Partiamo da un dato di fatto: i salari italiani sono da decenni tra i più bassi in Europa e addirittura in calo, a differenza di molti altri paesi, dove si registrano incrementi reali. La riduzione del potere d’acquisto dei salari inizia con gli accordi concertativi del 31 luglio 1992, che abolì la scala mobile, e del 1993 sulla politica dei redditi. Lo sa benissimo anche il presidente di Confindustria Bonomi, che non a caso giudica il reddito di cittadinanza (580 euro mensili per nucleo familiare) concorrenziale con i miseri stipendi offerti da molte aziende!
Mentre a livello europeo si avvia a conclusione il negoziato istituzionale per la direttiva sul salario minimo (ma ci vorranno ancora mesi), i nostrani iper-europeisti - quando si tratta di austerità – si stracciano le vesti per i presunti sfracelli dell’introduzione del salario minimo in Italia. Pelosamente, inneggiano alla contrattazione collettiva, da noi già sopra quell’80% auspicato dall’Ue. Quanta ipocrisia.
Il ritardo continuo dei rinnovi dei Ccnl, la quantità insoddisfacente di salario conquistato sono tra le ragioni della perdita del potere d’acquisto di chi lavora. L’enfasi sulla copertura contrattuale sarà rapidamente dimenticata a favore delle “analisi” sull’eccessivo costo del lavoro, la tenuta di un sistema produttivo povero e un sindacato poco rappresentativo. Salvo opporsi ad una misura di effetto immediato: la validità erga omnes dei contratti stipulati dalle organizzazioni maggiormente rappresentative, con una legge sulla rappresentanza, che spazzerebbe via la miriade di contratti pirata. Ma per Confindustria e padronato italiano, provinciale e arretrato, ben propenso all’utilizzo delle risorse pubbliche, l’unico lavoro buono è quello da schiavi.
Si nascondono così i nodi strutturali di un mercato del lavoro sempre più precario, di un sistema economico sempre più frammentato, della delocalizzazione di produzioni avanzate a favore di una terziarizzazione con servizi a basso valore aggiunto.
La riduzione salariale complessiva è solo in parte dovuta alla perdita di produttività nel paese, che non deriva dal costo del lavoro, ma dalla ingiusta distribuzione della ricchezza, legata alla controrivoluzione neoliberale. Le recriminazioni su “tasse” e “burocrazia” celano anni di detassazione delle grandi ricchezze, di austerità imposta alla pubblica amministrazione, senza che fosse arrestata la fuga dall’investimento in settori ad alto valore aggiunto. L’apparato produttivo italiano è stato smantellato per la precisa scelta politica di bloccare il conflitto sociale e le trasformazioni che stava conquistando.
Ora il sindacato, la Cgil, hanno di fronte una grande sfida: ripristinare appieno i diritti del lavoro, ponendo fine alla precarietà, cancellare il Jobs act, riconquistare l’articolo 18, ricostruire per via conflittuale il potere d’acquisto di salari e pensioni, con consistenti aumenti del salario reale e una nuova indicizzazione all’inflazione. Per un radicale cambiamento economico e sociale.