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Ci risiamo. La Cgil e il suo segretario generale sono stati ad agosto sotto attacco da parte del presidente di Confindustria, della politica liberista e dei poteri economici, amplificati da organi di stampa compiacenti. Senza nessun pudore Confindustria taccia di irresponsabilità il sindacato che si oppone al green pass obbligatorio per l’ingresso dei lavoratori nei posti di lavoro.
La vaccinazione è un dovere di ogni cittadino responsabile, ma per noi può divenire un obbligo solo attraverso una legge, nel rispetto dell’articolo 32 della Costituzione, e non con un accordo tra le parti sociali. Il governo, i partiti assumano le loro responsabilità senza scaricarle sul sindacato. Un governo che deve darci molte risposte, a partire dal finanziamento del fondo Inps, non più attivo dall’inizio del 2021, per la copertura retributiva e contributiva al lavoratore in quarantena obbligatoria.
Confindustria vuole coinvolgere il sindacato nella responsabilità delle discriminazioni e dei possibili licenziamenti di lavoratori sprovvisti di green pass. Bonomi rimuove la mancata applicazione in tante realtà produttive del protocollo sicurezza, così come le molte violazioni all’avviso comune contro i licenziamenti.
Tanta fastidiosa supponenza punta a nascondere le responsabilità del padronato: nella prima fase della pandemia, infatti, i padroni hanno ottenuto di lasciare aperte quasi tutte le attività produttive, con le gravi conseguenze che conosciamo. Non dimentichiamo i seimila morti della Val Seriana, la strage nelle Rsa, i tanti decessi per la mancata prevenzione, per una sanità pubblica svalorizzata da decenni in favore del privato. Oggi come allora per “lorsignori” la priorità non è la salute, ma la produzione e l’interesse aziendale. Mai una parola di denuncia a fronte di oltre mille morti sul lavoro, mai niente sul mancato rispetto delle leggi su salute e sicurezza, sullo sfruttamento, il lavoro precario e in nero.
La cultura liberista della Confindustria bonomiana è antisociale, si fonda sull’antipolitica e sul disprezzo del Parlamento. Al centro della sua visione di società ci sono gli interessi corporativi dell’impresa e del mercato; il sindacato e il governo dovrebbero essere al servizio di una Confindustria sempre meno rappresentativa. La Costituzione, per questi “imprenditori coraggiosi”, deve fermarsi ai cancelli dei luoghi di lavoro. Usano ogni mezzo per tentare di delegittimare il sindacato. Al centro c’è sempre lo scontro tra capitale e lavoro che si inasprisce sulla gestione delle ingenti risorse del recovery fund, sulla riforma fiscale, sugli ammortizzatori sociali, sul ruolo dello Stato in economia, sull’idea di Paese e di società.
A questa sottocultura padronale occorre dare una risposta radicale e decisa, forti della storia e autonomia della Cgil, delle nostre coerenti scelte in difesa della salute di lavoratori e cittadini, senza compromessi che sarebbero a scapito del mondo del lavoro, dell’uguaglianza nei diritti, della dignità di tutte le persone.
Se nemmeno le fasi più acute della pandemia avevano arrestato il quotidiano, tragico rendiconto di omicidi bianchi e di gravi incidenti sul lavoro, alla ripresa produttiva si sta accompagnando una insostenibile escalation di lutti. In questo terribile contesto, restano francamente incomprensibili, e pericolose sul fronte della sicurezza del e sul lavoro, le motivazioni della sentenza della Cassazione sulla strage ferroviaria di Viareggio. Motivazioni di una decisione che di fatto ha azzoppato una inchiesta e due processi assai approfonditi, costati anni di intenso lavoro.
Una corretta manutenzione avrebbe evitato la strage, questo dice la Quarta sezione penale della Cassazione. Ma non c’era il rischio lavorativo, che avrebbe permesso di evitare la prescrizione di reati come l’omicidio colposo plurimo. Non c’era, almeno secondo i giudici, perché “non vi è dubbio che il datore di lavoro dell’impresa ferroviaria sia tenuto alla valutazione di tutti i rischi derivanti dall’esercizio delle attività di impresa, e quindi anche dei rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori derivanti dalla circolazione di carri dei quali non cura direttamente la manutenzione, destinati al trasporto delle merci pericolose. Ma va escluso che i tragici eventi occorsi a Viareggio abbiano concretizzato un rischio lavorativo, di talché l’eventuale inosservanza dell’obbligo datoriale della valutazione dei rischi non assume rilievo causale”.
Per fortuna, sia il capostazione che i due macchinisti del treno merci che deragliò la notte del 29 giugno del 2009 si salvarono. Ma non c’era per loro il rischio di morire? Da Marco Piagentini, che ha perso moglie e due figli nella strage, parole chiare: “Si è fatta filosofia del diritto per separare il rischio sul lavoro dal rischio di circolazione ferroviaria. Si torna indietro di 50 anni. E non si rispettano le direttive comunitarie”. Aprendo a un ricorso alla Corte europea di giustizia.
Quest’anno la scuola riparte in presenza, lo ha stabilito il decreto legge 111 del 6 agosto che ha introdotto il green pass obbligatorio per il personale scolastico. Senonché questa disposizione rischia di non essere affatto risolutiva dei problemi di sicurezza delle scuole derivanti dall’emergenza sanitaria.
Il problema non è tanto quello dei tamponi (gratuiti o meno), su cui è stata dirottata nei giorni scorsi pretestuosamente la polemica politica, cercando addirittura di ridurre il sindacato a posizioni no-vax, sviando l’attenzione dai veri problemi. A scanso di equivoci, lo ribadiamo con forza: siamo per l’obbligo di vaccinazione quale misura sanitaria per tutti. Il green pass invece rischia di essere un surrogato poco efficace, frutto di opportunismo politico.
Infatti il green pass - nato per ristoranti e cinema - mal si adatta alle necessità delle scuole, non solo perché scarica su queste una mole aggiuntiva di adempimenti (il controllo quotidiano del green pass a tutti i lavoratori), ma soprattutto perché è inefficace ai fini della sicurezza comune.
Ad esempio, in un’aula con 25/30 alunni in cui il solo docente abbia il green pass, la circolazione del virus è impedita? Non certo fra gli alunni, i quali in gran parte non sono vaccinati, specie nella scuola del primo ciclo (che copre la metà della platea scolastica) poiché ai ragazzi fino all’età di 12 anni non è consentita la vaccinazione. E neanche tra il personale scolastico poiché il vaccino è una valida difesa dal contagio ma non assicura la totale immunità.
Allora a cosa serve il green pass, tra l’altro a fronte di una categoria di lavoratori già ampiamente vaccinata (al 90%) prima ancora dell’introduzione dell’obbligo di certificazione? Probabilmente a rassicurare propagandisticamente l’opinione pubblica che quest’anno la scuola riprende davvero in presenza. Ma soprattutto a consentire al governo di dismettere tutte le principali - e onerose - misure di sicurezza adottate fino ad oggi per garantire la ripresa delle attività in presenza.
Ancora ad esempio, in classe non è più previsto il distanziamento di un metro tra un alunno e l’altro, misura che da obbligatoria è diventata “raccomandata”, e questo nonostante la cosiddetta variante “delta” del virus che ormai circola maggiormente nel Paese sia molto più contagiosa della precedente. Ciò comporta che nelle aule si manterrà il metro di distanza dove possibile, e dove non sarà possibile basterà la mascherina per difendersi dal virus!
Un’altra misura che il governo ha cancellato è quella che consentiva di sdoppiare le classi particolarmente numerose mediante l’assunzione - grazie ad uno specifico finanziamento - di ulteriore personale docente e ata. La conseguenza sarà che le classi che l’anno scorso sono state opportunamente suddivise ora occorrerà riunirle, con tutti i rischi che ciò comporterà in termini di affollamento. E, a proposito di affollamento, non risulta che il governo abbia potenziato i mezzi di trasporto pubblici utilizzati quotidianamente dagli studenti per frequentare la scuola, al fine di evitare quegli assembramenti che sono una delle principali cause di diffusione del virus specie tra i giovani.
Insomma non c’è alcuna certezza che anche il prossimo anno scolastico il virus non circoli nelle scuole, ed è forte il rischio di un ritorno alla didattica a distanza, almeno per tutte quelle classi che dovessero essere messe in quarantena a causa di alunni eventualmente contagiati.
La responsabilità è di questo governo che ha ritenuto che con il green pass si potesse fare a meno di tutte le altre disposizioni sulla sicurezza in precedenza adottate. Mentre il sindacato, con il “Protocollo sulla sicurezza nelle scuole”, ha impegnato il ministero dell’Istruzione a reintrodurre le principali misure necessarie a garantire la sicurezza, ma anche a risolvere atavici problemi delle scuole: dalle classi “pollaio” all’adeguatezza degli spazi, agli organici, ecc.
Purtroppo ad oggi non c’è ancora alcun riscontro da parte del ministero rispetto agli impegni assunti, e poiché anche su altri versanti - come il rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro e le riforme scolastiche previste con il Pnrr - stentano ad arrivare le risposte attese, non c’è altra strada da intraprendere, per quanto difficile in questo contesto, che la mobilitazione sindacale.
L’emergenza coronavirus ha ulteriormente dimostrato anche la necessità di affrontare in maniera determinata il tema del gioco d’azzardo. I servizi che hanno in carico persone con disturbo da gioco d’azzardo, infatti, pur ancora in assenza di dati strutturati, riferiscono come la chiusura delle sale da gioco abbia avuto effetti positivi sulle persone, non abbia dato luogo a comportamenti compulsivi, ed abbia avuto ricadute positive anche sulla vita relazionale e affettiva. Questo conferma la necessità di procedere nella direzione di una netta riduzione dell’offerta, di una precisa regolamentazione, di misure concrete ed efficaci di prevenzione della patologia.
È necessario affrontare il tema del gioco d’azzardo lecito, e delle conseguenze che ha sulla popolazione e sulla società nel complesso, da un punto di vista generale, di salute pubblica. Per questo sosteniamo la necessità di una legge quadro nazionale, che regolamenti il gioco d’azzardo, e detti disposizioni per la prevenzione della patologia, per la cura e la tutela sanitaria, sociale ed economica dei giocatori e dei loro familiari. Una normativa che, nell’ottica della prevenzione dei rischi e della limitazione dei danni, ponga un limite agli orari di apertura delle sale, eviti la contiguità con luoghi sensibili, e vieti la pubblicità del gioco d’azzardo.
Da più parti si sostiene l’opportunità, se non la convenienza, di non intervenire con provvedimenti restrittivi sul gioco d’azzardo, visti gli introiti per lo Stato che eviterebbero il ricorso ad inasprimenti della fiscalità generale, ed anzi servirebbero a finanziare misure importanti per il contrasto alle povertà. Si evita però di dire che, per i gestori, l’incremento della tassazione ha un effetto irrisorio, se non nullo, perché compensato con una diminuzione della percentuale di vincita. E ancora di più si evita accuratamente di quantificare i costi in termini di salute, oltre che sociali, del gioco d’azzardo patologico.
Oltre a questo, si sottolinea come il gioco d’azzardo lecito sia un argine verso il gioco illecito: affermazione quantomeno risibile. La stessa Banca d’Italia ha individuato il settore dei giochi e delle scommesse tra quelli esposti a significativi rischi di riciclaggio e finanziamento della malavita organizzata. Insieme alla Direzione Investigativa Antimafia (Dia), ci dice di infiltrazioni della criminalità, di manipolazioni di partite, di come l’intera filiera dell’azzardo, compresa la gestione e il noleggio, sia permeabile ed appetibile. La relazione dice che il gioco, dopo i traffici di stupefacenti, è il settore che assicura il più elevato ritorno dell’investimento iniziale, a fronte di una minore esposizione al rischio. E lo Stato, come ebbe modo di far presente la Commissione Antimafia già nel 2016, poco sa di chi opera in suo nome nei territori, perché vige un sistema di subappalti che deresponsabilizza l’appaltatore.
Esprimiamo quindi contrarietà alle richieste di proroga che vengono avanzate dai gestori, e sostenute da molte forze politiche, quando la necessità è quella di misure concrete ed efficaci per ridurre e regolamentare l’offerta, tutelando l’occupazione, fuori dai ricatti dei gestori, che paventano pesantissime crisi occupazionali.
Ovviamente dobbiamo inserire nel ragionamento sulla tutela della salute pubblica e sulla prevenzione dei rischi legati al gioco d’azzardo il tema fondamentale del lavoro: è necessario un progetto che tuteli i lavoratori coinvolti e, fuori dalle strumentalizzazioni di gestori e concessionari, salvaguardi i livelli occupazionali, valorizzi il lavoro e le competenze dei lavoratori, in una prospettiva che pone al centro la salute pubblica, la sicurezza pubblica, e un modello di sviluppo e di società che riduca le differenze e le disuguaglianze e tuteli le fasce più deboli.
A rischio severo di patologia, secondo l’Istituto Superiore di Sanità, sono oltre 1.750.000 persone. Oltre un milione sono i giocatori patologici, con un costo stimato di circa 7 miliardi l’anno. Se a questi si aggiungono i costi indotti, sia in termini sanitari, di comorbilità, che sociali, la spesa sale a 14 miliardi. Questo solo per dire della strumentalità delle argomentazioni che mirano a difendere e proteggere il settore, in quanto grande finanziatore delle casse dello Stato.
L’impoverimento generale, l’assenza di occupazione, il fabbisogno di liquidità, spingeranno ancora di più le persone, soprattutto le più fragili, verso quelle che possono sembrare soluzioni facili e immediate: è necessario l’impegno di tutti per impedire che ciò avvenga.
I rischi legati al gioco d’azzardo vanno affrontati alla radice e dal lato dell’offerta, altrimenti le risposte non potranno essere che parziali e inadeguate a rispondere ai problemi sociali, di sicurezza e di salute, che sono in continuo aumento.