Transizione energetica e politiche di sviluppo - di Maurizio Brotini

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Il primo punto da affrontare sul tema della transizione energetica è la discussione sulle politiche macroeconomiche e su come si crea occupazione. Come Cgil viviamo una contraddizione. Per un verso affermiamo che non possiamo affidare al mercato e al neoliberismo la creazione di una società futura, e rivendichiamo il ruolo dello Stato e delle autonomie per la creazione di buona occupazione. Per un altro verso, nel rapporto tra transizione energetica e politiche industriali, sembra che sia immutabile il tema delle esportazioni per sostenere un eventuale sopracosto delle bollette delle aziende energivore. Argomentazione che serve ad eludere il tema del superamento dell’energia da fonti fossili, e a non mettere in discussione un modello fondato esclusivamente su esportazioni e compressione dei costi, compreso quello del lavoro.

Mercato interno e allargamento del perimetro pubblico dovrebbero invece essere la precondizione per un nuovo modello di sviluppo socialmente ed ecologicamente sostenibile. Questo investimento nei comparti pubblici permetterebbe anche al sistema delle autonomie di svolgere un ruolo progettuale, di ricerca, controllo e realizzazione. Al contrario – come rilevato da Fabrizio Barca - è stata totalmente smantellata la capacità progettuale dei ministeri e delle autonomie locali. Ripetiamolo: abbiamo il rapporto popolazione e addetti nella Pubblica amministrazione molto più basso della media europea.

Perché questa considerazione? Perché l’altro tema da affrontare è come si crea cambiamento. Se registriamo soltanto l’esistente, non otterremo nessun tipo di cambiamento. Abbiamo a disposizione tutta la tecnologia per realizzare la transizione energetica e la completa decarbonizzazione: è un problema di volontà politica e di scelte di tutti i soggetti in campo, a partire dalla stessa Cgil e dalle sue categorie industriali. Il punto che abbiamo di fronte è: vogliamo essere soggetti di cambiamento oppure no?

Potremmo chiedere conto alle venti aziende a partecipazione pubblica di svolgere nel nostro Paese un ruolo ben più incisivo negli investimenti in energie rinnovabili, anche perché quel che non fanno in Italia lo fanno in giro per il mondo. I grandi soggetti come Eni, Snam, Enel, etc. operano negli ambiti decisivi per il contrasto alla crisi climatica. Si prenda ad esempio l’eolico offshore: acquistano aziende e competenze, ma le utilizzano fuori dal perimetro nazionale. Tutti i dati, inoltre, ci dicono che rispetto al lavoro che va perduto nel processo di riconversione, molto di più se ne crea, non solo a regime ma anche in corso d’opera.

Punti di frizione nella discussione in Cgil, schematicamente, sono l’utilizzo del gas nella transizione e il tema dell’idrogeno verde e dell’idrogeno blu. Se vengono investite molte risorse sul metano, quegli investimenti rendono oggettivamente difficile, se non impossibile, lo sviluppo di rinnovabili, quando invece bisogna stimolare, investire e rilanciare da subito l’utilizzo delle fonti alternative. Investimenti che andrebbero a sommarsi ai 9 miliardi di incentivi alle fossili e non alle rinnovabili.

Rispetto alla attuale centralizzazione oligopolistica un altro punto di vista è rappresentato da una sovranità energetica partecipata e diffusa, che sta dietro il concetto di produzione distribuita e di mix energetico. Occorre cambiare approccio complessivo e noi dobbiamo essere fattori di questo cambiamento.

Un altro elemento di riflessione: enunciamo in maniera evocativa la crisi ma spesso la teniamo sullo sfondo quando dobbiamo avanzare proposte e posizionamenti concreti. I piani del governo italiano sono più arretrati degli obiettivi europei, a loro volta non adeguati allo sprofondamento della crisi climatica. La natura, tuttavia, ci presenterà il conto, ce lo presenta costantemente.

Un altro tema è quello della sovranità energetica. Una sovranità geopolitica. Non dipendere neppure dal gas, mediante un investimento robusto nelle rinnovabili, e attraverso il mix raggiungere l’autosufficienza energetica in tempi rapidi ci permette di recuperare sovranità anche nelle scelte industriali ed economiche di prospettiva.

L’industria e la manifattura italiana - anche quella a partecipazione pubblica, a maggior ragione quella privata - se non spinta e pressata non farà né investimenti né innovazione tecnologica. Porterà a consunzione gli impianti ammortizzando gli investimenti, realizzerà senza rischi un po’ di profitti e poi chiuderà.

Come sosteneva Togliatti, il conflitto è il motore dello sviluppo: se non c’è il conflitto e la spinta sociale dei sindacati non c’è innovazione, l’industria si impigrisce, dismette e si rifugia nella rendita.

La pandemia ci ha insegnato che c’è bisogno di una riappropriazione collettiva delle grandi scelte. Un tempo questa era la politica. Se non pensiamo collettivamente a riprogettare il Paese, cosa, quanto, come produrre, non daremo un contributo all’ambiente, né al lavoro e alle future generazioni.

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