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Contattato dal manifesto sui continui tentativi di privatizzare il servizio idrico in Campania, Alex Zanotelli ha tirato amaramente le somme su quanto sta accadendo in Italia: “I principali attacchi arrivano dagli ultimi governi, che fanno del mercato la via per svendere servizi e diritti già pesantemente sotto attacco. Prima quello guidato da Mario Draghi, che nel decreto Aiuti bis ha posto scadenze molto ristrette ai sindaci che potrebbero sostenere una gestione pubblica. Poi Meloni, che addirittura peggiora il testo del ddl Concorrenza, mettendo in pericolo anche quanto realizzato a Napoli con la ripubblicizzazione del servizio con l’Abc, Acqua bene comune”.
In Toscana le cose vanno anche peggio. Nella regione dove a inizio secolo sono state costuite le Spa pubblico-private del servizio idrico, con il meccanismo del 51%-49% ma con una gestione privatistica che assicurava per giunta l'aggio del 7% ai soci privati, ora la parola magica è “multiutility”.
Si tratta della creazione di un'azienda dei servizi pubblici, attiva nei settori dei rifiuti, dell'energia (oggi in mani private una volta caduta la foglia di fico del 51%-49%), e anche dell'acqua. Dopo un primo, velocissimo passaggio nei 66 consigli comunali, concentrati nell'area centrale della Toscana, che hanno dato il via libera, dai movimenti per l'acqua pubblica e dai consiglieri comunali delle sinistra di alternativa è arrivata la richiesta di ridiscutere l'operazione. Ma i sindaci di Firenze, Prato, Empoli e Pistoia, i primi tre del Pd e l'ultimo di Fdi, sono stati sordi.
Anche la Cgil ha manifestato le sue critiche: “Si deve puntare alla ripubblicizzazione del servizio idrico – ha spiegato Maurizio Brotini – in coerenza con il referendum e mettendo in sicurezza la risorsa, grazie ai finanziamenti Ue”. Ma il cammino della multiutility è già tracciato. Così anche l'acqua finirà per essere quotata in borsa dal prossimo anno. Ennesimo spregio al vittorioso referendum del 2011.
Fermare la guerra è la priorità assoluta, la guerra rimane questione dirimente.
Con l’invasione russa dell’Ucraina si è concretizzato nel cuore dell’Europa uno scontro che covava da tempo tra gli imperi di Usa, Russia e Cina; un conflitto che, secondo la propaganda più becera, vedrebbe l’impero euroatlantico del “bene” contro quello russo del “male”.
Per giustificare una guerra che doveva essere evitata e per prefigurare il futuro, si sta riscrivendo e falsificando la storia. Stiamo ancora spalando le macerie della seconda guerra mondiale e c’è chi, politici, lobby, mercanti di morte, affaristi, ci sta portando follemente verso la terza. L’Europa sta perdendo sé stessa e il suo futuro, e l’Italia pagherà un prezzo alto.
La retorica antistorica, il fanatismo atlantista ed europeista stanno trasformando questa guerra per procura contro la Russia in una crociata. Con l’invio dei carri armati e di nuove armi l’Unione europea, succube degli Usa, si rende complice dell’escalation. Ma sappiamo che senza la Russia non esisterebbe l’Europa, e per un popolo che non dimentica i suoi 20 milioni di morti contro il nazifascismo, i Leopard tedeschi sono una intollerabile provocazione che alimenta odio e nazionalismo.
Dopo quasi un anno di distruzione e di morte non c’è alcuna volontà di un’azione diplomatica da parte dell’Ue o degli Stati occidentali che abbia come obiettivo la tregua subito e una Pace possibile. C’è chi pensa che la guerra possa finire con la vittoria dell’Ucraina e la riconquista della Crimea e del Donbass, rimuovendo lo scontro geopolitico in atto e quanto lo sbocco al mare sia ritenuto esssenziale dalla Russia.
I signori delle armi prosperano, mentre il mondo va in malora. La Ue ha inviato in Ucraina oltre 3,5 miliardi di armamenti, e l’aumento della vendita di armi Usa ai partner Nato ammonta a 22 miliardi di dollari. In Italia si tagliano le spese per sanità, istruzione, pensioni e si aumentano per le armi.
L’Italia è in guerra, coinvolta con l’invio di armi, con le basi militari Nato, con gli F35 pronti a partire. La maggioranza dei deputati italiani, in spregio alla Costituzione che ripudia la guerra, ha votato la proroga al 31 dicembre dell’invio a Kiev di più sofisticati armamenti, senza ulteriori passaggi parlamentari. Un pezzo del fronte progressista si è allineato alla destra bellicista. L’Italia sta contribuendo alla distruzione di un popolo e della stessa Europa, ma solo dei pazzi fondamentalisti atlantisti possono pensare che si possa vincere con le armi.
La Cgil, insieme al popolo della Pace, torni in piazza, chieda alla politica di non alimentare questa corsa folle alla guerra mondiale. Tacciano le armi e si costruiscano percorsi diplomatici per una trattativa di pace. Senza Pace non c’è futuro né vita degna.
Una vita al manifesto. Tommaso Di Francesco non è soltanto un poeta, un giornalista e uno scrittore, è anche l’intera storia del quotidiano comunista. Aveva solo 21 anni quando entrò a far parte del collettivo editoriale, nel 1969. Da allora non c’è stato giorno in cui non abbia dato il suo prezioso contributo alla realizzazione del giornale, di cui è stato prima redattore di politica estera, poi per 15 anni caposervizio, per altri dieci caporedattore, e dal 2014 condirettore insieme a Norma Rangeri. Le sue poesie e i suoi racconti sono pubblicati su riviste italiane e straniere, a partire dal suo esordio nel 1968 su Nuovi Argomenti, diretta da Pier Paolo Pasolini. Considera la tragica evoluzione del conflitto russo-ucraino, seguito con attenzione fin dal 2014, un viaggio senza ritorno.
Direttore, non si vedono luci in fondo al tunnel della guerra. Mosca bombarda, e l’unico intervento occidentale è quello dell’invio di armi al governo di Kiev. Quanto può durare ancora una situazione del genere?
Può durare, ahinoi. La tragedia è proprio questa. Oggi sulla pelle degli ucraini e, prima o poi, anche allargandosi ad obiettivi russi. Siamo ormai quasi ad un anno dall’invasione, e l’invio di armi sostituisce una politica estera inesistente. Possiamo dirlo, una iniziativa diplomatica vera e propria non c’è mai stata. Una forte responsabilità ce l’ha Putin, che con l’invasione ha provocato il disastro che abbiamo sotto gli occhi. Facendo tra l’altro un grandissimo regalo agli Stati uniti che, da tempo, lavoravano sull’obiettivo di avere un’Europa atlantica ed a trazione Usa. Quindi con l’azzeramento di tutti gli sforzi fatti per costruire una unione continentale. Un’altra parte di responsabilità deriva dal fatto che, viste le origini e le cause della guerra, poco o niente si è fatto per spengere un incendio divampato nel 2014 con l’oscura Maidan. Poi c’è stata l’annessione della Crimea, che è stata rivendicata con un referendum fra la popolazione. Da lì è partita la prima fase del conflitto, che ha provocato 14mila morti e due milioni di profughi. Con due tentativi di mediazione, i trattati Minsk 1 e Minsk 2, entrambi falliti. Così non si è fatto un solo passo in avanti. Anzi la situazione si è ulteriormente aggravata perché, se la Crimea è storicamente un territorio popolato dai russi, il Donbass non lo è. E non poteva essere ascritto alla Federazione Russa, come invece ha fatto Putin. Tuttavia un tentativo di mediazione c’era stato, a cominciare dalla neutralità dell’Ucraina rispetto alle alleanze militari. Invece, solo pochi giorni fa, il segretario della Nato, Stoltemberg, ha rivendicato l’entrata dell’Ucraina nell’alleanza militare. Possiamo dire allora che ogni razionalità è scomparsa, alla guerra si risponde con più guerra. E per chi ha nella propria Costituzione il ripudio della guerra, questo è un obbrobrio. L’unica speranza che ci resta è la costruzione di un movimento contro la guerra.
L’analisi più adeguata a quanto sta avvenendo sul campo sembra essere quella del Pentagono. Il capo di stato maggiore Mark Milley è stato esplicito: ‘Devono riconoscere entrambi che probabilmente non ci sarà una vittoria militare, nel senso stretto del termine. E quindi è necessario volgersi verso altre opzioni’. Quali potrebbero essere?
Sembra paradossale ma, quando ci sono le guerre, i militari sono meno guerrafondai e più lungimiranti dei politici, che scambiano l’invio delle armi come politica estera. La valutazione fatta già a novembre dal Pentagono è confermata dagli ultimi dati. Più o meno ci troviamo di fronte a 100mila morti da una parte e 100mila morti dall’altra, senza contare le vittime civili. Putin dice che non mira ai civili ma in realtà la tragedia è che per terrorizzare si colpiscono anche loro, stante il fatto che c’è sempre il problema della dislocazione delle armi ucraine che mette a rischio la sicurezza della popolazione, come ha denunciato Amnesty International. Mark Milley ha ragione, la situazione è di stallo, dunque sarebbe il momento giusto per proporre una ipotesi di negoziato. Ma questa mossa non viene fatta, e così siamo sull’orlo di una crisi ancora più grave.
La fotografia del momento è quella del vertice di Ramstein, dove gli storici paesi Nato, Germania in testa, cominciano a chiedersi fino a che punto bisogna armare l’Ucraina. Mentre quelli di nuovo conio, in particolare Polonia e Paesi baltici, scalpitano per inviare nuovi aiuti militari a Zelensky. Una immagine inquietante.
Andiamo da un vertice all’altro. Ci fu quello dell’aprile scorso, incentrato sulle sanzioni alla Russia. Ma visto che le sanzioni non hanno avuto l’effetto desiderato, sono tornati a Ramstein. E sì, la Nato si è divisa, perché la Germania non vuole mandare i suoi carrarmati Leopard e, pressata dagli alleati più belligeranti, sta facendo trapelare di inviarne solo una decina, al pari di Polonia e Olanda, mentre Zelensky ne chiede centinaia. Il nuovo ministro della difesa Pistorius ha detto a chiare lettere che ci sono molte cose su cui riflettere, e che è essenziale la sicurezza della popolazione tedesca. La Germania non può dimenticarsi di quello che è successo nel 1941, quando il regime nazista invase l’Unione Sovietica. È un precedente che influenza notevolmente la discussione in quel paese, molto meno negli altri. Per questo, di fronte alle insistenze degli Stati Uniti, la Germania ha chiesto di mettere in campo anche i carri Abrams, che gli Usa non hanno realmente intenzione di inviare. A Berlino si parla ormai apertamente di una guerra fatta per procura, e ci si chiede perché dovrebbe farla la Germania. Insomma sono scettici, perché l’invio di queste armi sempre più potenti, sempre più sofisticate, e soprattutto senza differenze fra difensive e offensive, rischia di trasformare tutti i Paesi della Nato, Polonia in primis, in cobelligeranti. È questa la tragedia che stiamo vivendo.
In questo terribile contesto, che ruolo sta giocando l’informazione?
Per avere informazioni oggettive su quello che sta accadendo, e riflessioni come quelle sui dubbi della Germania ad armare sempre più l’Ucraina, bisogna leggere il New York Times. Non l’avrei mai detto ma è proprio così, è su quel quotidiano che sono state fatte presenti le difficoltà della Germania, con il suo passato, di diventare cobelligerante a pieno titolo. Sempre il New York Times si chiede fino a che punto gli Stati Uniti possono spingere questa guerra in Europa. Domandandosi fin quando possa durare, e quale sia la linea rossa da non oltrepassare. Per certo l’amministrazione Biden è soddisfatta del regalo che le ha fatto Putin, perché con la guerra anche l’Europa che abbiamo conosciuto, l’Unione europea, si sta progressivamente disfacendo. Emerge un’Europa alternativa, prima c’è stato il patto di Visegrad e adesso quello di Tallin, a trazione americana. Non parliamo poi della Gran Bretagna, organicamente al fianco degli Usa. Insomma l’Unione europea sta sparendo, e anche di questo Biden dovrebbe essere grato a Putin, che ha creato un Afghanistan nel cuore del vecchio continente. Un conflitto che costa un’enormità, ribaltando le priorità che dopo il Covid dovrebbero invece essere centrali, e di fronte a una crisi economica fortissima in tutti i Paesi occidentali. La priorità dovrebbe essere la salvaguardia del welfare europeo, invece stiamo salvaguardando il warfare.
Papa Francesco non perde occasione per denunciare la follia di un conflitto che, come accade in ogni guerra, provoca migliaia di vittime, sofferenze sempre più insopportabili nella popolazione civile, e immani devastazioni. Ma la sua parola, e quella del popolo della pace, non viene presa in considerazione. Che fare?
Il Papa è inascoltato, sia da Putin che dalle capitali occidentali. Si è addirittura proposto come mediatore, ma di fatto gli è stato risposto picche. Dietro questo atteggiamento dei belligeranti, in particolare della Russia, c’è anche un profondo elemento religioso e culturale. C’è l’autonomia della chiesa ortodossa da quella cattolica, e con la guerra si è addirittura consumata una rottura nella chiesa ortodossa, parte di essa è stata perfino bandita perché considerata asservita a Putin. Il conflitto ha portato il Papa ad alzare ripetutamente la voce, ma alla prova dei fatti Francesco resta inascoltato. La sola speranza è la costruzione di un vero movimento contro la guerra. Un movimento che attraversi l’intera società. Ad esempio, è di questi giorni la scoperta al porto di Livorno di un traffico di sistemi d’arma italiani, destinati all’Etiopia. Insomma è assolutamente necessario un coinvolgimento generalizzato alle ragioni della pace. Non dimentico che già nella guerra del Golfo il movimento pacifista rimase inascoltato. Ma è l’unica vera speranza che abbiamo in questo momento.
Le accuse di putinismo si sprecheranno…
Non solo, dobbiamo subire anche lo sfottò di Giorgia Meloni, pronta a dire che la pace non si ottiene sbandierando la bandiera arcobaleno. Ma non si ottiene nemmeno inviando armi, perché se si risponde alla guerra con la guerra si diventa cobelligeranti, e non si dà alcuna prospettiva alle ipotesi di trattativa, di mediazione. Probabilmente Putin dovrà fare passi indietro, per arrivare a una Minsk 3. Questo vorrebbe dire riconoscere che il Donbass è all’interno di una struttura federale, che pure al momento non c’è, dell’Ucraina. E stabilire che quelle popolazioni hanno diritto di voto per decidere come e dove devono stare. Inoltre è fondamentale la questione della neutralità dell’Ucraina rispetto alla Nato. Anche se Putin e Zelensky non saranno d’accordo, bisogna battersi per questo. Altrimenti diventiamo cobelligeranti, la guerra si allarga, l’escalation continua, e noi ci ritroveremo fra un anno con altre centinaia di migliaia di morti, fra cui molti civili, e il solo risultato della devastazione di parte dell’Europa. Mentre nel frattempo l’Unione europea sarà di fatto scomparsa.
Venerdì 20 gennaio si è tenuta un Cgil nazionale un’importante occasione di confronto e riflessione sulle riforme istituzionali che il governo si appresta a proporre.
L’introduzione di Christian Ferrari, segretario confederale, ha subito chiarito la posizione della Cgil: non solo il dissenso sulle due proposte già presenti nel discorso con cui la presidente del Consiglio ha chiesto la fiducia - autonomia differenziata e presidenzialismo - quanto una visione alternativa sul grande tema dell’applicazione della Costituzione, base per un’alternativa al progetto delle destre da far vivere nel Paese, su cui ricostruire una mobilitazione a partire dal nostro corpo organizzato.
Il perché è presto detto: la destra - e non è la sola a pensarlo - fa risalire ad una carenza di potere decidente le innegabili difficoltà della democrazia parlamentare. Di qui un progetto istituzionale di radicale semplificazione - il presidenzialismo, ossia l’attribuzione a un singolo eletto (sia esso il Presidente della Repubblica o il più ambiguo presidente del Consiglio “sindaco d’Italia “) la decisione di ultima istanza “perché eletto dagli italiani” - e di potenziale disarticolazione dell’unità nazionale con l’idea leghista, assunta dall’intera maggioranza, di attribuire alle Regioni quanti più poteri sui 23 titoli già oggi disponibili ai sensi dell’articolo 116 della Costituzione, come modificata dalla riforma del Titolo V.
Ferrari ha sottolineato che, mentre verso i progetti di autonomia differenziata sono molte e trasversali le manifestazioni di contrarietà, le cose potrebbero stare in modo più articolato riguardo al presidenzialismo. Per paradosso, proprio perché anni di supposte “riforme” e di predicazione populista (non solo di provenienza 5Stelle ma ben dentro la politica istituzionale di centro-sinistra, basta ricordare la campagna referendaria renziana del 2016) hanno indicato nel Parlamento il luogo dell’inconcludenza della politica, del trasformismo, insomma il peso del passato rispetto allo “spirito dei tempi” fatto di decisioni da prendere con velocità.
Si tratta di un racconto falso e ideologico, che scambia le cause con gli effetti: basti ricordare la costante soggezione del Parlamento ai governi di ogni colore tramite l’usuale ricorso a decretazione d’urgenza, con annesso voto di fiducia. Se ci si aggiunge il taglio del numero dei parlamentari e la conseguente onerosità del lavoro in (più) commissioni sulle spalle dei singoli eletti, l’esito di sottomissione del Parlamento al governo è evidente e palese.
Consentite qui un ricordo personale: la legge di bilancio è di solito l’ultimo atto parlamentare dell’anno e il suo numero è in qualche modo indice della “produttività” del Parlamento. Bene, la finanziaria del governo Ciampi del 1996 reca il numero 662, l’ultima legge di bilancio “ad anno non elettorale” (2021) ha il numero 234: difficile non vedere come l’esplosione della decretazione d’urgenza abbia compresso l’efficacia del Parlamento.
Ma non c’è solo un malfunzionamento indotto dal rapporto sbagliato tra governo e Parlamento: c’è anche un difetto sempre più grave nella composizione stessa dell'Assemblea, per gli effetti sempre meno inclusivi della legge elettorale maggioritaria, e del progressivo trasformarsi delle forze politiche in contenitori di comitati elettorali. Di qui - in parallelo - il crescente astensionismo e la progressiva perdita nel corpo dei parlamentari di quanti provengano da ceti popolari disagiati.
Insomma un mix al fondo del quale c’è un problema serissimo di come il Parlamento rappresenti effettivamente il Paese e di come possa riprendere questa sua funzione ontologica. Qui la soluzione presidenzialista mostra tutta la sua intrinseca vena autoritaria ed anche la sua inefficacia, visto che la delega ad uno - sia esso o meno “uomo della Provvidenza” - nulla potrà rispetto alle difficoltà che travagliano tutte le democrazie, comprese quelle dei sistemi presidenziali, come i fatti di Capitol Hill (2021) o Brasilia (2023) si sono tragicamente incaricati di dimostrare, per non parlare dell’assalto dell’ottobre 2021 alla sede nazionale della Cgil.
Quando il tema è la divaricazione della dialettica politica, fino al mancato riconoscimento dell’avversario e alla delegittimazione dell’esito elettorale, non c’è misura taumaturgica che tenga, quanto invece un lungo lavoro di ricucitura sociale, da compiersi innanzitutto proprio spingendo al massimo la capacità delle istituzioni di rappresentare le tensioni che emergono nella società. Quindi una risposta di alto profilo, che faccia leva sul carattere inclusivo della Costituzione per battere presidenzialismo ed autonomia differenziata, riproponendo un disegno di Paese che riconosce le sue divisioni ma al contempo le immette in istituzioni dove sia possibile costruire i necessari compromessi.
Sull’autonomia differenziata, la critica della Cgil risale - unica e solitaria voce dissenziente - alla riforma del Titolo V. Nella versione oggi riproposta, si tratta di un altro esempio di risposta autoritaria a un problema di profondo spessore: come far convivere l’immodificabile unità del Paese con la vicinanza alle popolazioni dei livelli di governo locali. Al contrario, l’autonomia differenziata propone livelli crescenti di accentramento regionale su materie il cui esercizio collide fatalmente con l’unitarietà del Paese, specie riguardo a salute, istruzione, livelli contrattuali.
Il dibattito ha potuto approfondire – condividendola - questa impostazione, e la ricchezza dei contributi meriterebbe un resoconto più esteso. Mi limito qui a brevi cenni (l’ascolto dell’iniziativa è disponibile su facebook). Gaetano Azzariti ha scelto un approccio empirico, fondato sui fatti e non sulle sue convinzioni. Sul presidenzialismo ha rimarcato la totale assenza nella proposta (firmata nella passata legislatura da Meloni) dei necessari contrappesi costituzionali, tipici di ogni costituzione presidenzialistica: l’assenza dimostra che non si tratta di una correzione del vigente ordinamento costituzionale ma di un suo stravolgimento. Così come l’autonomia trascura completamente il tema della necessaria - pregiudiziale - risoluzione della perequazione fiscale (articolo 119 Cost.), la cui assenza mostra il vero volto della proposta: la manomissione degli articoli 2 e 3 della Costituzione, oltreché l’esplicito richiamo dell’articolo 5 all’indivisibilità della Repubblica, perché l’attribuzione di poteri esclusivi ad alcune Regioni in materia di sanità e istruzione comporta il venir meno della lotta alle diseguaglianze e agli inderogabili principi di solidarietà. Che razza di Paese potrà mai essere quello in cui convivono Regioni a statuto speciale, Regioni con autonomia differenziata ma tra loro diverse negli elementi di autonomia acquisita, Regioni “normali”? È evidente l’impossibilità di una tenuta del Paese, e per tutti questi motivi la lotta deve essere esplicita e chiara.
Dopo Azzariti, Mario Pianta ha introdotto nella discussione l’analisi economica, segnalando i profondi e accresciuti livelli di diseguaglianza sia prima che dopo la pandemia, con un’accentuazione anche nel recupero raggiunto rispetto ai livelli pre-pandemia. Infatti questo ha riguardato essenzialmente le Regioni del centro-nord, con livelli anche tra loro differenziati. Ha rimarcato come sarebbe stata necessaria e sia tuttora indispensabile un’azione nazionale di politica industriale, invece delle numerose erogazioni di risorse tramite Industria 4.0 prive di alcuna condizionalità: una slide ha mostrato come le tre Regioni “campioni” dell’autonomia differenziata abbiano ricevuto risorse molto maggiori del loro peso in termini economici, a danno delle Regioni in maggiore affanno (il Mezzogiorno, ma anche il Piemonte o le Marche).
Da parte sua Giovanni Maria Flick ha ripercorso - da presidente emerito della Corte Costituzionale - i difficili rapporti tra una lettura adeguata dei principi costituzionali e la persistente sordità della politica: ergastolo ostativo, fine vita, immigrazione e salvaguardia della vita umana sono tutti campi in cui la Costituzione può dare risposte all’altezza di problemi che all’epoca della sua scrittura non erano presenti, e che invece la chiusura della politica lascia incancrenire, fino a lasciar cadere gli spazi d’azione che pure la Corte aveva lasciato al legislatore, nella speranza di un intervento che non è venuto.
Infine Rosy Bindi, condividendo molte delle affermazioni degli interlocutori, ne ha radicalizzato le conclusioni: la rigidità della Costituzione impedirebbe un passaggio a un regime presidenziale data la centralità assegnata al Parlamento, così come le devoluzioni delle materie alle Regioni contrasterebbero con i principi fondamentali (come tali indiscutibili) sanciti negli articoli 2, 3 e 5 della Costituzione.
Maurizio Landini ha concluso i lavori con un elemento fin lì non troppo presente: gli effetti della crisi economica nel pensiero e nelle preoccupazioni delle persone da noi organizzate. Ci può essere il rischio di una sorta di indifferenza per le problematiche istituzionali da parte di lavoratori e pensionati, oltreché in generale dei cittadini, vista la preponderanza delle preoccupazioni immediate sulla perdita di potere d’acquisto dei salari, la crisi economica, ecc. così da formare una specie di “delega passiva”, di sfiducia nella politica e nell’impegno, di cui l’astensionismo alle ultime elezioni è stato un sintomo eloquente. A fronte di ciò la Cgil deve cogliere e far cogliere gli intrecci tra l’incapacità del governo ad intervenire sui terreni di immediata preoccupazione delle persone, e il vero volto autoritario delle proposte istituzionali in campo. Solo smascherando questo nesso, e rilanciando una politica di valorizzazione della Costituzione e della partecipazione come leva per la risoluzione dei problemi, è possibile sconfiggere le scelte governative e impedire l’affermarsi delle modifiche costituzionali. Di questo dovrà discutere la fase conclusiva dell’iter congressuale, affinché la Cgil possa consolidare una linea e un’iniziativa comprensibili e condivise, in grado di rovesciare una narrazione che altrimenti può portare il paese ad esiti davvero infausti.