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“L'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro precario”. Striscioni come questo stanno accompagnando in tutta la penisola le proteste dei lavoratori somministrati del Viminale, che manifestano perché il loro contratto è scaduto e non è stato rinnovato. Si tratta nel complesso di 1.150 giovani precari assunti a inizio 2021 da Manpower e Gi.Group, in missione nelle strutture periferiche del ministero per occuparsi di regolarizzazione dei migranti ma anche di flussi, ricongiungimenti familiari e, dallo scorso anno, dell'emergenza dei profughi ucraini. Ragazze e ragazzi perlopiù laureati che, dopo tre proroghe e 21 mesi di lavoro intenso e non certo facile in prefetture e questure, sono stati lasciati a casa dal ministro Piantedosi senza un perché.
In difesa di un servizio fondamentale e del proprio futuro, i giovani addetti e Nidil Cgil, Felsa Cisl e Uiltemp, pronte a dar voce a chi si occupava di dare una soluzione lavorativa e di vita a migliaia di migranti che hanno diritto alla regolarizzazione, andranno avanti a oltranza con la protesta. “E' stata una scelta politica del governo quella di lasciarci a casa – denunciano manifestanti e sindacati - ma così facendo sono andati in crisi gli uffici, lasciando migliaia di pratiche da smaltire. Il precariato è una scelta non del lavoratore ma di chi decide, di chi l’occupazione la offre”. Analogo il giudizio di Nidil Cgil & c.: “Occorre tutelare questi addetti, che tra l’altro sono già formati e hanno competenze specifiche. E' stato un errore non dare continuità a un servizio essenziale nella gestione dell’immigrazione”.
La richiesta è quella di assorbire i somministrati con concorsi che riconoscano nei punteggi l'attività svolta. “Che si creino sacche di disoccupazione tramite strutture statali – concludono - per di più colpendo servizi così importanti, è inaccettabile. Il governo ha sbagliato di brutto a non aver trovato una soluzione per prorogare i contratti”.
Il 2023, sul piano sociale, economico e ambientale sarà un anno duro per chi rappresentiamo, per chi vive nella precarietà di vita e di lavoro, con una pensione da lavoro che non si rivaluta mai abbastanza, di salari sempre più poveri, per le donne e i giovani che pagano per primi la crisi di sistema, economica, sanitaria e sociale di questi anni.
Sarà un anno impegnativo per il sindacato, per tutti noi. Ci sarà bisogno della Cgil. Il nostro congresso dovrà parlare al Paese, in sintonia con i bisogni di chi rappresentiamo, e consentirci di alzare lo sguardo e dare risposte alternative, con l’obiettivo di una Cgil coesa, rappresentativa, insediata nei luoghi di lavoro e nei territori, rinnovata nel suo gruppo dirigente, unita e plurale, autonoma, forte della coerenza delle sue scelte e delle sue lotte.
Una Cgil impegnata a dare continuità alla mobilitazione generale e territoriale contro le scelte del governo, a dare voce al mondo del lavoro e alla parte più debole della popolazione che paga anche le conseguenze della guerra nel cuore di un’Europa divisa, subalterna agli Usa, della grave situazione climatica e ambientale, dello scontro geopolitico tra imperi che ridisegna i confini del mondo e le alleanze. Tutto questo influenzerà i mercati e ci saranno nuovi aumenti delle materie prime, con difficoltà negli approvvigionamenti.
Occorre dire basta alla guerra e lavorare per una tregua subito per giungere alla Pace possibile, da perseguire con la diplomazia, non con l’invio di armi, con politiche belliciste o con l’aumento delle spese militari. Bisogna aver paura di chi pensa che le armi portino alla Pace.
In assenza di un’opposizione politica al governo e di una sinistra all’altezza dello scontro, si dovranno recuperare consenso e partecipazione attorno alle nostre rivendicazioni confederali e di categoria e ai nostri valori. Dovremo fare i conti con i nostri limiti, la spoliticizzazione e la desindacalizzazione, la disaffezione alla partecipazione.
Risalire la china dell’arretramento culturale, tornare a battersi per i valori, contrastare la delega verso chi esercita un potere e una funzione rappresentativa. Rafforzare militanza e tesseramento perché senza un mutamento dei rapporti di forza tra capitale e lavoro non costruiremo un futuro migliore.
Il governo Meloni, con la finanziaria, in continuità con l’agenda Draghi, si conferma di destra, classista, liberista, razzista e antidemocratico. Meriterebbe uno sciopero solo per la disumanità che dimostra verso i più deboli, i migranti, verso chi salva vite nel Mediterraneo. Un governo tracotante, che punta ideologicamente sul “non disturbare chi vuole fare”, col risultato di destrutturare le garanzie e i diritti di chi lavora, precarizzare il lavoro, liberalizzare il mercato e privatizzare lo Stato e il sistema pubblico, salvaguardando gli interessi privati e corporativi del suo blocco sociale. Nell’Italia fragile e diseguale la crisi sarà pesante: l’aumento dei prezzi e dell’inflazione, e la recessione, comporteranno conseguenze gravi sul tessuto produttivo, sui salari, sulle condizioni di milioni di persone. Sul futuro delle nuove generazioni.
Senza risorse economiche e scelte alternative si avrà un impoverimento generale, ed a pagare il prezzo più alto sarà ancora il mondo del lavoro, i pensionati, i meno abbienti. Ridistribuire la ricchezza, colpire gli evasori, tassare le rendite per recuperare risorse sono politiche negate da un governo che colpisce i poveri e ridistribuisce ai ricchi.
Un governo bellicista di “legge e ordine” che amplia i decreti sicurezza di Salvini per reprimere i giovani, partecipanti ai rave o ambientalisti, per intimidire ogni lotta radicale di opposizione di chi manifesta in difesa dei diritti sociali e civili, per il lavoro e una scuola migliore. È un governo autoritario di “pericolosità pubblica”, a cui è stato consentito di esercitare una “dittatura della maggioranza”, lontano dai principi della Costituzione antifascista. Per la prima volta con una donna presidente del Consiglio che, per storia e cultura rimane legata al fascismo, incapace di prendere le distanze dal ventennio, connivente con la partecipazione della seconda carica dello Stato alle celebrazioni della nascita del Msi. Nel 75° anniversario della Costituzione si è reso onore ai militanti e fondatori di un partito di fucilatori di partigiani, di reduci e collaborazionisti di Salò, che nulla ha avuto a che fare con la costruzione della Repubblica antifascista.
La presidente del Consiglio ha giurato sulla Costituzione, ma balbetta sull’assalto fascista alle istituzioni brasiliane come due anni fa su quello al Parlamento americano, entrambi orchestrati da leader per lei di riferimento: Trump e Bolsonaro. Giorgia Meloni deve fare i conti con la sua storia: ci dica se la sua concezione di democrazia e di nazione è ancora quella di governi sovranisti e nazionalisti come quelli di Polonia e Ungheria.
Un governo che vuole il presidenzialismo e l’autonomia differenziata, senza confronto parlamentare e senza un referendum popolare: una revisione costituzionale disgregativa dell’unità del Paese e della democrazia parlamentare, che ne snatura l’impianto. La Costituzione antifascista, le istituzioni, la democrazia parlamentare e rappresentativa vanno protette; esse si fondano sullo stato di diritto costruito su pesi e contrappesi, sulla suddivisione fra i poteri, sull’informazione e la libertà di stampa. Si vuole la secessione dei ricchi. Le regioni dei “governatori” diverranno ancora di più monarchie, feudi con il monopolio sulla sanità e l’istruzione, un tempo primazie del sistema pubblico nazionale.
La Costituzione è stata per anni svilita, non applicata dai vari governi di questi anni. A partire dal diritto al lavoro e al servizio pubblico, dall’eguaglianza di genere e di ceto e dalla progressività fiscale, sino all’antifascismo e al ripudio della guerra.
Allora, nell’anno iniziato, dovremo riscoprire il significato del pensiero alto, delle nostre idee e dei nostri valori; dovremo riprendere a rivendicare e lottare per riscrivere un’altra storia e un altro mondo possibile. In questi anni si sono persi quell’egemonia culturale e politica sulla società richiamata da Gramsci, e quel consenso popolare che non si riconquistano senza la battaglia delle idee.
La nostra mobilitazione confederale generale dovrà intrecciarsi con l’azione contrattuale nel rinnovo dei contratti nazionali e territoriali, sapendo mettere coerentemente dentro al quadrato rosso contenuti che abbiano al centro l’aumento adeguato del salario - e non surrogati di esso -, la riduzione e il controllo degli orari per ridistribuire il lavoro, tornando ad essere autorità salariale e di governo dell’organizzazione del lavoro.
La nostra sarà un’opposizione culturale, sociale e di merito sindacale, ma nello scontro generale diverrà opposizione politica al governo e alle sue scelte. Dovremo, nei tempi giusti, costruire le alleanze sociali e politiche e le condizioni per riempire ancora il Circo Massimo.
Mettere l’economia al servizio dei popoli, costruire la pace e la giustizia, difendere la Madre Terra. Le priorità della Rete dei Numeri pari sono, ovviamente, quelle del suo coordinatore Giuseppe De Marzo. Un nome conosciuto da chi non rinuncia a credere e battersi per un mondo diverso possibile, visto che della lotta contro le disuguaglianze sociali l’economista De Marzo ha fatto ragione di vita. Il suo lavoro ‘sul campo’ con le popolazioni indigene latinoamericane, che fra le tante gli costò l’arresto da parte delle autorità ecuadoregne, nelle pieghe di uno scontro al calor bianco fra i movimenti sociali del paese e le multinazionali petrolifere, è buona carta di identità di un attivista mai domo. Un intellettuale che porta il suo contributo alle ragioni della pace.
De Marzo, come responsabile per le politiche sociali di Libera, non avrà certo apprezzato la valanga di miliardi spesi dai governi dei paesi dell’Occidente a sostegno del governo ucraino, finiti in gran parte in armamenti. E avrà apprezzato ancor meno le parole del senatore repubblicano statinitense Linsdey Graham: “Mi piace la strada su cui ci troviamo, con armi e denaro dall’America l’Ucraina combatterà la Russia fino all’ultimo uomo”. Così qui l’unica fine che si intravede non è quella della guerra, è quella del pianeta...
“La spesa mondiale per l’acquisto di armi è in costante aumento, siamo a duemila miliardi di dollari, una somma che parla da sé. In Europa è cresciuta dal 2019 del 4% annuo, e il nostro paese è quinto nel continente per spesa, undicesimo a livello mondiale. Spendiamo 104 milioni di euro al giorno per le armi. Le guerre si preparano, le guerre fanno vittime, prevalentemente civili. Ma in questa fase della storia quello che, evidentemente, molti non riescono a comprendere delle nostre ragioni, del perché continuiamo a dire no alla guerra, è che in questa fase storica ci sono due grandi novità rispetto al passato, allo scorso secolo. Le armi di distruzione di massa hanno raggiunto una potenza inaudita, e quindi basterebbero da sole a fare esplodere, probabilmente, lo stesso sistema solare. D’altra parte siamo consapevoli che la vera minaccia per la sicurezza della specie umana è il collasso climatico. E l’impatto della guerra sull’ambiente è devastante. Anche guardando alle sole emissioni di Co2, il Pentagono è il primo inquinatore al mondo. Tutto questo rende sempre più insicuro il pianeta, ci avvicina all’irreversibilità della crisi ecologica. Il comparto delle armi e della guerra non creano posti di lavoro, né sicurezza sociale. Piuttosto distruggono la nostra salute e minano il nostro futuro come specie su questo pianeta. Perché poi la vita continuerà, e la Terra troverà altri equilibri. Quindi, per rispondere alla tua domanda, penso sia gravissimo che in un mondo in cui il multipolarismo viene archiviato ci venga chiesto di vincere una guerra che non si può vincere, contro un avversario dotato di testate nucleari. Questo significa condannarci a morte, ed è un atto criminale”.
La bandiera di Libera ha i colori dell’arcobaleno. Non è un caso. Cosa significa essere pacifisti oggi, quando tutto il sistema dei media sembra essere interventista, come ai tempi della ‘Grande Guerra’ 1914-18?
“Il silenzio dei media di fronte alle ragioni della pace, e la campagna di arruolamento alla guerra, contribuiscono a semplificare il contesto nazionale e internazionale, e omologano il dibattito nel paese. Il risultato è che la nostra vita continua a peggiorare e rischiamo di perdere le speranze. Si sgretola la questione sociale, senza possibilità di riscatto per chi vive già in grande difficoltà. In questo scenario, la criminalità organizzata e le mafie traggono grandissimo vantaggio. Esercitano un ricatto sui territori, attraverso un welfare sostitutivo mafioso. Come responsabile nazionale di Libera per le politiche sociali, e come coordinatore della Rete dei Numeri pari di cui fanno parte centinaia di realtà, noi continuiamo a dire che, se la pace è la priorità, dobbiamo costruire un’economia di pace. Perché il cuore del problema è il modello di sviluppo, insostenibile socialmente e ambientalmente. Se continuiamo così, il welfare sostitutivo mafioso cresce in assenza di lavoro vero, lavoro buono, lavoro dignitoso, lavoro pagato, lavoro non sfruttato. Nelle periferie sono le mafie a dare le risposte quando lo Stato non ne dà più. Ma non solo, questo ricatto sui territori e la crescita del welfare sostitutivo mafioso in assenza di risposte dello Stato per garantire la giustizia sociale hanno prodotto nel nostro paese un livello di corruzione che è ormai una malattia sociale. Non possiamo pensare infatti che le mafie siano le uniche a trarre vantaggio dalla povertà e dalle guerre. C’è anche la ‘zona grigia’, il luogo delle convergenze degli interessi. Ora in questa ‘zona grigia’ gli affari vanno a gonfie vele. E così non è un caso che la richiesta martellante della politica, accompagnata dai media, sia quella dell’uomo forte al comando. Del presidenzialismo. Succede quando la democrazia non dà risposte, quando le classi dirigenti non indicano nella giustizia sociale e ambientale il punto di arrivo. Invece ci dicono che dobbiamo vincere una guerra contro chi ha armi nucleari. Ci dicono che i 202 miliardi del Pnrr non devono essere più destinati all’equità sociale e alla sostenibilità ambientale, ma a gas, nucleare, carbone, armi. Vuol dire che stanno facendo affari dei comparti legati alla dark economy, quindi al fossile, alle armi, a settori legati a un modello di sviluppo insostenibile. Questo significa che noi saremo più poveri, più precari, ci sarà meno lavoro, avremo più malattie. Anche la pandemia, da cui avremmo dovuto imparare, è il prodotto e la conseguenza del collasso climatico. C’è una connessione fra Covid, collasso climatico e riduzione della biodiversità. Parliamo della guerra e non parliamo delle conferenze del clima che falliscono. L’Italia si era impegnata alla Cop26 di porre fine al finanziamento pubblico per i progetti internazionali sui combustibili fossili. Ma ci siamo rimangiati la parola. Penso sia gravissimo che i media diano spazio a chi sta condannando il nostro paese e le generazioni che verranno alla precarietà e alle malattie. Rischiano di danneggiare i cittadini, condizionando l’opinione pubblica all’odio per i russi. Una contrapposizione che ci porta dritti dritti all’estinzione della nostra specie”.
Alla ripresa in grande stile del conflitto russo-ucraino, nato nel 2014 e incancrenitosi lo scorso febbraio con l’invasione delle armate di Putin, lei aveva subito osservato che quello che poteva accadere era una escalation incontrollabile. A occhio aveva perfettamente ragione.
“Noi sappiamo che le guerre sono parte della storia dell’umanità. Ma nella storia dell’umanità non c’erano queste due novità: è la prima volta che stiamo minacciando la nostra specie vista la crisi ecologica, ed è la prima volta che siamo dotati di armi di una potenza così gigantesca da poter essere pensate solo come forma di deterrenza. Allora ritengo che le parole della presidente Ue, Ursula von der Leyen, siano gravissime. Incendiarie. Penso anche che questa classe dirigente in Europa sia la peggiore nella storia della politica continentale. Mette a rischio i popoli dopo settant’anni di pace, e sta perdendo una gigantesca occasione che era quella del Next Generation Ue. La realtà ci dice che questo modello di sviluppo, e quindi il capitalismo, non è in grado di garantire lavoro, equità sociale e sostenibilità. Quindi si pensa di uscirne con le guerre, per ridefinire nuovi assetti planetari. Ma a questo giro sono davvero dei pazzi, dei criminali, perché non ridefiniscono niente di fronte alla crisi ecologica e alla potenza nucleare con cui stanno giocando”.
Nel deserto della ragione, da un anno a questa parte si è alzata forte la voce di Papa Francesco: “Folli, fermatevi”. I governati apprezzano, i governanti fanno finta di nulla.
“Sono 25 anni che i movimenti per la giustizia ambientale e sociale, e i grandi intellettuali del pianeta, ci dicono che i problemi con cui abbiamo a che fare, la crisi energetica, la crisi ambientale, la crisi alimentare, la crisi migratoria, la crisi del lavoro, la crisi della democrazia, sono problemi connessi fra loro, e abbiamo bisogno di un approccio sistemico per affrontarli. Non possiamo affrontarli a compartimenti stagni. Un approccio sistemico ci direbbe che, se voglio garantire la giustizia sociale, la sua precondizione è la giustizia ambientale. Le diseguaglianze nel mondo sono generate per metà dalle ingiustizie ambientali, lo abbiamo scoperto negli ultimi anni, e Papa Francesco ci dice che nemmeno la giustizia ambientale da sola basta, abbiamo bisogno di giustizia ecologica. Cosa vuol dire giustizia ecologica? Fare giustizia alla natura. Se la vita è una rete di esistenze interconnesse, averla spezzata, aver trasformato la Terra come se fosse inerme, ha prodotto la crisi. È questa la crisi della nostra vita, considerare la Terra inerme e non dare diritti alle altre entità viventi. Allora dobbiamo allargare la comunità della giustizia, come hanno fatto le donne. Nel secolo scorso, non dobbiamo dimenticarlo, gli indigeni e le donne erano considerati fuori dalla comunità della giustizia. Così la grande sfida che insieme a Papa Francesco facciamo, come movimenti per la giustizia ambientale ed ecologica nel mondo, movimenti indigeni e contadini, è quella di uscire da una cultura patriarcale e colonialista, non solo capitalista. Significa che al centro c'è la vita, non l’homo economicus bianco. Quindi diciamo reddito, salario, diritto all’abitare, lavoro, riconversione, lotta alle mafie, accoglienza. La visione di cui abbiamo bisogno è questa, e non possiamo sflilarci a seconda dell’argomento che trattiamo. Ecologia integrale per salvarci tutte e tutti, perché è ancora possibile. Ma con un altro approccio, fuori dal modello economico che ha provocato uno sviluppo insostenibile”.
I numeri dello Stockholm International Peace Research Institute (Sipri) parlano di un 2022 caratterizzato da una corsa al riarmo senza precedenti, con una spesa di 2.100 miliardi di dollari. Un fatto è certo: le spese militari mondiali continuano ad aumentare. E la loro corsa sembrerebbe essere inarrestabile.
Esiste il business della guerra generato direttamente dai conflitti, con le aziende militari dei Paesi belligeranti, o cobelligeranti, impegnate a rifornire gli eserciti impegnati sul campo con missili e proiettili dal valore di svariati miliardi di dollari. Troviamo poi il grande affare della ricostruzione post bellica, la torta degli aiuti umanitari e, in sordina ma sempre particolarmente ricco, il boom indiretto dell’industria bellica.
Banalmente, quando l’aria è densa di tensioni, e due o più Paesi entrano in guerra tra loro, scatta un effetto domino impossibile da arrestare. Le altre nazioni, più o meno connesse ai belligeranti, entrano in una spirale votata al riarmo. Basta vedere la guerra in Ucraina, che ha di fatto potenziato la macchina militare russa, cinese, giapponese e dei membri della Nato. Tutti stanno correndo dietro al “senso di sicurezza” incarnato dal riarmo, a partire dai Paesi della Nato, che una decina di anni fa fissarono l’asticella della spesa militare al 2% del loro Pil. Lo scoppio del conflitto ucraino ha accelerato questo processo, anche se diversi governi dell’Alleanza Atlantica sono distanti dal traguardo.
Per quanto riguarda la Russia, nel periodo 1999-2020, caratterizzato dalla leadership di Vladimir Putin, Mosca ha incrementato le proprie spese militari di ben 9,5 volte. I dati sulla Cina sono più incerti, anche se pure Xi Jinping ha attuato una modernizzazione delle forze armate, con il desiderio di trasformare l’Esercito Popolare di Liberazione in un esercito di caratura globale entro il 2049. Nel frattempo, secondo alcune stime, la spesa militare cinese si aggirerebbe intorno ai 252 miliardi di dollari (numeri del 2020), con un +76% rispetto al 2011.
Gli Stati Uniti continuano a detenere il record assoluto della spesa militare, con cifre che fanno impallidire sia Mosca che Pechino: nel 2021 hanno speso 800 miliardi di dollari.
In Asia il fenomeno del riarmo è ancora più evidente. Dal Giappone alla Corea del Sud, dal Vietnam all’Indonesia, passando per Australia e India, non c’è praticamente governo che non abbia stanziato, o stia per farlo, ingenti somme nei settori della Difesa e della sicurezza. Prendiamo il Giappone: Tokyo ha ordinato i caccia F-35, è entrato nel progetto Tempest assieme a Italia e Regno Unito, e punta ad un sistema di missili all’avanguardia nonché a bombardieri strategici ultra moderni.
Per quanto riguarda l’Italia, nel 2021 ha totalizzato una spesa militare pari a 24,4 miliardi di euro, l’1,37% del Pil. Nel 2020, il Paese era al 102esimo posto su 147 Stati per spesa militare sul Pil. E sotto la mediana dell'Ue, fissata all’1,6%, che della Nato (1,8%). Ma anche per il 2023 continua la tendenza di crescita per la spesa militare italiana. Lo evidenziano le stime dell’Osservatorio Mil€x, elaborazione dei dati delle Tabelle dei bilanci previsionali del ministero della Difesa e degli altri dicasteri che contribuiscono alla spesa militare italiana (ex Mise e Mef) allegate alla legge di bilancio 2023: il nuovo incremento complessivo è di oltre 800 milioni di euro.
Tenendo conto anche della spesa pensionistica militare netta a carico dell’Inps, in aggiunta alle dotazioni di fondi dei ministeri, si passa infatti dai 25,7 miliardi previsionali del 2022 ai 26,5 miliardi stimati per il 2023. A trainare l’aumento è il bilancio ordinario della Difesa (comprendente anche le spese per i Carabinieri in funzione di ordine pubblico), che passa da 25,9 a 27,7 miliardi in virtù dei maggiori costi del personale di Esercito, Marina e Aeronautica (oltre 600 milioni in più), e delle maggiori risorse dirette destinate all’acquisto di nuovi armamenti (quasi 700 milioni in più). Va precisato che l’aumento complessivo del bilancio della Difesa deriva per circa un miliardo da fondi previsti “a legislazione vigente” (in gran parte derivanti dalle scelte del governo Draghi) e per i restanti 700 milioni circa da decisioni ascrivibili al governo Meloni.
Altra voce ormai fondamentale della spesa militare (e da anni molto rilevante sia dal punto di vista delle cifre che della valenza operativa e strutturale) è quella per le missioni militari all’estero, che vengono finanziate da un fondo assegnato al bilancio del Mef e trasferito alla Difesa dopo passaggio parlamentare. Nel 2023 la dotazione sarà di oltre 1,5 miliardi di euro (in crescita di 150 milioni sull’anno precedente), di cui il 90% (quasi 1,4 miliardi) per funzioni militari dirette. Rimangono sugli alti livelli del 2022 gli investimenti per nuovi armamenti, con la conferma del budget annuale complessivo destinato al riarmo nazionale per oltre 8 miliardi di euro.