La novella dello stento che vede incolpevoli protagoniste le tute blu delle Acciaierie di Piombino ricorda il Deserto dei Tartari. Nel romanzo di Buzzati alla Fortezza Bastiani si aspettano gli invasori che non arrivano mai, in Val di Cornia si attende da tredici lunghi anni un imprenditore capace di risollevare le sorti di quello che era il secondo polo siderurgico della penisola, alle spalle di Taranto.
Dopo sette anni dalla chiusura coatta dell’altoforno - da parte del governo - migliaia di lavoratrici e lavoratori diretti e dell’indotto non sanno più a che santo votarsi. E vivono a metà tra la sconforto e la rabbia, leggendo sui giornali che il mercato dell’acciaio è in gran spolvero, ma che per loro il futuro è ancora e sempre quello del cassintegrato. “Se va bene lavoro otto giorni al mese”, racconta Alessandro Martini, impiegato nella costola di ‘Piombino Logistics’ dello stabilimento siderurgico.
Martini può a buon diritto dire di averne viste tante, dato che fu assunto nell’ormai lontano 1986, appena ventunenne, quando le colate dell’altoforno segnavano come un orologio la quotidianità cittadina. All’epoca Piombino era una delle realtà più ricche della Toscana, perché di acciaio c’è sempre bisogno ai quattro angoli del pianeta, e in Val di Cornia l’acciaio lo curano e lo lavorano da un secolo.
“Stanno cancellando un pezzo di storia dell’industria italiana”, denuncia senza timori di smentite il delegato sindacale Martini, con la tessera della Fiom Cgil in tasca. “Io tra qualche anno andrò in pensione, ma vorrei che questo lavoro passasse a un giovane. Invece oggi i giovani finiscono di studiare e scappano via, perché Piombino non offre loro più niente, se non lavoretti precari e stagionali”.
Tanti sono i colpevoli del grande nulla che avvolge la capitale della Val di Cornia, la stessa città ha cullato a lungo la pazza idea che il turismo potesse sostituire la siderurgia. “Così hanno fatto un porto sempre più grande e attrezzato - spiega Martini - ma siccome di turismo si vive sei mesi l’anno quando va bene, nel periodo invernale l’effetto è quello della cattedrale nel deserto”. Anche perché l’ultimo, attuale padrone delle Acciaierie, la multinazionale indiana Jindal, che pure è un colosso della siderurgia mondiale, non sta investendo un euro che è uno per ammodernare i treni di laminazione e costruire un nuovo impianto siderurgico all’estrema periferia della città. Tenendo fermi, fra le tante, anche i suoi slot portuali.
Il risultato è desolante: “Abbiamo attrezzature che risalgono agli anni 90, ormai obsolete, e senza investimenti per nuovi impianti con tecnologie all’altezza, in grado di produrre acciaio senza pericolosi effetti collaterali per l’ambiente, non possiamo rimetterci in gioco e competere con i produttori del nord Italia e con quelli continentali”. Anche Martini ha seguito i tavoli che si sono succeduti al ministero dello Sviluppo economico, per cercare di dare risposta a un’emergenza ormai decennale che investe l’intero territorio. “Ma anche l’ultimo tentativo, con l’ingresso di Invitalia, e cioè dello Stato, per affiancare Jindal per la riconversione produttiva sta trovando ostacoli su ostacoli”. Non ultimo quello che vede la multinazionale impegnata in un’estenuante trattativa per arrivare ad una valutazione complessiva delle Acciaierie, nella prospettiva di un piano industriale da condividere con il nuovo socio Invitalia. Uno stallo prolungato, che sta cancellando anche le poche, residue speranze degli operai di tornare tutti quanti a lavorare.
Così le ultime notizie raccontano dell’ennesima proroga della cassa integrazione straordinaria, sia per gli operai del siderurgico che per quelli di ‘Piombino Logistics’. Una novella dello stento, appunto, diventata insostenibile. “Quando ho iniziato a lavorare eravamo in cinquemila, e c’era un indotto fiorente di tutte le attività collegate alla produzione di acciaio. Era una città nella città - ricorda Martini – mentre adesso siamo meno di duemila, e in questi anni l’indotto è stato letteralmente disintegrato. Va a finire che soffre anche l’altra industria dell’acciaio che gravita su Piombino, l’altrettanto storica Magona finita in mano all’ennesima multinazionale, la franco-indiana Arcelor Mittal, costretta a importare materie prime che noi potremmo tranquillamente produrre”.
Una grande storia ignobile, la cui vittima principale è una classe operaia che aveva fatto grande e moderno il Paese. Ma che nell’ultimo quarto di secolo, dopo la privatizzazione delle Acciaierie ha visto passare padroni - Lucchini, i russi di Severstal, gli algerini di Cevital - che hanno sfruttato al massimo gli impianti senza investire (Lucchini), o si sono arresi alle prime difficoltà (Severstal), oppure si sono visti bloccare gli investimenti dal loro governo (gli algerini di Cevital). E’ senza fine l’agonia delle Acciaierie di Piombino, abbandonate a se stesse sia dal padrone Jindal Steel Italy che dal governo, latitante sul piano nazionale della siderurgia. E non solo su questo.