Una legge di iniziativa popolare per fermare l’autonomia differenziata.
Ci si potrebbe domandare che cosa spinga l’attuale governo a insistere sul progetto di autonomia differenziata, dopo le scarse prove di efficienza che le Regioni hanno dato nel fronteggiare la pandemia di Covid, tuttora non sconfitta. Basterebbe una riflessione pacata sull’intera vicenda per concludere sulla necessità di rafforzare il Servizio sanitario nazionale. Non certo di devolvere le competenze sulla sanità alle Regioni. Eppure il governo Draghi ha voluto inserire la legge quadro in materia di autonomia differenziata tra quelle collegate alla legislazione di bilancio.
La ministra Gelmini, appositamente chiamata nel governo per portate a termine ciò che non riuscì al precedente esecutivo con il progetto di legge quadro del ministro Boccia mai giunto all’approvazione, un giorno sì e l’altro pure insiste che la legge sarebbe già pronta e sulla soglia del consiglio dei ministri per l’approvazione, e quindi per l’invio alle Camere.
Per comprendere meglio cosa c’è sotto tanta malriposta insistenza, conviene fare un passo indietro. Tornare agli anni ruggenti della globalizzazione capitalistica. Nei primi anni Novanta comincia a circolare un testo di Kenichi Ohmae, un consulente di gestione di statura internazionale, che mettendo in discussione il valore dei vecchi confini delle nazioni parla apertamente di “economia delle regioni forti”, ovvero della necessità che queste ultime si colleghino tra loro lungo le filiere del valore, superando le frontiere e abbandonando al loro destino le zone più deboli dei rispettivi paesi.
Tra le regioni forti Ohmae cita esplicitamente la Catalogna e la Lombardia, chiedendosi retoricamente che cosa avessero da spartire queste regioni con la parte restante dei loro paesi. L’invito ad una vera e propria secessione non passa inosservato. Anzi viene raccolto in varie forme, da quelle più clamorose a quelle più striscianti. Nel 2001 il Parlamento italiano, sul finire della legislatura, vara una infelice quanto precipitosa riforma del Titolo quinto della Costituzione, modificando profondamente gli assetti istituzionali tra Stato e Regioni. Ma ciò non è bastato. Le Regioni governate dalla Lega, come la Lombardia e il Veneto, cui si è aggiunta l’Emilia Romagna, hanno spinto sull’acceleratore, organizzando presunti pronunciamenti popolari, per giungere a una vera e propria secessione, giustamente definita dei ricchi, che se andasse in porto determinerebbe la fine dell’unità nazionale e, tra l’altro, del contratto unico nazionale di lavoro.
Il progetto Gelmini non è ancora stato ufficialmente varato, tuttavia la ministra insiste sulla esistenza dell’intesa con le Regioni maggiormente interessate. Ma non tutta la maggioranza, e neppure tutto il governo, sono disponibili a percorrere questa strada fino alle sue ultime disastrose conseguenze. A fine giugno Pierluigi Bersani e Vasco Errani, in una conferenza stampa, criticano apertamente e aspramente il disegno di legge Gelmini, dichiarando che la loro parte politica non lo voterà. Prima ancora si erano sentite le critiche, seppure meno decise, della ministra del Mezzogiorno, Mara Carfagna. Ma l’aprirsi di queste contraddizioni non basterà a fermare un progetto che viene così da lontano. Specialmente in una situazione in cui la doppia crisi, prima economica e poi sanitaria, e quindi la guerra russo-ucraina, hanno messo in discussione gli assetti istituzionali e politici non solo dell’Europa ma del mondo intero.
È quindi necessario che si sviluppi nel paese un movimento contrario ai propositi scissionisti, comunque mascherati o conditi. Per questo il Coordinamento per la Democrazia Costituzionale ha lavorato per giungere a un testo di legge di iniziativa popolare che non si limiti a bloccare la legge quadro Gelmini, ma modifichi parti dello stesso Titolo quinto della nostra Costituzione.
Ne è emersa una proposta, condivisa da giuristi, costituzionalisti, intellettualità varie e da parti importanti del movimento sindacale, come i sindacati della scuola di Cgil, Cisl e Uil, che propone la riscrittura del terzo comma dell’art.116; una sostanziale rivisitazione dell’art.117, con lo spostamento di alcune materie dalla potestà concorrente a quella esclusiva dello Stato, come scuola e sanità; l’introduzione di una clausola di supremazia statale, in modo da ribadire la prevalenza dell’interesse nazionale, come è del resto implicito nel carattere uno e indivisibile della nostra Repubblica, scritto a chiare lettere nell’articolo 5 della Costituzione.
Le modifiche regolamentari introdotte al Senato impongono che le proposte di legge di iniziativa popolare vengano comunque discusse, se non in questa nella prossima legislatura. Non possono essere seppellite nei cassetti.
Bisogna raccogliere in sei mesi almeno 50mila firme, ora anche online, con specifiche modalità che saranno precisate nei prossimi giorni.