Il recente disegno di legge sulla concorrenza suggerisce, subito, almeno tre considerazioni. La prima consiste nella tendenza del governo Draghi a fare atti sostanzialmente vuoti solo per ottemperare al cronoprogramma europeo. In passato era rarissimo che venisse approvata la legge annuale sulla concorrenza. Nel 2021 questo avviene ma in realtà senza contenuti, come dimostra la vicenda delle concessioni demaniali.
La seconda è che gli unici contenuti sono rappresentati da ‘mappature’ che non hanno fini fiscali e dunque sono solo un ulteriore appesantimento burocratico per gli enti incaricati di svolgerle. Verrebbe poi da domandarsi, ma davvero serve una mappatura per verificare che le concessioni demaniali non rendono, quando la loro resa è nel 70% dei casi inferiore a 2.500 euro l’anno?
La terza impressione, certamente più inquietante, è quella che discende dall’inserimento in un testo così vuoto e così ridondante di una norma cruciale che, proprio perché nascosta fra le righe, rischia di essere ancora più devastante. Si tratta dell’articolo 6 che porta a sistema e rafforza le volontà, a lungo coltivate, di privatizzazione dei servizi pubblici locali.
Questo articolo stabilisce infatti, senza mezzi termini, due principi molto pericolosi. Il primo afferma che i Comuni sono, di fatto, privati della competenza di tutti i servizi pubblici locali, trasferiti in blocco, con un’inversione persino del dettato costituzionale, allo Stato che li gestisce - questo il secondo principio - utilizzando esclusivamente il mercato. Dall’acqua ai trasporti a tutto ciò che ha rilevanza economica, secondo l’articolo 6, è previsto l’obbligo di un trasferimento di gestione ai privati, con alcune norme specifiche destinate a mettere in discussione perfino la natura pubblica della proprietà delle reti.
In parte questo tentativo era già stato avviato dal governo Monti, in seguito alla famosa “lettera” della Commissione europea. Ora torna, ancora più esplicito, con il governo Draghi. Alla luce di ciò forse si capisce meglio quali siano le condizioni per continuare a emettere debito pubblico con la copertura della Bce: la strada indicata è quella di riservare ai monopoli privati, tramite gare aperte nella sostanza solo ai grandi colossi finanziari, l’intero sistema dei servizi pubblici locali, esautorando i Comuni.
Meno pubblico più privato, ma soprattutto più finanza privata perfino in quei settori che, proprio perché monopoli naturali caratterizzati dalla presenza di beni comuni, dovrebbero essere esclusi dal perimetro delle privatizzazioni. In questo senso, il dettato dell’articolo 6 è particolarmente pesante perché affida ai privati servizi che sono coperti dal sistema del full recovery cost; in altre parole, il costo dei servizi è interamente coperto dalla tariffa pagata dagli utenti. Non esiste quindi alcun margine di rischio per il privato che, al di là delle flebili e frammentarie direttive delle autorità di regolazione, spesso smontate dai Tar, dispone del pieno finanziamento dei propri interventi attraverso quanto pagato dai cittadini, a cui viene aggiunta la fruttuosa e non mai troppo chiara remunerazione del capitale.
Come accennato, stiamo parlando di monopoli naturali che vengono finanziati dalle tariffe; dunque cederli ai privati significa, di fatto, garantire loro una vera e propria rendita. Peraltro lo stesso articolo 6 esclude, in pratica, qualsiasi ipotesi persino di concorrenza tra pubblico e privato, perché impone al pubblico, qualora intendesse conservare la gestione, oneri e controlli che sono enormemente più gravosi di quelli imposti al privato.
Lo spirito che anima il provvedimento, in tal senso, è molto chiaro: il pubblico è inefficiente in quanto tale, quindi occorre destinare i servizi ad una “presunta” idea di mercato. Si tratta di una presunta idea di mercato e non di un vero mercato, perché le condizioni richieste ancora dall’articolo 6, con l’incentivo alle multiutility di grosse dimensioni, finiscono in maniera ineluttabile per indurre l’affidamento della gestione a pochi, grandi colossi di natura finanziaria, magari quotati in borsa e quindi impegnati a rispondere agli azionisti piuttosto che ai consumatori e agli enti pubblici. Il Britannia è tornato con la bandiera della “unità nazionale”.