Pensioni: inutile piangere sul latte versato. È il tempo della mobilitazione e della lotta - di Andrea Montagni

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Noi pantere grigie, che siamo state protagoniste come lavoratori attivi della lotta per impedire la controriforma delle pensioni e che, pur essendo riusciti a rovesciare il primo governo Berlusconi – che su quel tentativo di controriforma cadde - non siamo riusciti ad impedire la controriforma Dini, madre della Fornero, e che fummo protagonisti anni dopo di un movimento di Rsu e delegati per rimetterla in discussione, registriamo con l’amaro in bocca il balletto che ormai da anni si realizza su spinte tra loro contrastanti per una nuova riforma previdenziale.

Vale la pena ricordare che la riforma Dini, compresi i successivi interventi peggiorativi introdotti con la Fornero, si basava sulla previsione – totalmente campata in aria anche alla fine degli anni ‘80 - che i paesi capitalistici avrebbero conosciuto incrementi del Pil superiori a quelli dei paesi “in via di sviluppo” come Cina, India, ecc,. e che non ci sarebbero state crisi. Per inciso, la crisi invece arrivò puntuale nel 1991, e ci siamo ancora dentro.

Questa previsione, fallace, sugli incrementi del Pil, avrebbe avuto come risultato un incremento della rivalutazione delle pensioni contributive superiore a quelle retributive (una balla sesquipedale!) e che – affiancata ad una seconda gamba di tipo assicurativo di origine contrattuale – avrebbe consentito un saldo equilibrio del sistema.

In quel modo non si rimuovevano i mali antichi che affliggono il sistema previdenziale: la mancata separazione tra assistenza e previdenza che scarica sull’Inps i costi degli assegni sociali; l’assorbimento di qualsiasi fondo in nero senza contropartita alcuna, così da scaricare sempre sull’Inps il costo della ristrutturazione; il ridimensionamento e le privatizzazioni di ferrovie, partecipazioni statali, reti dei servizi; la differenza di contribuzione a carico degli autonomi, e persino il buco del fondo dirigenti aziendali. E si faceva (e si fa) pagare il costo del sistema – ridimensionato – ai lavoratori dipendenti privati e pubblici.

Il sindacalismo confederale, anche la Cgil, ha a lungo tollerato questa situazione, dopo essere stato mallevadore della riforma con un gravissimo errore di valutazione. Ma negli ultimi anni, di fronte al bilancio della controriforma, e a contrasto delle spinte di governi e padronato ad elevare l’età pensionabile e a ridurre il valore delle pensioni in essere e future, non accettando modifiche ai criteri di rivalutazione, Cgil Cisl e Uil hanno invertito la rotta, e iniziato a rivendicare una riforma complessiva. Che prevede la rivalutazione dei rendimenti previdenziali, la modifica dei meccanismi di rivalutazione dei contributi, il riconoscimento del lavoro discontinuo e, per le nuove generazioni che si sono affacciate al lavoro in questo secolo, una pensione contributiva di garanzia. Una riforma pensionistica che porti ad una flessibilità in uscita a partire dai 62 anni o con 41 anni di contributi senza limiti di età; il riconoscimento della diversa gravosità dei lavori; la pensione contributiva di garanzia per i giovani e per chi ha carriere discontinue e povere; il riconoscimento del lavoro di cura e delle donne; il rilancio della previdenza complementare negoziale; la piena tutela del potere d’acquisto delle pensioni in essere.

Sia il governo Draghi che ora il governo Meloni hanno fatto orecchie da mercante alle rivendicazioni sindacali. Non solo, nella legge di bilancio gli interventi che ci sono stati hanno peggiorato il quadro: opzione donna, quota 103, precoci, taglio della rivalutazione delle pensioni in essere, anche là dove già stabilito!

Il segretario confederale Cristian Ferrari, alla vigilia dell’incontro con il governo del 19 gennaio scorso, chiedendo anche la formazione di specifici tavoli tecnici, aveva ribadito che i temi del confronto dovevano essere: “Ggiovani e sistema contributivo, flessibilità in uscita con attenzione al lavoro gravoso e usurante, al lavoro di cura e delle donne e agli strumenti di accompagnamento alla pensione, previdenza complementare e infine, non per importanza, il potere d’acquisto delle pensioni in essere”. Ma anche in questo incontro il governo ha fatto orecchie da mercante. Come ha detto il compagno Maurizio Landini: “Riteniamo quello di oggi un incontro pletorico, interlocutorio e senza risposte”. Ça va sans dire, il giudizio della Cisl è stato opposto.

Guardando con invidia ai nostri fratelli di classe francesi, mi viene da dire che sebbene non ci sia oggi tra i lavoratori una fiducia sulla possibilità di cambiare le cose, ma solo tanta rabbia per una situazione intollerabile, solo la mobilitazione e la lotta, precedute da una campagna capillare nei luoghi di lavoro e nei luoghi di aggregazione sociale, ci potrà consentire di rovesciare un verdetto che altrimenti è già scritto.

Coerenza tra il dire e l’agire, di questo ha bisogno – anche sulla previdenza – la nostra Cgil.

 

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