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Non ci possiamo assuefare: la priorità è fermare la guerra e la sua pericolosa escalation. L’unica vittoria possibile è la Pace, senza la quale non può esserci nessuna misura socialmente progressiva, nessun intervento economico in grado di affrontare la crisi di sistema in atto, la disgregazione dell’Europa politica e l’impoverimento di milioni di persone.
Torniamo a far sentire nelle piazze la voce del popolo della Pace! Non stiamo custodendo il pianeta e la Pace. L’Unione europea, gli Stati membri, l’Italia non devono spegnere la luce ma la guerra. Assumano un ruolo negoziale per la Pace non subalterno agli Usa e ai loro interessi. Se non si fermerà la guerra tra imperialismi in Ucraina, sarà il prodromo di una guerra mondiale in Europa che porterà popoli e nazioni nell’abisso, con disastrose conseguenze ambientali e sociali. Continuare a inviare armi, aumentare le sanzioni verso la Russia, oltre a non incidere sul regime autocratico putiniano, sono un azzardo, una follia nella follia della guerra. Si rispetti la Costituzione e si ripudi la guerra.
In Italia irrompe la drammaticità delle emergenze, sempre più intrecciate con la guerra e la crisi di un sistema capitalistico onnivoro, predatorio, di sfruttamento del pianeta e degli esseri viventi. Il neoliberismo è il cuore del problema. Per noi, “sinistra” non è una parola vuota: significa Pace, lavoro, cambiamento, radicalità e valori, scegliere chi rappresentare, dove e con chi stare e cosa fare. Occorre costruire rapporti di forza favorevoli, affermare un altro paradigma e una visione alternativa alla centralità del profitto, e affrontare lo scontro, sempre attuale, tra capitale e lavoro.
Affrontare la grave situazione con il razionamento di gas e di elettricità, il contenimento dei consumi, la riduzione di calore nelle case non significherà decrescita felice ma crescita della recessione, crisi del sistema produttivo e aumento delle diseguaglianze e delle povertà. La scelta tra scaldarsi o mangiare, pagare le bollette o l’affitto, curarsi o ammalarsi disegna uno scenario apocalittico, non accettabile in un paese industriale con grandi ricchezze. Sono scelte scellerate, improntate ancora a togliere ai poveri per dare ai ricchi. Occorre lottare contro questo scenario.
Se si vogliono risparmiare energia e cambiare stili di vita si riduca la settimana lavorativa, e si chiudano alla domenica gli energivori supermercati e centri commerciali.
Senza far pagare gli extraprofitti alle imprese che hanno speculato nelle crisi, senza recuperare entrate da chi evade ed elude le tasse e dalle grandi ricchezze, senza lo scostamento di bilancio con il recupero di ingenti risorse economiche per dare sostegno alle persone, alle famiglie, alle imprese e al sistema sociale, come avvenuto in Germania, non si avranno effetti sostanziali per nessuno. Senza la rinazionalizzazione e ripubblicizzazione delle aziende strategiche non si danno risposte credibili, partendo da quelle sull’energia per arrivare ai servizi pubblici locali.
La crisi colpirà in profondità il paese reale in modo diseguale e classista. La bomba sociale in Italia, come da tempo denuncia la Cgil, è innescata, e la deflagrazione, in un paese ricco quanto diseguale e ingiusto, investirà anche il prossimo governo e la classe politica usciti dalle ultime elezioni.
La Cgil non ha atteso la costituzione del nuovo governo. L’8 e il 9 ottobre è tornata a riempire le piazze e a colorarle di rosso e dei colori del’arcobaleno della Pace, con una significativa presenza di delegazioni internazionali. Uomini e donne non rassegnati, consapevoli della gravità della crisi e delle emergenze in atto, militanti di idealità, determinati nel continuare a mobilitarsi, a lottare a sostegno delle piattaforme rivendicative, dei progetti, delle idee di progresso che la nostra organizzazione ha nel tempo elaborato e condiviso. In piazza con la nostra autonomia di pensiero e di proposta per non dimenticare l’indisturbato assalto fascista alla nostra sede nazionale, per dare voce, istanza, rappresentanza al mondo del lavoro di ieri e di oggi, ai ceti popolari, ai pensionati, ai giovani e alle donne, ai cittadini con redditi bassi, a chi è costretto nella precarietà di vita e di lavoro.
In piazza per combattere le diseguaglianze, redistribuire ricchezza e lavoro, difendere i diritti costituzionali, le pensioni e la sanità e la scuola pubblica, per il rilancio dell’edilizia residenziale pubblica, per investire sulla più grande conquista di civiltà degli anni ‘70: il Servizio sanitario nazionale. Contro la depredazione e privatizzazione dei beni comuni, la regionalizzazione dei servizi all’insegna del federalismo o di quell’autonomia differenziata che mina l’unità e gli interessi generali del paese.
La nostra mobilitazione è stata la prima, giusta risposta a questa nuova fase post-elettorale, per richiamare l’attenzione della politica e del futuro governo alla condizione reale di una parte del paese, alle nostre proposte e al nostro ruolo di rappresentanza sociale.
La Cgil, in quanto sindacato generale di rappresentanza di milioni di persone che pensano e votano liberamente, mantiene la sua autonomia, si appresta, come sempre, agli incontri con il nuovo governo, attenendosi al programma, al merito e alle scelte. Sarà su questo che daremo un giudizio, mantenendo la libertà di costruire azioni e mobilitazioni di contrasto. Nessun pregiudizio, certo, ma nessuna apertura di credito: manteniamo la giusta distanza verso la destra che conosciamo e che abbiamo misurato – e combattuto - nei governi Berlusconi.
Dalle forze di destra ci separa una distanza ideale, valoriale e programmatica. Ci sarà al governo una classe politica estranea ai principi della Costituzione, ultraliberista, favorevole a un sistema sociale privatizzato, nemica dello stato di diritto, dello stato sociale e del sistema pubblico. Una classe “illiberale”, crudele con gli immigrati, familista e oscurantista, che disconosce le diversità, la libertà delle donne, i diritti sociali e civili.
Sul piano macroeconomico, sulle alleanze internazionali e la guerra, sul lavoro e i salari, la transizione ecologica ci sarà continuità con l’agenda del banchiere Draghi.
Occorre restituire dignità a milioni di persone che stanno vivendo ai margini della società e si stanno impoverendo ogni giorno di più: non lo farà certamente la destra liberista al potere, come non lo hanno fatto nemmeno i governi di centrosinistra, e quelli “tecnici”, incluso lo stesso governo Draghi. Abbiamo il diritto di ricordarlo e il dovere di non dimenticarlo.
Il risultato del voto del 25 settembre era previsto. Un elettorato sempre più mobile ha sancito la vittoria elettorale della destra unita in coalizione e il balzo in avanti del partito post-fascista, insieme alla sconfitta, più che prevedibile, del centrosinistra. Una sconfitta grave per i partiti progressisti e di sinistra, favorita per scelta e incapacità di unirsi in una larga coalizione, come era d’obbligo con una legge elettorale incostituzionale costruita dal governo Renzi per premiare le alleanze elettorali, al fine di dare al paese presunte stabilità e governabilità. Questa destra non è maggioranza nel paese ma ha vinto la disputa elettorale.
Il tasso di partecipazione politica ed elettorale, sempre più basso dal dopoguerra ad oggi, si conferma correlato al grado di benessere, di istruzione e alla condizione economica e sociale. Un astensionismo più elevato al sud, più in periferia che in città. Sono soprattutto operai, lavoratori, ceti polari a non votare più. Tutto questo non conta nulla, non preoccupa e non interessa questa politica lontana dal vivere quotidiano, e questi partiti autoreferenziali più dediti al potere e alla propria sopravvivenza. C’è chi ha scelto di perdere e di perdersi, di regalare un vantaggio parlamentare a una destra che si trasformerà in una “dittatura della maggioranza”. Riducendo la concreta possibilità dell’opposizione politica di esercitare una funzione efficace in un Parlamento poco rappresentativo del paese reale e svuotato della sua funzione primaria per scelta accentratrice dei vari governi, ultimo quello del tecnocrate Draghi, uomo solo al comando
Gli stessi partiti hanno perso la loro storica funzione identitaria di rappresentanza e di vitalità democratica, divenendo sempre più apparati elettorali e gestori di potere distanti dai cittadini e dai loro problemi. È avvenuta una profonda rottura politica che apre una fase inedita quanto complicata.
La Cgil non è la sconfitta di queste elezioni. Ma il risultato non ci è indifferente e ci interroga in quanto sindacato confederale delle lavoratrici e dei lavoratori, di programma e di valori con riferimento alla nostra Costituzione antifascista. Un sindacato non apolitico, mai equidistante e con radici che affondano nella storia del movimento operaio internazionale e nella migliore tradizione dei partiti socialista e comunista. Siamo stati e siamo un presidio di democrazia e di libertà, di giustizia sociale e di eguaglianza, un argine alle pulsioni belliciste, reazionarie, xenofobe e razziste.
Continueremo ad esserlo, con una Cgil rinnovata e forte del suo insediamento nei luoghi di lavoro e nei territori, della sua rappresentanza sociale generale, autonoma, democratica e plurale, ricca di idealità e della generosa partecipazione delle sue e dei suoi militanti. C’è ancora bisogno di sindacato, c’è bisogno della Cgil.
Un partigiano come presidente. Tomaso Montanari, si ricorda la celebre canzone di Toto Cotugno ‘L’Italiano’, che diventò famosa in tutto il mondo? Quel passaggio parlava di Sandro Pertini, il politico socialista che chiedeva di svuotare gli arsenali e riempire i granai.
Lei è stato fra i promotori di un appello per chiedere alla politica italiana di non finanziare ulteriormente gli aiuti militari all’Ucraina, e non portare da 25 a 38 miliardi annui le nostre spese militari. Ma sia questo che il prossimo governo sembrano intenzionati a tirare dritto. Elmetto in testa.
“Mi chiedo allora cosa ancora rimanga della Costituzione italiana. Il ripudio della guerra passa attraverso il ripudio della sua preparazione. E il ripudio della logica secondo cui ‘si vis pace, para bellum’. La questione è profonda, antica, e riguarda anche la nostra adesione alla Nato, alla quale ad esempio, come è noto, il presidente Pertini era contrario. Senza arrivare a mettere in discussione il se starci, bisognerebbe però almeno discutere sul come starci. Visto che l’articolo 11 parla di condizioni di parità e reciprocità, la domanda è retorica: siamo o non siamo in condizione di parità con gli Stati Uniti? O anche solo con la Francia, con l’Inghilterra? Su questo punto dovremmo dare una risposta sostanziale. Perché la logica non fa sconti, quello che è successo da febbraio a oggi dimostra che ogni iniziativa intrapresa altro non ha fatto che trascinarci sul baratro nucleare. Evidentemente questo combattere la guerra con la guerra non funziona. A me sembra che non solo non sia giusto, ma nemmeno funzionante”.
Dallo scorso febbraio, chiunque si oppone motivatamente all’escalation del conflitto russo-ucraino viene invariabilmente accusato di essere un putiniano. Nella lista nera probabilmente c’è anche lei…
“Non c’è dubbio alcuno che Vladimir Putin sia l’aggressore. Ma il punto è un altro. E cioè, se a questo si risponde con un’escalation di guerra e di minacce, o se invece si risponde provando a costringerlo a una trattativa. Io credo che l’Occidente non ci abbia minimamente provato a tentare una via diplomatica. Come ha scritto uno dei massimi studiosi italiani di geopolitica, Lucio Caracciolo, questa è una guerra mossa dagli Stati Uniti. Lo storico direttore di Limes non può essere certo sospettato di essere un putiniano, un estremista. La sua analisi è stata raccolta anche da ‘La Stampa’, non da ‘il manifesto’, o ‘il Fatto quotidiano’ o ‘l’Avvenire’, che ormai è il giornale italiano più di sinistra. Scegliere l’Ucraina come teatro della Terza guerra mondiale, perché questo è successo, è stato fatto in due: Putin da una parte, l’Occidente dall’altra. Non si tratta di negare che la Russia ha aggredito l’Ucraina, piuttosto di capire perché è successo, soprattutto se si poteva evitare. E una volta che è successo, cosa avremmo dovuto fare”.
L’inverno è alle porte, gli italiani e le italiane sono preoccupatissimi per gli effetti concreti della cosiddetta economia di guerra. Al nord, sul fronte sarà ancora peggio. Ma davvero non ci sono margini per un’iniziativa diplomatica europea?
“Ti confesso di sperare che si arrivi all’inverno, perché la minaccia nucleare mi pare seria e concreta. Siamo in una situazione in cui potrebbe succedere che per sbaglio, non volendolo, per un fattore imponderabile, si arrivi a una prima bomba nucleare tattica sul territorio ucraino. A quel punto cosa accade non lo sa nessuno, la logica dell’escalation vuol dire che ognuno farà qualche cosa in più. E siamo sicuri che una guerra nucleare possa essere confinata al territorio dell’Ucraina, anche se basterebbe quello a devastare mezza Europa, noi compresi? Mi risulta che esista un sottomarino russo in grado di arrivare a distruggere Los Angeles senza essere intercettato. Siamo sicuri che si arriverà all’inverno? Io non lo do per scontato. Continuiamo a sostenere che bisogna essere europeisti e atlantisti, come se le cose fossero sinonimo. È evidente che gli interessi degli Stati Uniti e gli interessi dell’Europa non coincidono. Se non altro perché il rapporto con la crisi energetica, anche soltanto per la vicinanza geografica con il territorio di guerra, è diverso. Una guerra nucleare limitata all’Ucraina ha conseguenze diverse per l’Italia e per gli Stati Uniti. E poi l’idea che la Russia andasse estromessa dall’Europa e costretta a ripiegarsi sull’Asia, cioè sul rapporto con la Cina - perché è quello che è successo - può forse convenire agli Stati Uniti, molto probabilmente conviene agli Stati Uniti, certamente non conviene all’Europa. Quindi in questo caso bisognerebbe essere atlantisti ma anche intelligenti. Soprattutto non autolesionisti. Questo avrebbe voluto dire essere atlantisti critici. E non atlantisti succubi. Questo è un po’ il punto. Nel modo più moderato possibile”.
In questi mesi abbiamo assistito ad un’autentica denigrazione di tutti coloro che hanno a che fare con la Russia, dai cittadini di quel paese agli intellettuali e studiosi che ammoniscono di non fare di ogni erba un fascio. Lei, che è il rettore dell’Università per gli stranieri di Siena, che giudizio si è fatto di questa situazione?
“Noi come Università per gli stranieri di Siena il 23 novembre prossimo consegnamo la laurea honoris causa a Ludmilla Petruseskaja (insigne scrittrice e drammaturga russa, implacabile oppositrice del governo del presidente Putin e della sua guerra contro l’Ucraina, ndr). Abbiamo pubblicato subito dopo l’inizio della guerra il suo post su facebook, scriveva che questa guerra è colpa di un criminale numero uno come Vladimir Putin. Non mi pare sia un’espressione che lascia spazio a dubbi sulla scelta di campo. Noi le diamo la laura honoris causa, e nello stesso tempo continuiamo a studiare la lingua russa, abbiamo infatti invitato Paolo Nori a parlare di Dostoevskij. Noi pensiamo che la guerra non sia alla cultura russa. Crediamo che bisogna distinguere Putin dalla Russia. Bisogna separare il piano bellico da quello culturale. E dobbiamo anche pensare che la risposta all’aggressione dell’Ucraina non può essere un’escalation militare, nemmeno nella cultura. Nelle parole, nel lessico, nella retorica. Ci siamo trovati di fronte giornali italiani come ‘Corriere della sera’ e ‘Repubblica’ che sembravano fogli interventisti del tempo di D’Annunzio. Il ‘Corriere’ è arrivato a scrivere che noi saremo deboli perché nelle famiglie italiane non c’è più l’abitudine a considerare un onore la perdita di un figlio in guerra. Proprio così. Logiche mostruose. Francamente non so chi potrebbe essere felice di perdere un figlio in guerra”.
Solo Papa Francesco non si stanca di ripetere che la guerra è una follia. Un sentimento che, al di là del voto, accomuna buona parte della popolazione italiana. Sarai sempre in prima fila in questa pacifica battaglia di civiltà?
“Penso che questo succeda perché il Papa è il Papa. E questo è un Papa che ci crede al Vangelo. Ma anche per un’altra questione che invece si sottolinea poco: Papa Francesco non è un occidentale, è un argentino. E ha un rapporto critico con gli americani, i gringos, come li ha chiamati in un’occasione, suscitando un’aspra polemica. Ha la capacità di guardare il mondo con uno sguardo non occidentalocentrico. Ecco, questo non succedeva, non era mai successo, non c’era mai stato un Papa non occidentale. Io direi che è il punto vero della questione: guardare il mondo con un occhio mondiale. E ha ragione, non ci dobbiamo stancare di manifestare il nostro no alla guerra, di manifestare per la pace. Io sono esterrefatto che non siamo tutti in piazza. Di fronte alla minaccia nucleare nessuno è più in grado di portare la gente in piazza in Occidente. Non ci sono né partiti, né sindacati capaci di far scendere le persone in piazza. Ma se non manifestiamo ora, non so quando dovremmo farlo. Non so se dopo potremmo farlo ancora. Siamo un passo oltre, la minaccia è talmente grave che i numeri delle manifestazioni dovrebbero essere soverchianti. E vorrei dire, lo dico in modo brutale, che le manifestazioni dovrebbero essere di tipo egoistico. Cioè: siamo in piazza per la nostra sopravvivenza”.
Cosa ci dobbiamo aspettare nei prossimi mesi?
“Leggo che gli Stati Uniti e l’intelligence ritengono probabile l’escalation nucleare. Come si fa a stare in casa venendo a conoscenza di una cosa del genere? Per non essere accusati di essere equidistanti fra russi e ucraini? Di quale giudizio ci dovremmo preoccupare? Al tempo della crisi di Cuba con i missili, le piazze del mondo erano piene di manifestanti. Oggi no. E allora mi domando: chi fa sentire ai potenti della terra che l’umanità ha voglia di vivere e non di morire? Nessuno. Non c’è più una forza politica, di massa, in grado di rappresentare. Un paradosso: noi diciamo di combattere per i valori dell’Occidente, ma di fatto non c’è più democrazia neanche in Occidente. Questo è il punto, le nostre non sono più democrazie ma post-democrazie, così come vengono chiamate. E nella post-democrazia il nesso tra popolo e governo, popolo e politica, è allentato a tal punto che quattro italiani su dieci non votano, in un momento in cui si decidono le sorti del pianeta”.
Da un lato il sabotaggio al Nord Stream, i referendum farsa sull’annessione alla Russia delle zone occupate, la mobilitazione dei coscritti dichiarata da Putin e il continuo richiamo alla possibilità di uso dell’arma atomica. Dall’altro noi, costruttori di pace delle carovane di “Stopthewarnow”, che da marzo attraversano i territori di guerra portando aiuto umanitario e sostegno politico alla società civile. Con particolare attenzione agli obiettori di coscienza, a chi ha il coraggio di dire: no, contro un mio fratello non sparo!
Come ci ha scritto il presidente della Cei, il cardinale Matteo Zuppi: “Una piccola luce di pace nelle tenebre terribili della violenza”. Quella partita per Kiev il 26 settembre, sia pur in numeri più contenuti delle diverse carovane, era forse la più politica. Una Carovana di cui ci siamo fatti carico noi di Un Ponte Per insieme al Movimento Nonviolento, con il sostegno di tutte le associazioni di Stopthewarnow. Con lo scopo, in primo luogo, di sollevare l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale sui giovani che disertano o si dichiarano obiettori di coscienza sia in Ucraina che in Russia, chiedendo misure di protezione da parte dell’Ue e l’apertura delle frontiere per accoglierli.
Svuotare la guerra togliendo “la carne da macello” dai campi di battaglia significa dire che esiste un’altra strada da percorrere, che uccidere e morire non è l’unica opzione. In Ucraina, nel 2021, erano più di 5mila gli obiettori di coscienza al servizio militare, riconosciuta dalla legislazione, ma immediatamente sospesa con la legge marziale che dichiara tutti i maschi dai 18 ai 60 anni mobilitabili nel conflitto e richiamati alle armi. In Russia, crollata la parodia della “operazione militare speciale” con la quale il governo aveva cercato di non allarmare la popolazione, l’annuncio della mobilitazione generale parziale ha dato il via alla legittima fuga dal paese di tantissimi giovani, come dimostrano le file alle frontiere.
Abbiamo denunciato, anche all’ambasciatore Pierfrancesco Zazo che ci ha ricevuti all’Ambasciata italiana a Kiev, che erano inaccettabili le chiusure alle frontiere di paesi come la Finlandia e la Lituania, ed era assolutamente anacronistica la decisione, annunciata dalla von der Leyen appena il 1° settembre, di restrizioni nei visti d’ingresso per i cittadini russi.
In Ucraina il caso-simbolo è quello del giornalista Ruslan Kotsaba, accusato di alto tradimento per dichiarazioni contrarie alla leva risalenti al 2015, ai tempi della guerra del Donbass. Forse anche per l’attenzione internazionale il processo a suo carico (rischia 15 anni di carcere) è stato rinviato proprio il giorno del nostro arrivo a Kiev. Di grande commozione l’iniziativa assunta con alcuni esponenti del movimento pacifista ucraino di un comune presidio simbolico alla statua di Gandhi, in uno dei giardini della capitale. Per la giornata internazionale della nonviolenza, il 2 ottobre, abbiamo anche letto un brano attualissimo dell’attivista nonviolento e statista indiano sulla necessità del bando delle armi nucleari, e di sottrarre l’umanità a questa terribile minaccia.
Prima di Kiev c’eravamo fermati a Cernivtsi, città ucraina al confine con la Romania, dove con l’università locale, una delle più importanti ed antiche del paese, patrimonio Unesco, abbiamo avviato un progetto di collaborazione per educazione alla pace e alla nonviolenza. Un progetto che Un Ponte Per sta portando avanti con il partner rumeno Patrir (Peace Action, Training and Research Institute of Romania), rivolto ai giovani dell’Ucraina in tutto il paese.
Tra gli incontri a Kiev quello con diversi attivisti sindacali che, pur non facendo mancare il sostegno e l’adesione alla resistenza all’invasore, ci hanno illustrato il gravissimo peggioramento delle condizioni di vita dei ceti popolari, il pesante aggravarsi della disoccupazione e la contrazione dei diritti dei lavoratori. La legge marziale ha vietato il diritto di sciopero e consentito settimane di lavoro di 60 ore, spesso senza adeguare i salari, il cui pagamento in alcuni casi è rinviato a quando l’invasore russo dovrà risarcire il popolo ucraino dei danni prodotti. Il governo ha aggravato questo quadro con la legge 5371 sul lavoro, rendendolo sempre più precario al punto da cancellare il diritto al mantenimento del posto per le lavoratrici in maternità.
L’economia di guerra costituisce una pista di lavoro che la delegazione consegna ai sindacati italiani ed europei, affinché non abbandonino i lavoratori ucraini e facciano pressioni sulla Ue per far rispettare gli standard europei sul diritto del lavoro. Quanto alla nostra proposta di trovare un punto d’iniziativa comune con i lavoratori russi, c’è stato detto che i tempi non sono maturi e che si dovrà aspettare la “vittoria” dell’Ucraina. Dovremo, con grande intelligenza e capacità creativa, insistere invece per imporre un protagonismo dei lavoratori e delle lavoratrici di entrambi i paesi per rompere lo schema amico-nemico. Serve anche a questo un nuovo e forte movimento per la pace.
Piazza Sant’Ambrogio, a Firenze, ore 18 del 5 ottobre. Piazza piena, lavoratori, sindacalisti, politici, cittadini e cittadine. Fianco a fianco. Tanti sono rider, compagni di Sebastian, che a 26 anni si è scontrato contro un suv in una serata buia in cui correndo andava a portare da mangiare a qualcuno. Correndo, perché la corsa, quella dettata da un maledetto algoritmo che incita a correre di più, a consegnare di più, a pedalare o sgassare sempre di più se vuoi aggiudicarti più consegne, la corsa è la cifra base di questo lavoro: correre, sempre, più veloce, più veloce.... e non basta mai.
Così Sebastian Galassi, 26 anni, fiorentino, è andato correndo incontro alla morte la sera del 2 ottobre, lui che faceva quel “lavoretto” per mantenersi agli studi all’università, studiava design e grafica per il web. Un “lavoretto” quello che ha ucciso Sebastian, che ha già chiesto altre vite: nella sola Toscana nel 2022, come ha ricordato anche il sindaco Dario Nardella, altri due morti, William De Rose, che ha perso la vita lo scorso 25 marzo a Livorno, e Romulo Sta Ana, morto il 29 gennaio a Montecatini.
La piazza è piena, scatta la contestazione quando il presidente regionale Eugenio Giani porta la sua solidarietà al presidio. Perché c’è tristezza, ma anche tanta rabbia. Rabbia perché nonostante gli accordi e le sentenze si continua a morire, correndo per la città senza guardare a niente, con l’idea fissa di fare presto, perché l’algoritmo non perdona, e se sei “lento” ti mette in fondo, ti esclude. Lo sciopero ha riguardato i rider fiorentini delle società aderenti ad Assodelivery (Glovo, Deliveroo, Uber) ma anche quelli inquadrati come dipendenti nel comparto logistica (Just Eat e Runner Pizza), in solidarietà con i colleghi. Per tutti, l’esigenza di richiamare l’attenzione alla salute e sicurezza del settore.
In occasione della manifestazione a Firenze, sono partite iniziative di protesta e sensibilizzazione anche in altre città come Milano, Torino, Perugia, Roma. In piazza Sant’Ambrogio diversi rider dal sagrato hanno preso parola per raccontare le loro storie. Uno fra i tanti, Riccardo, 22 anni, fiorentino, racconta le condizioni effettive in cui si lavora: “Lavoro sia per Just Eat che per Glovo - dice - studio all’Università di Firenze. Lavoro per due piattaforme perché una non basta per arrivare a fine mese. È molto semplice: una delle due, Glovo, paga per ogni consegna che faccio, l’altra invece mi contrattualizza come lavoratore dipendente. Saremmo inquadrati con il contratto nazionale della logistica”, spiega Riccardo. Dunque dovrebbe essere tutto abbastanza regolare. Ma c’è un ma: “C’è un accordo integrativo aziendale - continua il rider - che peggiora il contratto, levando le maggiorazioni, la tredicesima, la quattordicesima, abbassa la paga base e contempla contratti di 10-15 ore. Di fatto ciò crea una compartecipazione fra le piattaforme, e incide sui nostri ritmi di lavoro. Significa lavorare di fila per ore, correndo, aspettando i tempi dei ristoranti, correndo ancora per rispettare la consegna e facendo attenzione al traffico. Conosco tantissimi colleghi che come me lavorano per più piattaforme. La ragione è ovvia: nessuna piattaforma garantisce una paga base che consenta di arrivare a fine mese senza stress, e quindi in condizioni di sicurezza quando si corre”.
“Quanto successo è inaccettabile. Ringraziamo i tanti rider che hanno scioperato rischiando in proprio. Da Firenze il messaggio che parte oggi è forte: basta cottimo, basta morire per una consegna. Non si può andare avanti così. Chiediamo alle società aderenti ad Assodelivery di assumersi le proprie responsabilità, di riaprire i tavoli di confronto col sindacato e di garantire piene tutele ai propri rider, a partire da un modello retributivo che superi la paga a cottimo e assicuri un corretto inquadramento contrattuale, così come sancito dalle sentenze che in questi mesi sono state emesse da più tribunali. Lavoratori e lavoratrici del settore delivery hanno bisogno di tutele, diritti, paghe decenti, sicurezza sul lavoro, in antitesi a un modello che spinge a correre per consegnare e guadagnare di più. È l’ora di risposte vere, senza le quali siamo pronti a mobilitarci come già fatto in passato. Chiediamo anche alla politica di fare la propria parte. La lotta non finisce qui”, dicono dalla Cgil, che tiene un’assemblea con i rider dopo il presidio.
In realtà ciò che succede sulle strade della città e del paese non è altro che il risultato di quella che nel 2019 si chiamava gig economy, basata sulle piattaforme on line. Una forma di lavoro che mette in crisi il concetto stesso di lavoro e lavoratore. I “lavoretti”, che poi lavoretti non sono, perché il lavoratore rischia di rimanerci appeso per tutta la vita, come dimostrano gli incidenti occorsi a gente di oltre 40 anni, perché deve trovare il modo di sbarcare il lunario. Lavori difficili da regolamentare, liquidi, difficili da controllare, nonostante gli accordi, gli impegni istituzionali, le sentenze.