Il paradosso israeliano: Netanyahu riuscirà a fare il governo grazie a un islamista? - di Alessandra Mecozzi

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La sera di giovedì 25 marzo sono stati resi noti i risultati finali delle elezioni israeliane, le quarte in due anni. Il partito di Netanyahu, il Likud, pur avendo una prevedibile maggioranza (30 seggi), con le forze che attualmente lo sostengono raggiunge solo 52 seggi (ne sono necessari 61 per avere la maggioranza). Neanche i suoi oppositori hanno i seggi sufficienti, ne hanno 57. Il partito di destra Yamina (con 7 seggi) e il partito arabo islamico Ra’am (4 seggi) non si sono finora impegnati con nessuno dei due campi. Ma Ra’am, la costola islamica staccatasi dalla Joint List, ha già incontrato Netanyahu.

Salta agli occhi non solo la frammentazione del panorama partitico - lo stesso Meretz ha rifiutato di fare una lista unica con il Labour - ma la sua disconnessione dalla realtà sociale. Protagonismo e potere personale a tutti i costi caratterizzano il contesto politico elettorale israeliano. Il terreno di una politica “senza principi”, ha favorito il primo ministro nell’eludere i percorsi giudiziari che lo riguardano, applicando con successo il principio del “divide et impera”.

Prima il partito Blu e Bianco, considerato una possibile alternativa, che lo scorso anno aveva ottenuto 33 seggi alla Knesset (solo tre in meno dei 36 del Likud): si è diviso al momento in cui il suo capo, Benny Gantz, accettava di stare in un “governo di unità”, primo ministro a rotazione, rifiutando qualsiasi partnership con i palestinesi. Il divide et impera è proseguito rompendo l’alleanza di centrosinistra Labour-Gesher-Meretz, portando Amir Peretz del Labour nel governo di unità e in seguito offrendo all’Orly Levy di Gesher un posto nella lista del Likud.

Quest’anno Netanyahu, vista la crescita precedente della Joint List araba, si è rivolto alle comunità palestinesi del paese, visitandole tutte. Ha sventolato il vessillo della lotta contro la pandemia, sostenendo che il suo razzismo contro i palestinesi è stato un malinteso, fino alla ridicola affermazione che la legge sullo stato nazione ebraico, che sancisce costituzionalmente lo status di inferiorità dei cittadini palestinesi, non è mai stata mirata agli arabi, ma ai richiedenti asilo africani! Si è persino dotato di un soprannome arabo, Abu Yair, e ha fatto rapidamente approvare una decisione del governo per fornire 150 milioni di shekel (46 milioni di dollari) in finanziamenti governativi per combattere la violenza.

Anche il leader di Ra’am, Mansour Abbas, prima pressoché sconosciuto, ha cercato di intercettare la rabbia e lo scontento sociale dovuto alle pessime condizioni di vita della comunità palestinese in Israele (lavoro, sicurezza, casa), staccandosi dalla Joint List, dando così un colpo alle aspettative che aveva creato. “Tra molti elettori arabi, lo scioglimento parziale della Joint List, indipendentemente da chi sia il colpevole, è stato percepito come un atto di sfida ed egocentrico. Come nell’aprile 2019, decine di migliaia di potenziali elettori non hanno votato ed hanno rinunciato alle elezioni” (Jack Khoury, Haaretz 22 marzo). Mentre nelle elezioni di un anno fa la popolazione araba aveva espresso un solido sostegno alla lista congiunta, i cui quattro partiti arabi costituenti ricevevano l’87% dei voti arabi e 15 seggi alla Knesset.

Mansour Abbas può essere l’ago della bilancia per la formazione del governo? E’ dubbio che un governo che lo includa possa essere accettato dai suprematisti ebrei di estrema destra. Ma la sua popolarità è cresciuta. Se nella Joint List viveva all’ombra del suo presidente Ayman Odeh e di Ahmad Tibi, politici palestinesi tra i più importanti in Israele, adesso che “non sta con nessuno”, se ne distacca nettamente.

Tra Odeh e Abbas è evidente il divario ideologico. Odeh è un palestinese di sinistra, con una visione del mondo progressista, e sostiene la lotta dei palestinesi in Israele per i loro diritti nazionali e civili. Ad Abbas non interessa la lotta palestinese, e nella sua recente campagna ha manifestato disprezzo per le questioni progressiste, come i diritti civili per i Lgbtq; in quanto “pragmatico”, “né di destra né di sinistra”, ha abbandonato i principi politici della dirigenza palestinese in Israele per decenni, ed ha imbracciato il conservatorismo.

Non si sa se la sua “spregiudicatezza” lo porterà al governo, o se Israele andrà alla quinta elezione. E’ però chiaro che il crollo della Joint List, e l’ascesa di Abbas allo status di potenziale artefice di un nuovo governo, mostrano che la politica israeliana non può più ignorare i cittadini palestinesi, anche se con il rischio di rafforzare la destra.

(Fonti: Haaretz, +972 Magazine)

 

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