per vincere la sfida bisogna spostare i rapporti di forza tra capitale e lavoro, tra sfruttati e sfruttatori, tra ricchi e poveri. Dovremo accompagnare la mobilitazione sociale con una lotta culturale fondata sui valori, per riconquistare quell’egemonia culturale gramsciana che permette di conquistare coscienze, consenso e partecipazione militante. Serve radicalità della proposta, capacità di andare alla radice del problema dentro uno scontro generale di non breve durata sul piano nazionale, europeo e internazionale.
Dalla crisi strutturale di sistema si esce da destra o da sinistra. La sfida è enorme e c’è sempre più bisogno di una Cgil unità e plurale, ancorata alle sue radici e a quella visione e a quell’interesse generale che vive nel nostro quadrato rosso.
“Ci troviamo ora con un mondo dilaniato tra Leviatani in lotta tra loro”. Con questa secca affermazione Raniero La Valle fotografa l’odierna realtà della geopolitica internazionale. La guerra è tornata a farsi accreditare in nome della ragione e del diritto, da cui dopo la ‘Pacem in Terris’ di Giovanni XXIII era stata espulsa per sempre. Giurista, giornalista, scrittore, politico, la voce di La Valle attraversa da più di sessant’anni il dibattito sociale e culturale italiano. Si potrebbe dire dell’Italia migliore, quella che non si rassegna alla follia della guerra, che si spende a favore dei popoli oppressi. Lui, che fu tra i promotori nel 1991 della campagna ‘Un ponte per Baghdad’, che poi avrebbe dato vita all’associazione umanitaria ‘Un ponte per’, oggi presiede ‘Costituente terra’, associazione tesa a realizzare il sogno di un’unica Costituzione per l’intero pianeta. Figura storica del pacifismo italiano, La Valle guarda con enorme preoccupazione quanto sta accadendo nel cuore dell’Europa.
Raniero La Valle, in un suo recente intervento, lei parla di un mondo di Leviatani tutti in lotta tra loro, puntando il dito su un Occidente che continua a pensare la realtà a sua misura. Il risultato è sotto i nostri occhi. È possibile uscire da questo vicolo cieco?
Paradossalmente è più difficile uscire oggi da questa sindrome da guerra di quanto non lo fosse nella seconda metà del Novecento, quando c’era l’equilibrio del terrore. Avevamo capito da Hiroshima e Nagasaki che cosa significasse una guerra combattuta con le armi nucleari. E questo terrore si era trasformato in una deterrenza. Per non fare la guerra atomica, non erano legittimate neanche le guerre convenzionali, anche se poi si facevano lo stesso, come in Vietnam. Ma che cosa succede dopo? Quando viene rimosso il muro di Berlino non a cannonate, ma per una decisione politica del capo dell’Urss, Michail Gorbaciov, e quindi finisce la divisone del mondo in blocchi, finisce anche la contrapposizione nucleare, perché l’Unione Sovietica scioglie il Patto di Varsavia, anche se la Nato si guarda bene da sciogliersi. Ma la fine della minaccia della guerra atomica diventa una rilegittimazione delle guerre convenzionali. Ed è singolare che quasi subito, fra il 1990 e il 1991, l’Occidente si precipita a fare la guerra del Golfo. Una guerra che era evitabile per via diplomatica, come oggi in Ucraina. Si poteva trovare una soluzione politica per restituire la sovranità al Kuwait. Ma l’Occidente approfitta dell’occasione per riappropriarsi dello strumento della guerra. Da allora gli Stati usano la loro sovranità per disputarsi il dominio con la guerra. Per questo io li ho chiamati Leviatani, nel libro che ho scritto sulla guerra in Ucraina, purché Leviatano è la parola che Hobbes ha dato allo Stato moderno. Purtroppo questi ultimi si stanno comportando da belve, da fiere, da mostri biblici, e si combattono l’uno con l’altro. Quindi uscire da questa situazione di guerra, da questo sistema di guerra, vuol dire riuscire a rovesciare l’impostazione politica, giuridica e culturale dei Leviatani, cioè degli Stati.
Mark Milley del Pentagono è stato esplicito: ‘Devono riconoscere entrambi che non ci sarà una vittoria militare, nel senso stretto del termine. E quindi è necessario volgersi verso altre opzioni’. Quali potrebbero essere?
Le altre opzioni sarebbero quelle di tornare alla situazione precedente alla guerra, senza però portare avanti la sfida, la minaccia della Nato fino ai confini rimasti sicuri della Russia. Quindi una neutralità della Ucraina, l’accettazione della convivenza in Europa, e anche una conversione dell’Unione europea, che non deve essere un blocco militare contrapposto a un’altra parte dell’Europa o, insieme con gli Stati Uniti, al resto del mondo, ma dovrebbe diventare secondo la sua vocazione un elemento di coesione e di incivilimento per sé e per tutto il pianeta.
Nel deserto della ragione, da un anno a questa parte, si è alzata forte la voce di Papa Francesco: “Folli, fermatevi”. I governati apprezzano, i governanti fanno finta di nulla.
I governanti seguono tutt’altri interessi, lo stiamo vedendo in questi giorni. C’è una singolare convergenza di interessi economici, ci sono le aziende che costruiscono le armi per distruggere l’Ucraina, e ci sono le aziende che si preparano a ricostruirla. E più armi si mandano in quel paese, più si distrugge l’Ucraina, più aumentano le occasioni di profitto, di investimenti, in una Ucraina che speriamo sia ricondotta alla pace. Quindi è perfettamente corretto quello che dice Papa Francesco quando predica contro la guerra, ripetendo sempre che prima di tutto bisogna fermare la produzione e il commercio delle armi. Perché il commercio delle armi è la premessa necessaria, e la più efficace, per la guerra.
Riuscirà l’entrata in scena di un attore importante come la Cina a sbloccare trattative diplomatiche che, di fatto, non sono mai partite?
Il problema della Cina è che vuole veramente aiutare la pace. Ma la Cina viene identificata oggi dalla maggiore potenza mondiale e nucleare, gli Stati Uniti, come l’ultimo nemico da battere. Questo non lo diciamo noi interpretando fonti politiche e ricostruzioni giornalistiche, ma lo sostengono la Casa Bianca e il Pentagono. Esistono due documenti: uno del 12 e l’altro del 27 ottobre dello scorso anno, in cui vengono definite la strategia della sicurezza nazionale e della difesa degli Stati Uniti, firmati dal presidente Joe Biden. Entrambi riferiscono che è in atto una competizione strategica, cioè una lotta all’ultimo sangue, per il dominio del pianeta. Lotta che dovrà arrivare a compimento entro il prossimo decennio. In questo contesto i due antagonisti principali degli Usa sono la Russia e la Cina. La Russia è considerata già sconfitta, non è presa neanche troppo sul serio. Invece quella che viene definita come la sfida culminante, la sfida suprema, è quella con la Cina, il nemico da battere. Con la vittoria definitiva degli Stati Uniti e dei loro alleati, e quindi siamo coinvolti anche noi, il mondo tornerà secondo il modello che gli Usa si propongono. Un mondo che viene definito attraverso tre caratteristiche: democrazia, libertà e libera impresa. Un modello politico, un modello antropologico e un modello economico, che poi è il capitalismo realizzato. Il paradosso è che solo la Cina sta proponendo una soluzione pacifica. Però l’Occidente ha già deciso che la Cina è l’ultimo nemico da sconfiggere. Una contraddizione insolubile. Sarebbe risolvibile solamente se gli Stati Uniti cambiassero le loro politiche, il loro progetto di dominio planetario.
Ad un anno di distanza dall’invasione dell’Ucraina, i media appaiono sempre soggiogati, immersi nella follia della guerra...
L’informazione è stata riportata ad un unico verbo, un’unica ortodossia, un’unica verità. È peggiorata, ed è peggiorato l’intero panorama dell’editoria. Ma non è una novità. Ricordo che nel 1987, in piena guerra fredda e con la minaccia dell’ecatombe nucleare dietro l’angolo, Gorbaciov andò a Nuova Delhi e incontrò il primo ministro dell’India, Rajiv Ghandi, poi ucciso in un complotto. I due leader, che insieme rappresentavano un quinto dell’umanità, firmarono una dichiarazione congiunta che si chiamava ‘Dichiarazione per un mondo libero dalle armi nucleari e non violento’. Era la prima volta che il termine ‘non violenza’ entrava in un documento ufficiale di grandi potenze militari e politiche. La dichiarazione di Nuova Delhi non venne nemmeno pubblicata in Occidente. Fu completamente censurata. Noi la pubblicammo nella rivista ‘Bozze 87’, ma nessun altro dette spazio a quel documento. Oggi come allora accade la stessa cosa, la censura la fa da padrona. Inoltre Putin ha fatto un grandissimo errore. Lui era legittimato a contrastare l’idea della Nato di allargarsi ad est lungo tutto il confine della ex Unione Sovietica. L’errore è stato quello di voler risolvere questo problema con il ricorso all’azione militare. Così si è potuta costruire questa narrazione secondo cui c’è un paese aggressore che è la Russia e un aggredito che è l’Ucraina. Il povero paese piccolo di fronte al grande colosso che lo vuole distruggere. Questa immagine del prepotente e della vittima ha esercitato, ed esercita, un grande ricatto su tutte le persone non violente. Un ricatto spirituale, morale, che funziona. Bisognerebbe invece interrogarsi su chi è veramente la vittima. Perché la vittima è il mondo, che sta per essere gettato in una guerra mondiale. Le trattative di pace sono l’unica strada per salvare centinaia di migliaia di persone.
Fra pochi giorni è prevista una nuova manifestazione a sostegno del cessate il fuoco, una ‘Staffetta per la pace’.
Manifestiamo, certo. Ma non basta cambiare le menti e i cuori della gente. Bisogna arrivare a cambiare le scelte dei governi, dei potenti. Scelte che si cambiano con la politica. Solo se riusciamo a far prevalere una politica alternativa, sconfiggendo le forze della prevaricazione, dell’imperialismo, del colonialismo, possiamo ottenere un risultato positivo.
Già anni fa Papa Francesco parlava di una terza guerra mondiale, a pezzi.
Ora non è più una guerra mondiale a pezzi. Quando sono coinvolte le più grandi potenze mondiali, quando gli Stati Uniti dicono che bisogna portare la Russia alla condizione di paria, perché questo è il programma iniziale enunciato da Biden quando è sceso in campo in appoggio all’Ucraina, la guerra fa un salto di qualità. Non so se Biden abbia abbastanza cultura da sapere cosa sono i paria. Appartengono al sistema indiano delle caste, e quella dei paria non è neppure una casta. Sono gli innominati, considerati meno che uomini, senza alcun diritto. Quando un fuori casta cammina per strada deve stare attento a camminare al centro della carreggiata, perché nemmeno la sua ombra vada ad inquinare la facciata delle case dei ricchi, di quelli delle caste superiori. Di fronte a questo scenario, che ha l’obiettivo di eliminare la Russia dalla comunità internazionale e poi mettere fuori gioco la Cina, noi dobbiamo fermare questa spirale distruttiva con la politica, non c’è altro modo.
La lettura del Def ci conferma in buona sintesi che la Melonomics è una prosecuzione della politica economica di Draghi, con marcate accentuazioni in chiave di austerity, perfettamente coerenti con le attuali scelte europee, sempre più subordinate agli interessi Usa, e alla politica monetaria restrittiva della Bce. Mentre sul terreno dei diritti civili e sociali, come sulle politiche migratorie, il governo ha da subito incrudelito scelte ed atteggiamenti – con l’aggiunta delle note dichiarazioni fascisteggianti da non sottovalutare - che lo avvicinano di più all’area orbanista, la sua politica economica si modulava finora lungo due indirizzi.
L’uno, rappresentato dal neoliberismo nella sua forma più cruda, accentuando le politiche privatistiche e antiwelfare, motivate culturalmente – si fa per dire - dal rilancio in ogni campo dell’esaltazione del merito. L’altro, costituito da un insieme di neocorporativismo e di sbriciolamento distributivo, che cercava di non alienarsi i ceti popolari.
Da quanto emerge, il Def sposta il vacillante equilibrio tra questi due aspetti decisamente a favore del primo. Non si prevede alcuna reale politica di bilancio per contrastare la contrazione dell’economia e l’immiserimento della popolazione, accentuati dalla guerra - di cui non si intravede, non a caso, né fine né tregua – dall’incremento dell’inflazione e dall’aumento dei tassi che la Bce persegue indefessamente.
Si dirà che gli spazi per una simile manovra sono scarsi. La soglia “psicologica” dell’1% di crescita promessa dalla Meloni non è raggiunta per quanto riguarda il “tendenziale” a legislazione vigente. Il Def la inchioda allo 0,9%, ma le stime di autorevoli istituzioni sono più basse, a cominciare dal Fmi che prevede per l’Italia un rialzo del Pil dello 0,7%, entro un quadro che riporta la crescita mondiale ai valori del 1990, con possibilità di peggioramento. È vero quindi che il governo Meloni si muove in un quadro difficile, ma scelte e incapacità lo aggravano pesantemente, come si vede anche nell’implementazione del Pnrr.
Soprattutto lo si vede nell’incremento dell’avanzo primario, cioè del risparmio al netto delle spese per interessi, che, nel 2024 sarà pari a circa 6 miliardi, per crescere a 26 e 45 miliardi nei due anni successivi. La cancellazione della Fornero – cavallo di battaglia della destra “sociale” – è così passata in cavalleria. Mentre si prevede la finalizzazione nella legge di Bilancio di fine anno di un ulteriore aumento delle spese militari di circa 1,8 miliardi, dall’1,38% del Pil all’1,48%, con l’obiettivo voluto dalla Nato di raggiungere il 2%.
Né i 3 miliardi che sbucano dal mantenimento del deficit tendenziale al 4,5%, in luogo del previsto 4,35%, che verranno utilizzati, con un futuro provvedimento, per ridurre il cuneo fiscale, risolvono alcunché sul fronte delle troppo basse retribuzioni. Mentre la riforma fiscale annunciata, con la riduzione delle aliquote da tre a due, premierà i ceti più forti, distruggendo ogni barlume di progressività. Lo riconosce persino Confindustria – che di suo però non vuole mettere nulla – quando osserva che gli effetti sulla busta paga saranno modesti. Se si considerano i tagli per pensioni e sanità già avvenuti, quelli ulteriori che verranno, specie in campo scolastico e sanitario anche in conseguenza dell’autonomia differenziata – se il progetto governativo passerà - si può prevedere che il taglio del cuneo fiscale non compenserà perdite ed esborsi di reddito di un lavoratore medio.
La riforma del patto di stabilità europeo, presentata in questi giorni dalla Commissione, respinge il puro ritorno al passato voluto dalla Germania e dai paesi “frugali”, ma la riduzione progressiva del debito, con un percorso da concordare, porta di fatto ad un commissariamento della politica di bilancio dei paesi più indebitati, fra i quali il nostro. Vi è chi dice, come Bini Smaghi ex membro del board della Bce, che ormai il Def sarà inutile visto che non si può modificare quasi nulla lungo il percorso concordato. Come è noto il governo punta sullo scorporo di green e digitale dal calcolo su deficit e debito, che restano fissati, nella loro stupidità, agli obiettivi del 3% e del 60% del Pil come prima. La partita si deciderà in estate, ma le premesse non sono buone.
Intanto ci troviamo di fronte ad una enorme questione salariale, alla quale la risposta dei tre sindacati confederali appare debole e inadeguata. Almeno finora. Eppure di fronte ad una inflazione del carrello della spesa che viaggia su due cifre e un aumento nel 2022 dei salari dell’1,1%, ci sarebbe spazio per un incremento significativo e percepibile delle retribuzioni, senza innescare alcuna spirale, come riconosce anche il Centro Europa Ricerche (Cer), il noto centro studi al quale in molti fanno riferimento. Ma questo più che argomento di dibattito istituzionale è tema di lotta sociale e, appunto, sindacale.