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Quante ne ha cantate Moni Ovadia al congresso della Flai Cgil. Alla follia della guerra; ai potenti che stanno avendo mano libera per ferire sempre più gravemente il pianeta; ai governanti che, salvo qualche eccezione, hanno smesso da tempo di ascoltare i governati. Di fronte a chi parla di armi come si parla di calcio al bar, a chi continua a dire di andare avanti “fino alla vittoria finale”, l’artista errante nato 77 anni fa in una Bulgaria che dette la cittadinanza a tutte le famiglie ebraiche in fuga dall'orrore nazista, ha ricordato agli smemorati e ai distratti che solo la pace, l'uguaglianza e la fratellanza fra i popoli possono fare argine alla pazzia.
Alle delegate e ai delegati del congresso Flai, Ovadia ha donato una lezione civile indimenticabile. A partire dalle accuse invariabilmente ricevute a chi cerca di dar voce alle ragioni della pace: “Io putiniano? Nella Russia di Putin sarei in galera, perché se vivessi a Mosca protesterei contro i diktat anti-omosessualità del governo. E non si può dimenticare che Putin guida un paese basato su grandi oligarchie. Ma anche in Ucraina c'è la stessa situazione, così come in un Occidente, dove gli oligarchi si chiamano Musk, Gates, Besos. Ma da noi fa più chic non chiamarli per quello che sono”.
Alla fine, lanciando il suo appello a sostegno delle iniziative pacifiste del 24 e 25 febbraio prossimi lungo l'intera penisola, l'artista errante si è rivolto a chi vuole restare umano: “Noi continueremo a dire no a tutte le guerre. A quelli che si scandalizzano per l’Ucraina, chiedo dove fossero quando c’era la guerra in Iraq, in Afghanistan. Cosa dicono per il macello dei Curdi, strumentalizzati per combattere l’Isis e poi lasciati a se stessi? In Yemen c’è una guerra sanguinosa, con la gente che muore di fame, con le armi dell’Occidente che vengono date all’Arabia Saudita. Sono buffoni, oltre che delinquenti”. L'ovazione della sala lo ha salutato, ringraziandolo.
Il nostro congresso avviene in una fase complicata, difficile. Il congresso è il momento di libero confronto, di verifica e di prospettiva, di rigenerazione del pensiero e della militanza, di incontro e confronto con le iscritte e iscritti. Non dovrebbe essere un appuntamento burocratico, di semplice costruzione e rinnovo del gruppo dirigente. Aperto invece alla società, alla partecipazione attiva e militante tra le generazioni. In Cgil le generazioni non si rottamano, si riconoscono, si sostengono, scambiano esperienze, valori e lottano insieme per conquistare diritti e un paese migliore.
Priorità assoluta è fermare la guerra in Ucraina e la sua pericolosa escalation, dire basta all’invio di armi e al riarmo. Occorre non rassegnarsi alla guerra e avviare subito una trattativa che porti a una tregua subito e alla Pace possibile, condivisa e duratura. Dopo un anno di distruzione e di morte non c’è alcuna volontà di un’azione diplomatica. La Ue, senza politica estera, ha inviato in Ucraina oltre 5 miliardi di armamenti, e l’aumento della vendita di armi statunitensi ai partner Nato ammonta a 25 miliardi di dollari. In Italia le spese militari sono arrivate a 22 miliardi e dovranno arrivare al 2% del Pil.
Sono guerre atroci, di un potere che manda al macello i suoi giovani. Duecentomila soldati morti in una guerra per procura, violenta a corpo a corpo, di trincea e di sofferenza. “Niente di nuovo sul fronte occidentale”, come il titolo di un libro “antico” ma efficace e di grande attualità, contro l’allora retorica nazionalista e il dogma bellicista, e la carneficina della generazione tedesca nella prima guerra mondiale. Un libro da far leggere a ogni bellicista da salotto e a ogni sostenitore della tesi che le armi producono la Pace e la fine della guerra.
Il pianeta è a rischio e la crisi climatica sta producendo enormi sofferenze e gravi conseguenze; siamo colpiti da eventi devastanti, dalle alluvioni, alla siccità, dagli incendi, alle carestie. I terremoti producono morti e sofferenze, mentre mancate prevenzioni, inadatte costruzioni e soccorsi inadeguati ne aumentano gli effetti. Quante risorse economiche sprecate in armi, quante vite consumate e sacrificate al profitto, quanta povertà, miseria e ingiustizia per favorire l’arricchimento di pochi.
Per affrontare il mare in tempesta c’è bisogno di una Cgil unita e plurale, autonoma nel pensiero e nell’azione, forte della coerenza delle scelte assunte e delle lotte fatte. Una Cgil impegnata nel dare continuità alla mobilitazione generale e territoriale contro le scelte sociali ed economiche del governo, pronta a dare voce e rappresentanza al mondo del lavoro, ai pensionati, alla parte più debole e discriminata della popolazione, ai giovani e alle donne, a tutte e tutti coloro che hanno pagato e pagano le conseguenze della profonda crisi di sistema, della grave crisi climatica e ambientale. Dare voce a chi si batte per i diritti sociali e civili, i diritti nelle possibilità, i diritti alle pari opportunità, i diritti di chi appartiene ad altre nazionalità, alla comunità Lgbtq+ ed è vittima di intolleranza e discriminazione.
La Cgil è stata ed e in campo, con coerenza e appropriatezza delle sue scelte, con la sua autonomia di pensiero e di azione, la sua idea forza di società e di progresso. Dovrà trovare energie nuove con il potenziamento del suo insediamento e della rappresentanza, rinforzando alleanze sociali e politiche e l’unità del mondo del lavoro. Occorre alimentare una partecipazione culturale, consapevole e militante per reggere uno scontro duro di lunga durata. Dovremo riaffermare il valore del pensiero lungo e forte, credere nelle proprie idee e nei propri valori, rivendicare e lottare per riscrivere un’altra storia e un altro mondo possibile. Senza la battaglia delle idee non si riconquista l’egemonia. Partire dalla realtà non solo per leggerla ma per cambiarla.
Lo stato reale del paese dovrebbe interrogare chi ha governato per decenni: 24% il tasso di disoccupazione giovanile, uno dei più alti d’Europa; 49% il tasso del disoccupazione femminile, 14 punti in più della della media europea; 4 milioni di dipendenti assunti con contratti precari e a tempo; sette su dieci i contratti a tempo determinato attivati nel 2022; 12% il part time involontario; 13% il tasso medio del lavoro povero; 9% i lavoratori subordinati con una retribuzione annua lorda inferiore a 10mila euro; tre i morti mediamente assassinati ogni giorno sul lavoro.
Mancano 210mila insegnanti e 36mila personale Ata, 30mila medici sia di famiglia che ospedalieri, 250mila infermieri; solo il 6,1% del Pil la spesa sanitaria nel 2025 - lascito del governo Draghi - meno di quel 6,5% previsto dalla Oms come spesa minima di garanzia per il diritto alla salute. Centomila miliardi dievasione fiscale ogni anno; 120 le donne uccise dagli uomini con cultura patriarcale e maschilista; 3.000 rifugiati, profughi, migranti lasciati morire l’anno scorso – secondo i dati ufficiali - per ipocrisia e disumanità politica che interrogano anche le nostre coscienze.
L’incalzante e devastante privatizzazione delle funzioni pubbliche - sanità, istruzione, trasporti, cultura - è una distorsione degli stessi assetti e valori costituzionali. Il perimetro delle prestazioni fornite dal Ssn e la sua universalità non sono più garantiti. Siamo alla desertificazione sanitaria per vaste aree del paese e l’autonomia differenziata amplierà questa e altre diseguaglianze. La spending review ha prodotto tagli di posti letto, ospedali, presidi sanitari, medicina territoriale, taglio del personale. Lo Stato è ridotto a una azienda e i politici a degli amministratori. La politica da decenni si affida al privato per amministrare il pubblico, e non vede la gravità di una sanità pubblica che lascia i cittadini senza un diritto così pregnante, soprattutto in un paese che sta invecchiando.
Questi numeri di inciviltà e barbarie non sono un destino ma il frutto velenoso di scelte e di un sistema capitalistico che esiste ancora; esistono ancora le classi, i poveri e i ricchi, gli sfruttati e gli sfruttatori, i possessori di immense ricchezze.
Il cambiamento radicale non arriverà con il capitalismo ‘sociale e compassionevole’, con miliardari filantropi, e neppure da un cattolicesimo elemosiniere, caritatevole e ‘sussidiario’. Per cambiare questa realtà servono la politica, la sinistra, serve il sindacato confederale, serve la Cgil, ora più che mai. Una Cgil autonoma, forte e gelosa della sua autonomia di pensiero e di proposta, con radici che affondano nella migliore storia del movimento operaio e delle sinistre politiche italiana e internazionali. Una Cgil autonoma dai partiti e dai governi, ma mai autosufficiente, indifferente e antipolitica: siamo presidio di democrazia e coerenti difensori della Costituzione, che è il nostro programma politico-sociale. Conosciamo la sostanziale differenza tra destra e sinistra. Avremmo bisogno di una sinistra “moderna”, con al centro il lavoro, non equidistante tra capitale e lavoro e tra sindacato e impresa. Una sinistra che manca, dispersa in anni di abbraccio mortale col neoliberismo, nella retorica della governabilità.
Servono nuovi rapporti di forza tra capitale e lavoro, tra sfruttati e sfruttatori, tra padroni e lavoratori nei luoghi di lavoro. Dovremo uscire dal congresso alzando lo sguardo sul paese reale, dando risposte ai bisogni e alle aspettative di chi rappresentiamo. Con una Cgil coesa perché forte del suo pluralismo, rappresentativa, rinnovata nel suo gruppo dirigente, unita e plurale. Dovremo nei tempi giusti costruire le condizioni per riempire ancora il Circo Massimo. Questo dipende da noi, tutte e tutti. Siamo il sindacato democratico di rappresentanza generale, la casa della solidarietà e dell’eguaglianza, delle lavoratrici e dei lavoratori, dei e delle giovani, delle pensionate e dei pensionati, dei ceti popolari.
Portavoce della campagna Sbilanciamoci! Giulio Marcon fa parte da anni di una ‘coalizione’ che riunisce 51 organizzazioni e reti della società civile impegnate sui temi della spesa pubblica e delle alternative di politica economica, con un’attenzione particolare su temi capitali come il lavoro, l’inclusione e l’accoglienza dei migranti, la pace e il disarmo. Quest’ultimo tema è di drammatica attualità ai giorni nostri, con una guerra nel cuore dell’Europa che sta scivolando tragicamente su scenari apocalittici.
Marcon, la rete Europe for peace torna a chiedere l’immediato cessate il fuoco, rivolgendo un appello all’Onu per una conferenza internazionale di pace. Il 24 e il 25 prossimi ci saranno manifestazioni diffuse in tutta la penisola.
Saremo fra i protagonisti, perché insieme ad altre realtà abbiamo dato vita ad Europe for peace, Rete pace e disarmo, noi di Sbilanciamoci! appunto, Stop the war e tante altre organizzazioni, fra cui ovviamente la Cgil, per chiedere l’immediato cessate il fuoco e veri negoziati, sotto l’egida dell’Onu. E abbiamo avviato in questi mesi una fitta serie di iniziative sia a livello locale che nazionale. Una per tutte la manifestazione del 5 novembre a Roma con più di centomila persone in piazza. Andiamo avanti, nel primo anniversario dell’invasione faremo manifestazioni in tutte le città. Noi pensiamo almeno un centinaio di città grandi e piccole con assemblee, fiaccolate, cortei e altre iniziative.
Un fatto che mi ha particolarmente colpita è l’atteggiamento del Pentagono. Il capo di stato maggiore, Mark Milley, ha detto apertamente che probabilmente non ci sarà una vittoria militare, nel senso stretto del termine, né da parte dell’Ucraina né da parte della Russia, quindi è necessario pensare ad altre opzioni, evidentemente diplomatiche. Invece nelle sedi della cosiddetta politica istituzionale si continua a parlare di guerra “fino alla vittoria finale”. Come si esce da questo incubo?
Mi sembra scontato che non ci possa essere la vittoria di una delle due parti coinvolte nella guerra, chi ha aggredito e chi è stato aggredito. Non ci può essere una soluzione militare, l’unica possibilità è quella di promuovere le condizioni per un cessate il fuoco, e poi avviare il negoziato e arrivare a una soluzione. Un traguardo che la Russia e l’Ucraina dovranno raggiungere, con l’aiuto degli altri paesi interessati e coinvolti a vario titolo in questa guerra. Qui non c’è nessuna guerra da vincere, c’è da ricercare la pace, perché solo la pace può essere la soluzione duratura di un percorso che possa portare alla stabilità di quell’area. E la pace non si fa fra gli amici, si fa fra i nemici, tra avversari. L’opzione militare non è una soluzione, nel senso che porterà solo all’allargamento della guerra e al rischio sempre più concreto di una guerra nucleare. Bisogna fermarsi in tempo, e costruire subito delle opzioni di pace.
Nello scenario attuale, l’Europa oscilla fra l’impotenza e la subordinazione agli interessi statunitensi.
L’Europa ha un ruolo molto debole, dall’inizio della invasione ma anche precedentemente. L’Europa purtroppo non ha una politica internazionale capace di incidere sullo scenario mondiale. Ha una dipendenza dalla Nato e dalla politica americana, non ha giocato un ruolo autonomo. Se prima dell’inizio della guerra russo-ucraina nel 2014 l’Europa si fosse attivata per una stabilizzazione dell’area, non saremmo in questa situazione. Un’Europa che comunque non è unita ma viaggia a velocità diverse e con obiettivi diversi, e questo naturalmente non è una buona notizia per chi vuole la pace.
Le sanzioni contro la Russia non hanno portato grandi risultati, se non ai danni delle popolazioni su cui si sono abbattuti effetti collaterali ben visibili, a partire dal costo dell’energia.
Le conseguenze di questa guerra sono sostanzialmente pagate dagli europei, e anche dai paesi in via di sviluppo. Il blocco delle forniture cerealicole è un danno enorme alle popolazioni del sud del mondo, dove non è solamente un danno economico, c’è proprio un problema di sopravvivenza, con il rischio di una nuova emergenza alimentare in molti paesi che dipendevano interamente dal grano russo e dal grano ucraino.
Più di un analista di geopolitica ritiene che questa guerra sia solo un assaggio, e che in prospettiva avremo entro pochi anni uno scontro fra Stati Uniti e Cina. Lo ritiene plausibile?
Uno scenario apocalittico perché sarebbe una guerra globale, una guerra tremenda. Speriamo di no. Per certo, i motivi che sono alla base di questa contrapposizione crescente sono di carattere commerciale e di influenza su determinate aree geografiche. E ci sono tutte le condizioni per arrivare a un confronto durissimo. Speriamo non succeda quello che qualche analista geopolitico paventa. Bisognerebbe rafforzare tutte le sedi multilaterali, tutti gli strumenti della politica internazionale. Basati non sull’unipolarismo, sulla contrapposizione, ma sulla costruzione di una sicurezza comune. Ricordo che sono passati quarant’anni dall’appello che fece l’allora primo ministro svedese, Olaf Palme. In quegli anni eravamo nel clima da guerra fredda, una situazione per certi versi ancora più pericolosa di questa, perché poteva portare a uno scontro globale. Palme lanciò il suo appello, che fu colto da buona parte della sinistra europea, per una sicurezza comune e condivisa. Perché per dare stabilità e pace al pianeta è necessaria una sicurezza comune, e non il dominio di un’alleanza militare contro un’altra. Vanno costruite le fondamenta di questa sicurezza, sarebbe una buona notizia per tutti.
Papa Francesco non perde occasione per denunciare la follia di un conflitto che, come accade in ogni guerra, provoca migliaia di vittime, sofferenze insopportabili nelle popolazioni civili, e immani devastazioni. Ma la sua parola, e quella del popolo della pace, continua a non essere presa in alcuna considerazione. Che fare?
Continuare, nel senso che la voce della ragione è la voce della pace, e deve essere ancora più forte. Non bisogna fermarsi, non c’è altra soluzione, e questo è l’impegno che ci prendiamo di fronte alla prossima scadenza, le mobilitazioni di fine mese, dal 23 febbraio in poi, perché la pace deve essere non solo un appello fondato sulla testimonianza e sulle convinzioni di alcuni, deve diventare una politica. In questi anni è stata la guerra a ispirare la politica, invece dobbiamo arrivare a una situazione in cui sia la pace a ispirare la politica. Solo la politica ispirata dai valori della pace può portare a un benessere maggiore in tutto il mondo, alla cooperazione, alla sicurezza comune, a una convivenza sempre più necessaria per assicurare un futuro a questo pianeta, che ricordo è scosso anche da altre emergenze gravissime, prima fra tutte quella climatica. Senza affrontare queste emergenze, insieme, non si va da nessuna parte. La pace è la condizione di base per affrontare quella terribile spada di Damocle che sta sopra di noi, gli sconvolgimenti climatici che possono portare a conseguenze esiziali per il pianeta.
Pace anche per opporsi all’informazione con l’elmetto…
Sicuramente. Tra l’altro il paradosso è che mentre la politica, i partiti, sono a grande maggioranza favorevoli alla guerra, la maggioranza del popolo italiano è contraria. Da questo punto di vista i governanti non rappresentano quello che pensano i governati. La gente comune pensa che questa guerra va fermata, che non vanno inviate altre armi. Bisogna invece disarmare. Ascoltare la voce del popolo dovrebbe essere l’unica cosa da fare.
Invece si continua a inviare armi, come se fossero la soluzione.
Le armi sono fatte per essere usate, perciò più riempi di armi un paese più quelle armi saranno utilizzate, è inevitabile. Le armi sono una merce come tante altre, e le merci sono fatte per essere usate, o per essere cambiate quando diventano obsolete. Quindi è la dinamica delle armi ad essere sbagliata. Per questo bisogna disarmare. In questi anni abbiamo avuto un aumento della spesa militare sia in Italia che nel resto del mondo. C’è stato un aumento di più di 2.000 miliardi di dollari spesi ogni anno per le armi. Se solo una piccolissima parte, il 5%, di queste spese militari fossero usate per combattere le pandemie, l’emergenza climatica, l’emergenza alimentare, risolveremmo molti problemi. Per questo bisogna disarmare per investire sulla pace.
Il Consiglio dei ministri ha approvato, in via preliminare e quindi non definitiva, il testo di legge proposto dal ministro Calderoli sull’autonomia differenziata. Non a caso ciò avviene alla vigilia di importanti elezioni regionali, in particolare quella lombarda, per permettere alla Lega di cantare vittoria.
In realtà il testo di legge presenta elementi di incostituzionalità (su cui torneremo) ed è assai approssimativo su molti aspetti. Persino Stefano Bonaccini, che si era unito ai presidenti di Lombardia e Veneto nel chiedere l’autonomia differenziata, ha bocciato il testo di Calderoli, giudicandolo irricevibile.
Ma sarebbe un grave errore sottovalutare il progetto governativo. Innanzitutto perché non nasce oggi. A metà degli anni novanta, quando la globalizzazione era nella sua fase montante, Kenichi Ohmae, che è stato senior partner della McKinsey & Company, nonché consulente molto apprezzato di governi e multinazionali - un vero alto funzionario del capitale - scriveva che gli Stati-nazione erano oramai diventati “unità di business artificiose, o addirittura inammissibili, in una economia globale”. Al posto loro si ergevano i nuovi “Stati-regione” - di cui il Kansai attorno ad Osaka e la Catalogna erano alcuni degli esempi portati. In base a questa analisi si domandava che senso avesse “pensare all’Italia come un’entità economica coerente all’interno della Ue”, quando “esistono invece un Nord industriale e un Sud rurale, che differiscono profondamente in ciò che sono in grado di dare e in ciò di cui hanno necessità”.
La via indicata non poteva essere dunque che la fine dell’illusione cartografica, l’abbattimento (per il capitale e i suoi agenti) dei confini diventati virtuali, la ricerca dell’unione tra regioni forti (“le aree omogenee di business”) con il corollario dell’abbandono al loro misero destino di quelle deboli.
Infatti, più o meno nello stesso periodo, quello che anni dopo sarebbe diventato l’arcigno ministro delle finanze del governo tedesco, Wolfgang Schauble, lanciò, assieme a Karl Lamers, il progetto di un’Europa limitata a un nucleo forte centrale, la ‘Kerneuropa’, escludendo i paesi e le economie periferiche. Un progetto che ogni tanto ritorna, come un rigurgito, nella veste dell’Europa a due velocità.
Le crisi che si sono succedute in questi anni, quella economico-finanziaria e quella pandemica, hanno provocato una frammentazione delle catene di approvvigionamento e di creazione del valore. Ma questo non pone fine alla globalizzazione, anzi ne esalta gli aspetti che vedono rinforzarsi il legame tra aree geograficamente e culturalmente più vicine. Se rimaniamo al quadrante italiano, anche i recenti dati dell’Agenzia per la coesione territoriale, confermati nella sostanza da analoghe ricerche di Bankitalia, dimostrano l’aggravarsi delle diseguaglianze, che peggioreranno nel 2023. Per fare solo qualche esempio: la spesa pubblica pro capite è pari a poco meno di 19mila euro in Lombardia, viaggia sui 16mila in Veneto, mentre si ferma a poco più di 14mila in Sicilia, in Calabria a 15mila, in Campania a 13.700 euro. Ben si comprende la reazione di 51 sindaci del Sud, di diverso schieramento politico, che si sono appellati al capo dello Stato per fermare il progetto Calderoli.
La “secessione dei ricchi” non è quindi uno slogan polemico, ma l’esatta definizione dei processi economici che sottendono al progetto di autonomia differenziata, che peraltro significherebbe anche la fine di fatto del contratto collettivo nazionale di lavoro.
Un altro errore sarebbe quello di concentrare tutta l’attenzione sul disegno di legge Calderoli. Anche se questo non ci fosse, o venisse modificato o addirittura cancellato, l’autonomia differenziata si potrebbe fare lo stesso attraverso l’intesa fra il governo e le singole regioni interessate, presentando al Parlamento una legge preconfezionata da ratificare senza entrare nel merito delle norme contenute. Infatti, la sciagurata modifica costituzionale del 2001 lo prevede.
Per bloccare il progetto di autonomia differenziata bisogna quindi cambiare buona parte del Titolo V della Costituzione, in particolare agli articoli 116 e 117. È quanto si propone di fare la proposta di legge di iniziativa popolare di revisione costituzionale, elaborata da Massimo Villone con la collaborazione e l’adesione di oltre 120 giuristi, meridionalisti, docenti e attivisti sociali, oltre che dei sindacati Cgil e Uil della scuola. A cui si è aggiunta l’adesione dell’Anpi e dell’Arci.
A differenza del passato il Senato ha l’obbligo di discutere le proposte di legge popolari, che quindi non finiscono più nei cassetti. Servono almeno 50mila firme. La raccolta è in corso. Anche per via digitale, con lo Spid. Per conoscere e firmare la proposta di legge: www.