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asta con il pensiero unico, impolitico e maschile, che conosce solo il linguaggio delle armi. Non ci sono crimini di guerra, è la guerra a essere un crimine contro l’umanità. La guerra genera mostri. Allora, prima di tutto la Pace: fermare la guerra tra Usa e Russia fatta sulla pelle del popolo ucraino. Una guerra spietata come tutte le altre. Basta inviare armi, prolungare il conflitto in una pericolosa escalation con la sofferenza e il massacro di civili. Si fermi la guerra con la diplomazia, il compromesso e la mediazione.
Basta aumentare le spese militari, riempire gli arsenali per fare altre guerre. In Italia, la dilazione su più anni dell’aumento della spesa militare al 2% del Pil, come chiesto dalla Nato, non ne cambia la sostanza e la gravità. Per noi rimane una follia. In quattro anni si useranno ben 14 miliardi di euro tolti ai bisogni sociali. Le armi, sulle quali si toglie perfino l’Iva (!), non danno Pace e nessuna deterrenza, servono per la guerra che dovremmo come Paese ripudiare e persino abrogare, in virtù della Costituzione. L’esperienza delle tante guerre disastrose non insegna nulla!
L’anno scorso l’Italia ha fabbricato e venduto armi in tutto il mondo, dittature comprese. L’azienda Leonardo dall’inizio della guerra ha visto aumentare il valore azionario del 20%. In 10 anni le spese militari sono aumentate del 15%. Nel frattempo le spese per sanità, istruzione, prevenzione, per i diritti sociali, per l’assistenza pubblica sono diminuite.
Non si mette nel conto l’impatto ambientale in un mondo vicino al collasso, non si pensa alla possibile carestia che investirà tanti Stati dipendenti dal grano, dai cereali russi e ucraini, alla conseguente immigrazione biblica per fame dall’Africa. Da questi immigrati ci difenderemo con le armi o alzando muri, tirando fili spinati per respingerli, come nell’Ungheria di Orban, amico di Putin, contro cui la Ue vorrebbe oggi bloccare i fondi, mentre il nostro ministro “della guerra” Guerini ha fatto un accordo di cooperazione militare? O li chiuderemo nei lager pagati da noi come in Libia o li faremo annegare nel Mediterraneo? Armandoci non ci sarà pace e sicurezza e nessuna reale deterrenza o difesa: solo più violenza, ingiustizia, diseguaglianza e povertà. Il Paese è fragile: colpevolmente, non è stato attrezzato ad affrontare la crisi globale, finanziaria, pandemica e climatica e, ora, gli effetti devastanti della guerra. Le speculazioni e l’aumento dei prezzi delle materie prime, energetiche e agro-alimentari stanno già determinando una nuova spirale recessiva e inflazionistica che si cercherà di scaricare ancora sui ceti popolari e sul mondo del lavoro.
Noi, la Cgil, staremo con il popolo saggio contrario all’invio e all’aumento delle armi, continueremo a dare aiuto al popolo ucraino, manifesteremo per la Pace e il ripudio della guerra. E continueremo la mobilitazione generale per il necessario cambiamento radicale economico, sociale e ambientale, per l’eguaglianza e la giustizia sociale, per il futuro nostro e delle nuove generazioni.
Quindici processi, tre inchieste, due pronunciamenti della Cassazione per una verità che, con la sentenza di condanna di otto carabinieri per i depistaggi, può ora dirsi definita. Una verità arrivata a 13 anni di distanza dalla morte di Stefano Cucchi, il geometra romano morto in ospedale dopo un terribile pestaggio mentre, affidato allo Stato, era sottoposto alla custodia cautelare.
Prima però c’era stata una falsa verità costruita a tavolino con documenti modificati ad arte, cancellati, spariti o negati. Una falsa verità che ha resistito finché la tenacia di una famiglia che non si è mai arresa, e le tecniche investigative di una procura determinata a riaprire il caso, hanno smascherato l’imbroglio. Tecniche investigative degne delle più complesse inchieste antimafia, per smontare un meccanismo di auto protezione scattato all’interno dell’Arma dei carabinieri della capitale.
Resta nella memoria la definizione del primo processo data dal pubblico ministero dei processi bis e ter, Giovanni Musarò: “Questo è un processo kafkiano, con i testimoni sul banco degli imputati e gli imputati sul banco dei testimoni”.
Alla fine il bilancio giudiziario conta tre assoluzioni definitive per gli agenti di custodia imputati nel primo processo; un’assoluzione e quattro prescrizioni (frutto di annullamenti e rinvii) per i medici e gli infermieri; condanne definitive a 12 anni per i due carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, responsabili del violentissimo pestaggio, e altre due per falso da rivedere in un nuovo processo di appello.
Infine ci sono otto condanne, in primo grado, per gli imputati dei depistaggi che hanno accompagnato tutte le indagini. Fra loro il generale Alessandro Casarsa, all’epoca comandante del Gruppo Roma (quindi capo dei corazzieri del Quirinale), il colonnello Francesco Cavallo, il luogotenente Massimiliano Colombo Labriola, il militare Francesco Di Sano e il maggiore Luciano Soligo.
Schierarsi per la pace contro la guerra non è solo una dichiarazione di principio ma deve essere un modo di agire coerente, improntato innanzitutto sulla solidarietà concreta con le vittime della guerra, sull’impegno per il cessate il fuoco, per la soluzione negoziata, per la de-escalation militare, per il disarmo. Ragion per cui, dopo le manifestazioni e i comunicati che hanno visto la Cgil protagonista, insieme a tante associazioni, per ribadire il ripudio della guerra, è partita la mobilitazione per assistere la popolazione ucraina.
La macchina degli aiuti si è messa in moto subito. La Cgil ha lanciato una campagna di solidarietà per raccogliere fondi da trasformare in generi di prima necessità: alimenti, materiali e prodotti di igiene personale, medicinali, attrezzature per la prima sistemazione dei profughi e degli sfollati interni. La risposta di lavoratori, lavoratrici, pensionate, pensionati è stata immediata, come immediata è stata la mobilitazione delle strutture territoriali e di categoria. In poco meno di due settimane siamo riusciti ad organizzare il primo carico di aiuti ed a consegnarlo al sindacato ucraino.
Diciassette tonnellate di beni di prima necessità raccolti in Lombardia ed Emilia Romagna, grazie alla mobilitazione delle rispettive Cgil regionali, della Camera del Lavoro Metropolitana di Milano, dello Spi Lombardia, della Flai nazionale, della Filt nazionale e della Lombardia e di Nexus. L’operazione si è avvalsa dell’importante coordinamento del sindacato slovacco Koz e del sindacato austriaco Ogb, anch’essi mobilitati nella raccolta di aiuti umanitari. È stata, questa, un’operazione di solidarietà diretta tra sindacati, da un lato Cgil, Ogb, Koz e dall’altro Fpu, il sindacato ucraino. Una modalità scelta per enfatizzare l’impegno e la scelta di campo del sindacato.
Così che, mercoledì 31 marzo, a mezzogiorno, nel piazzale del magazzino affittato dall’ambasciata ucraina in Slovacchia è avvenuto l’incontro e la consegna degli aiuti umanitari. Per il sindacato ucraino era presente il presidente, Grygorii Osovyi, autorizzato ad attraversare la frontiera ucraina in quanto ultrasessantenne, che ci ha informato sulla destinazione degli aiuti.
Il sindacato ha messo a disposizione per gli sfollati una decina di strutture alberghiere, nella regione occidentale dell’Ucraina, e al momento sta assistendo circa 50mila sfollati, fornendo alimentazione e assistenza socio-sanitaria. Grygorii segnala che sono circa dieci milioni gli ucraini che sono dovuti scappare dalle loro case e città, e l’emergenza umanitaria ha bisogno dell’aiuto e della solidarietà dell’Europa.
Quello che abbiamo potuto constatare durante il breve soggiorno in Slovacchia e in frontiera con l’Ucraina è che il flusso in uscita è drasticamente diminuito, da circa 15mila persone al giorno delle prime settimane di guerra, siamo oggi ad un passaggio di circa 2-300 persone al giorno. In Slovacchia una grande percentuale degli ucraini che hanno attraversato la frontiera hanno chiesto i permessi di soggiorno, per rimanere vicino a casa, con la speranza di poter rientrare al più presto. Mentre ci è stato segnalato che una grande massa di sfollati sono accampati in strutture alberghiere e centri di raccolta, nella zona a ridosso della città di Uzhgorod, pronti a passare la frontiera in caso di pericolo e pronti a rientrare nelle loro città di residenza non appena possibile.
Questa situazione chiaramente emergenziale determina condizioni di ospitalità e una domanda straordinaria di servizi essenziali, che possono essere garantiti solamente da una grande mobilitazione internazionale e da una solidarietà diffusa nei territori per favorire l’accoglienza.
Ciò che abbiamo visto in Slovacchia è straordinario, tanto le istituzioni quanto le comunità, le chiese, le famiglie hanno aperto le loro porte.
Questa prima azione della campagna della Cgil sarà seguita da altre azioni simili, con l’invio di aiuti umanitari, ma anche con altre iniziative, come l’adesione alla Carovana “StopTheWarNow”, promossa dall’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, a cui hanno aderito oltre cento realtà associative italiane, e con gli accordi sottoscritti con le parti datoriali per “un’ora di lavoro a favore della popolazione ucraina”, che serviranno per sostenere progetti di ricostruzione.
L’azione politica per la pace è completa se si uniscono azione solidale concreta e azione politica coerente. Per questo l’impegno della Cgil è di proseguire con il massimo delle proprie risorse per la fine di questa guerra, per il riconoscimento del diritto di esistere in libertà e in democrazia per il popolo ucraino, per costruire insieme a ucraini, russi, bielorussi e gli altri popoli europei un’Europa di pace, senza più dover usare la deterrenza delle armi e del nucleare per la nostra sicurezza che potrà essere tale solamente se lo sarà per tutti.
Duecentoventuno volontari, 65 automezzi, per lo più piccoli e autofinanziati da quasi 160 organizzazioni cattoliche e laiche, con un obiettivo: partire carichi di 32 tonnellate di aiuti e tornare carichi di quante più persone possibili che debbono lasciare l’Ucraina devastata, per provare a sopravvivere fino a che non torni la pace.
La carovana Stop The War Now ha raggiunto Leopoli con la consapevolezza della propria fragilità: se non possiamo fermare questa aggressione fratricida – è stata la considerazione centrale degli organizzatori, tra cui la capofila Associazione Papa Giovanni XXIII e l’Associazione delle Ong italiane, l’Arci nazionale e la sua ong Arcs, che insieme a Arci Solidarietà di Roma hanno consentito alla mia associazione, Fairwatch, di partecipare alla delegazione romana – allora è nostro dovere stare vicini fisicamente alle vittime, far sentire loro che non sono sole, portare in salvo con noi soprattutto i più fragili, quelli che non avrebbero scampo passando nel Paese anche solo un giorno in più.
I 3708 chilometri percorsi tra pulmini, camper e bus che ci hanno portato a Leopoli, e di lì indietro a Roma, sono una sorta di apprendistato itinerante alla complessità che circonda questo conflitto. L’instabilità climatica, i prezzi insostenibili dei carburanti, l’entusiasmo con cui le persone in Italia salutano la carovana, l’ostilità con cui i soldati alle frontiere polacca e ucraina accolgono la cultura politica che ha motivato questa iniziativa. Ogni borsa viene aperta, ogni vano controllato da capo a piedi, e basta una semplice bandiera della pace al finestrino che un pulmino carico di aiuti viene fermato per ore a un check point, i passaporti ritirati, le motivazioni dei volontari interrogate a brutto muso.
Siamo in un Paese ferito, resistente, ma imbevuto di simboli, parole e prassi profondamente di destra. Non che le nostre radio e tv non lo siano, ma non si possono non vedere le bandiere rossonere di Azov che sventolano da molti balconi, le brigate paramilitari chiaramente riconoscibili tra le truppe regolari, minacciose contro tutto ciò che non sia simile alle proprie aspettative di riscossa armata. Cosa che non rende le sue ferite meno profonde, la sua necessità di aiuto meno stringente, la solidarietà nei confronti di un Paese invaso e straziato obbligatoria. E infatti siamo lì.
Siamo gli stessi che al Forum sociale europeo di Parigi nel 2003 denunciavamo con ambientalisti, pacifisti e femministe russi, polacchi e di molti Paesi dell’Est la crescente repressione in Russia della libertà personali e di parola, la difficoltà anche solo di dichiararsi, in quei Paesi, “non governativi”. Eravamo e siamo al fianco di quelli che hanno chiesto sostegno nella lotta per la demilitarizzazione dei loro Paesi, che hanno rivendicato giustizia per Anna Politkovskaja, e che hanno denunciato, per tempo, come, con il nuovo industrialismo delocalizzato anche dall’Italia con l’espansione dell’Unione europea a Est, si assistesse allo scarico oltreconfine di tecnologie obsolete e al mantenimento di un serbatoio di carbone, gas e nucleare a portata di filiera, quando nei nostri Paesi, i fondatori dell’Ue, ci battevamo faticosamente per una vera conversione ecologica del sistema energetico, produttivo e dei consumi.
Ora la guerra sembra aver cancellato ogni traccia di quelle battaglie comuni, non solo dai giornali, ma anche nella memoria collettiva dei Paesi europei tutti.
Però insieme al cibo, ai farmaci, a una via di fuga, quelle chiese e quelle associazioni ci chiedono ancora di lavorare insieme per un futuro diverso possibile. Con il condizionatore acceso ma senza armi, dove il diritto a non andare al fronte e a dire la propria non si trasformi in una condanna alla gogna o alla morte. Dove quei volontari e quelle realtà che stavano strette, lì e qui, nella cornice nazional-liberista dominante individuata come determinante della loro crescente povertà e oppressione, non siano trattati da disertori della resistenza, ma come sentinelle che indicavano, in tempi non sospetti, le vecchie cause dei conflitti vecchi e a venire, e oggi come ieri sostengono nella solidarietà e nell’accoglienza le conseguenze di scelte altrui.
A Roma, da qualche giorno, in un grande albergo, ci sono cinquanta rifugiati in più. Bimbi, nonne, persino due gattini. Abbiamo condiviso 3708 chilometri di paura, sorrisi, panini e una possibilità di vita. È questa la nostra resistenza. Non ci arruolerete mai.