Nella terza guerra mondiale a pezzi - lucida definizione di Papa Francesco a nome della più antica organizzazione di massa esistente, per fotografare questi primi decenni del nuovo secolo - loro sono quelli che non si arrendono alla logica delle armi. Quelli che organizzano le Carovane della pace per alleviare le sofferenze dei popoli costretti a vivere sotto le bombe. Sono le organizzazioni di cooperazione e solidarietà internazionale, riunite nell’Aoi, di cui Silvia Stilli è portavoce. Lei si è fatta le ossa nei movimenti per la pace degli anni ‘80, ha una ventennale esperienza di volontariato, aiuto umanitario e cooperazione internazionale nel mondo del no profit, iniziata in Italia nel Cospe seguendo progetti di educazione allo sviluppo e campagne di solidarietà. Da sei anni Silvia Stilli è anche direttrice di Arcs, costola dell’Arci, e la puoi trovare ovunque ci sia bisogno di aiuti umanitari.
L’ultima Carovana della pace è appena tornata in Italia dall’Ucraina, cosa vi siete trovati davanti dopo un anno di guerra?
“È stato un viaggio lunghissimo. Siamo partiti da Padova, una trentina di pulmini provenienti da tutta Italia, persone di ogni età, famiglie, singoli cittadini, attivisti, tante, tantissime associazioni della rete Stopthewarnow. Abbiamo attraversato la Slovenia e l’Ungheria, ci siamo fermati a dormire al confine e poi siamo entrati in Ucraina. Chilometri su chilometri per arrivare ad Odessa, dove ci aspettava la delegazione della Cgil, e anche don Tonio Dell’Olio e don Sacco di Pax Christi, per arrivare poi fino a Mykolaiv. Da testimone diretta, posso dirti che dal punto di vista militare la guerra è in una situazione di stallo. Ma la popolazione civile sta soffrendo molto, il primo problema è l’energia elettrica, il secondo la mancanza di acqua potabile. Non per caso abbiamo portato con noi generatori e dissalatori. Gli attacchi con i missili hanno compromesso le reti idriche e quelle elettriche. La popolazione ha cercato di far fronte all’emergenza con rimedi di fortuna, trasportando carichi d’acqua in bottiglia su bus di linea, ma è evidente che in molte zone questa soluzione non poteva funzionare”.
Dissalatori per l’acqua e generatori per l’elettricità. Di cosa altro hanno bisogno le popolazioni investite dalla follia della guerra?
“Loro non vogliono vestiti e medicine, hanno bisogno soprattutto di aiuti alimentari. Abbiamo portato tanti di questi generi di prima necessità, che sono stati distribuiti sia attraverso il Centro ecumenico evangelico, che spostandoci durante il giorno nei quartieri di periferia, i più bombardati. Ormai le scuole sono definitivamente chiuse, non c’è nemmeno la possibilità di fare la formazione a distanza, a causa della mancanza di energia elettrica. Hanno riconvertito gli istituti scolastici in una sorta di centri sociali, per evitare che i bambini restassero in mezzo alla strada. Ma certo i più giovani stanno perdendo anni di istruzione e anche di socialità. Quando siamo arrivati avevamo istallato delle app che ci segnalavano le situazioni di pericolo. Appena ripartiti è stato bombardato il porto di Odessa, penso lo abbiate letto sui giornali. Questa guerra è quasi fantascientifica, vengono utilizzati droni comandati a distanza. Invece a quaranta chilometri da Mykolaiv c’è la linea del fronte, quella di Kherson, dove lo scontro è fisico, i soldati sono gli uni di fronte agli altri. Alcuni di noi sono arrivati fin lì, i volontari dell’associazione Papa Giovanni XXIII hanno dovuto schivare i proiettili. Due lembi di terra separati dall’acqua del fiume, dove si spara in continuazione. Pensate ai bambini che a cielo aperto raccolgono souvenir bellici, come le mostrine dei soldati morti”.
Dopo un anno di guerra, come viene accolta dalla popolazione la Carovana della pace?
“Rispetto a un anno fa, quando eravamo andati a Leopoli, siamo stati accolti con maggiore trasporto emotivo. Non sono più sospettosi e diffidenti nei nostri confronti. Noi abbiamo parlato di pace, cantato canzoni di pace, organizzato messe di pace nella domenica delle Palme con i sacerdoti della Carovana, c’erano fedeli cattolici, ortodossi, evangelici. Abbiamo avuto i ringraziamenti dell’ambasciatore italiano e del nunzio apostolico. Lui ci ha detto che otto mesi fa Papa Francesco aveva intenzione di andare a Mariupol, che però è finita sotto attacco. Rispetto a un anno fa, oggi la gente parla di pace, applaude quando diciamo ‘stop the war’. A un autogrill abbiamo trovato un cuore di peluche diviso a metà, giallo e azzurro, con scritto stop the war. La popolazione civile vorrebbe la pace, se un anno fa c’era insofferenza rispetto a chi veniva a dire pace, ora la situazione è diametralmente cambiata. Abbiamo distribuito rami di ulivo, ci siamo commossi cantando in piazza brani pacifisti, quando abbiamo intonato la vecchia canzone di Gianni Morandi ‘C’era un ragazzo che come me….”, la risposta è stata ‘peace peace peace’. Impossibile trattenere le lacrime, hanno perso figli, mariti, nipoti, li stanno continuando a perdere sul fronte, dove i droni che bombardano arrivano in continuazione. Cercano di fare una vita normale, ma le loro città ormai sono spettrali, così come le campagne intorno. L’economia è in ginocchio, chi ha potuto è scappato, tanti sono morti, gli altri combattono”.
Come si può arrivare alla pace continuando a produrre e inviare armi?
“Noi abbiamo portato venti tonnellate di aiuti alimentari e due generatori elettrici. L’ambasciatore ci ha ringraziato perché gli aiuti alla popolazione civile arrivano raramente. È una follia avere l’ospedale pediatrico di Odessa senza un generatore, pensare di inviare solo armi fa accapponare la pelle. Tra l’altro non si sente più il continuo inneggiare a Zelensky come un anno fa. Ed è cambiato radicalmente l’atteggiamento verso Papa Francesco. All’inizio della guerra, a Leopoli, anche i rappresentanti delle chiese erano un po’ scettici, critici, ora lo ringraziano della continua pressione che sta facendo su Russia e Ucraina, dicendo che vuole andare in entrambi i paesi. Il futuro della Carovana è quello di andare avanti, perché la gente vuole vederci, stare con noi, non vuole sentirsi sola. Abbiamo ricevuto un’ospitalità incredibile, loro non hanno niente, vivono da sfollati nelle scuole, eppure ci hanno preparato i letti, cucinato i loro piatti tipici, lavorando fin dalla prima mattina”.
Finalmente si sta capendo che la pace è l’unica via d’uscita?
“Loro vogliono la pace, la vogliono con orgoglio e dignità. Abbiamo spiegato che è necessario un tavolo negoziale dove ci siano le Nazioni Unite, super partes. L’Unione europea ha la grande responsabilità di essersi voluta infilare dentro questo conflitto senza pensare alla capacità negoziale che aveva nei confronti della Russia. Non ha voluto seguire questa strada, ha ritenuto fosse più semplice schierarsi e mandare armi e munizioni. Così adesso sul piano diplomatico l’Europa è debolissima, mentre gli Stati Uniti giocano questa partita solo a livello Nato. Ora è entrata in gioco la Cina, e anche la Russia è in difficoltà. Una giovane pacifista russa mi ha detto che da loro c’è un forte mal di pancia, tanti hanno problemi economici, e siccome non bastano i militari di professione stanno chiamando giovani di leva che non hanno la minima esperienza. Molte famiglie sono terrorizzate, chi può cerca di andarsene. Si stanno addirittura unendo le posizioni dei pacifisti con quelle degli oligarchi, che vedono i loro interessi in caduta libera. È in questa situazione che la Cina ha trovato un pertugio negoziale. Ma se le trattative non andranno bene, quando arriverà la bella stagione lo scontro diretto tornerà fortissimo. Ancora prima dell’apocalisse nucleare, il rischio è quello della battaglia corpo a corpo. Una realtà terribile, che mi ricorda quella che ho vissuto personalmente in Bosnia. Anche allora i negoziati furono lentissimi, mentre andavano avanti le stragi, aumentavano i morti, trionfava la disperazione. Non si possono aspettare gli anni che hanno vissuto Sarajevo, Mostar e la ex Jugoslavia, bisogna sedersi il più presto possibile a un tavolo di trattativa. La guerra è una vera follia. Vedere le sacche di sangue delle armate russe che si sono ritirate dal fronte di Kherson rende l’idea che la guerra è sangue. La guerra è sangue, disperazione, fame”.
Cosa farete ora? Dalle tue parole appare chiaro che l’offensiva pacifista andrà avanti.
“Abbiamo scelto simbolicamente il nostro arrivo nella domenica delle Palme proprio per lanciare questo messaggio: ‘Non ci fermiamo’. A maggio ci sarà la Perugia-Assisi, e noi parteciperemo con la Rete italiana pace e disarmo per raccontare ciò che abbiamo visto. Sempre ad Assisi alla vigilia della marcia si riunirà Europe for peace. Andiamo avanti. Alcuni di noi stanno lavorando nelle zone di guerra per aiutare gli obiettori di coscienza, i più fragili, gli appartenenti alla comunità lgbtq. Andiamo avanti per aiutare i ricongiungimenti, lavoriamo per l’inclusione di rifugiate e rifugiati. Sono già state organizzate cinque Carovane della pace, i viaggi sono continui. Lo chiamiamo lo ‘sciame solidale’“.