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Ha suscitato molte polemiche il viaggio di Matteo Renzi a Riad durante la crisi di governo, per partecipare alla “Davos del deserto” in qualità di membro del board del Future Investment Istitute, controllato dal fondo sovrano saudita. L’incarico può fruttare al senatore di Italia Viva un compenso fino a 80mila euro l’anno. E se anche tenere conferenze a pagamento in uno Stato straniero non è contro le leggi italiane, a Renzi è stata contestata l’opportunità di avere rapporti con una nazione come l’Arabia Saudita, che si distingue per le violazioni dei diritti umani sia all’interno che all’estero – vedi il massacro della popolazione civile in corso da anni in Yemen - ed è guidata dal principe Mohammed bin Salman, mandante dell’omicidio del giornalista del Washington Post, Jamal Khashoggi, ucciso e smembrato nel 2018 nel consolato saudita di Istanbul.
Con il suo abituale, spregiudicato atteggiamento, Renzi ha parlato di un “Rinascimento saudita”, attirandosi le critiche di associazioni planetarie come Amnesty International, e di una parte delle forze politiche, sociali e sindacali italiane. Al di là delle parole, i fatti dicono che l’ex presidente del Consiglio è da anni impegnato a tessere rapporti, insieme al suo braccio destro Marco Carrai, con le monarchie – non certo liberali - del golfo arabico. A riprova, la sua vecchia fondazione Open ha ricevuto finanziamenti da Corporacion America Italia, proprietaria (grazie a Renzi e al Pd locale) degli aeroporti di Pisa e Firenze con la spa Toscana Aeroporti. Corporacion è partecipata al 25% dal governo degli Emirati Arabi, il cui esponente Mohammed Ibrahim al Shaibani fa parte del cda.
Gli affari sono affari, può serenamente rispondere Matteo Renzi, che a Dubai, noto rifugio di latitanti italiani e non, è di casa. Questa volta nel silenzio di una politica che, anzi, cerca in ogni modo di favorirlo. Vedi il progetto del nuovo aeroporto intercontinentale di Firenze.
Mentre scriviamo non conosciamo l’esito della crisi. Possiamo comunque fare alcune considerazioni. Ignorando l’articolo 94 della Costituzione, si sono provocate le dimissioni di un governo che aveva ricevuto la fiducia delle Camere. Merito del cinico disegno politico di Renzi d’Arabia, che aveva l’obiettivo – fin qui raggiunto – di rompere l’alleanza Pd-5 Stelle-Leu per consegnare la gestione del Recovery Plan alla destra, o comunque a un governo più prono ai desiderata di Confindustria e della finanza internazionale.
Il presidente della Repubblica ha incaricato Mario Draghi, sulla cui investitura era in corso da mesi una ben congegnata campagna mediatica. Il governo “che non debba identificarsi con alcuna formula politica” richiama a tutti noi l’esperienza ben nota del governo Monti. Per tutti i lavoratori il governo Monti è stato quello della controriforma Fornero. Sono ancora sanguinanti le dolorose ferite lasciate da quella infausta stagione tra lavoratori e pensionati, e nello stesso rapporto di fiducia non solo verso i partiti ma anche verso il sindacato.
In una democrazia parlamentare non esiste un governo “tecnico”. I governi sono sempre politici, votati in Parlamento. Qualsiasi governo interviene con scelte politiche, economiche e sociali che hanno un indirizzo e fanno riferimento a determinati interessi.
A noi spetta il dovere di mantenere forte la nostra autonomia con un costante richiamo alle nostre proposte, elaborazioni strategiche, piattaforme, e alle nostre scelte congressuali. Ma soprattutto alla nostra idea di società e di futuro, al bisogno di radicale discontinuità dal passato. Di richiamarci costantemente agli interessi di parte che rappresentiamo, e ai bisogni e diritti del mondo del lavoro.
Ci sottraiamo al coro assordante del “viva re Draghi”,“salvatore della patria”. Un coro ideologico e ipocrita che sovrasta e omologa tutto e tutti, e che abbiamo già conosciuto in passato con Ciampi, Dini e Monti. Abbiamo una sana diffidenza, anche perché non dimentichiamo che Draghi, tra l’altro, è stato fra i padri ideologici della stagione delle privatizzazioni, un convinto liberista e uomo designato dalla grande finanza internazionale.
Tutti i governi guidati da “tecnici” - dal governatore Ciampi con le politiche fallimentari dei redditi e gli accordi di concertazione, a Dini fino a Monti - si sono rivelati governi che hanno favorito il capitale, l’impresa e il profitto. Il mondo del lavoro, i ceti meno abbienti, le donne e i giovani, con i governi di “unità nazionale”, “del presidente” o dei cosiddetti “tecnici”, hanno sempre pagato le crisi economiche e politiche di questo Paese.
Siamo in una crisi di sistema e della rappresentanza, e non possiamo permetterci di alimentarla con un governo che non dovrebbe identificarsi “con alcuna formula politica”. I partiti, il Parlamento, le istituzioni rappresentative sarebbero svuotate e la politica, già poco rappresentativa e lontana dal paese vivo e reale, darebbe spazio nel sentire comune all’idea fallace che per uscire dalla crisi ci vuole un governo “dei tecnici”, guidato da un uomo forte.
Noi non la pensiamo così. Non ci arrendiamo al presente. Saranno il Parlamento e le forze politiche a decidere. Ma il sindacato non può dare carta bianca a nessuno. Siamo consapevoli che il ricorso alle urne potrebbe essere un salto nel buio, ma il voto è un diritto costituzionale del popolo sovrano, da esercitare quando non si trovano le possibili soluzioni politiche.
E’ bene ricordare alle forze politiche progressiste e di sinistra che il loro futuro – e il loro consenso, anche elettorale - si gioca oggi dentro a questa crisi, su chi la pagherà, su come se ne uscirà e se saranno fatti quegli interventi radicali che segnino il cambiamento necessario al Paese, al mondo del lavoro e dei pensionati.
Il futuro governo si aprirà a destra, parlerà con più attenzione ai poteri forti del Paese, Confindustria in testa, e guarderà ai bisogni del mercato, agli interessi della grande e piccola finanza, muovendosi nel solco liberista. Dobbiamo mantenere la nostra autonomia, e mobilitarci per quanto abbiamo definito e convenuto con le lavoratrici, i lavoratori e i pensionati.
Avevamo già avvertito, facili profeti, che nella situazione data un nuovo governo sarebbe stato in ogni caso un governo spostato a destra. Ancora una volta, alla crisi politica del Paese, una classe dirigente che si identifica negli interessi dei capitalisti e della finanza vuole rispondere con una politica che ignora – se non come pretesto – i drammi di milioni di cittadini poveri (5 milioni) o impoveriti (8 milioni); la paura per il futuro di centinaia di migliaia di lavoratori che rischiano il posto di lavoro; il dramma quotidiano di chi si arrabatta tra lavoro nero e precarietà. Mentre incombe ancora un’epidemia che non si riesce a tenere sotto controllo e a sconfiggere, e stenta a decollare la campagna di vaccinazione.
Come con Monti, si individua in un “tecnico” del sistema finanziario il garante non dei diritti ma della stabilità. Invece di ricostruire un sistema pensionistico solidale e che guardi ai giovani e ai discontinui, si abolirebbe “quota 100” senza istituire un equo sistema di pensionamento flessibile; invece di riformare ed estendere il reddito di cittadinanza, costruire un sistema universale di ammortizzatori sociali e ridare vigore al collocamento pubblico, si cercherebbe di ridurne la portata e di lasciare mano libera alle imprese, come puntualmente preteso da Confindustria. Invece di una patrimoniale si vorranno tagliare indistintamente tasse e contributi, tornando alla logica di meno Stato e più mercato.
La Cgil si troverà dinanzi a un governo con il quale sarà più difficile ottenere quanto indicato nelle nostre piattaforme: la necessità assoluta di discontinuità e cambiamento. Purtroppo le sorti del governo non sono nelle mani del movimento operaio. Non ci sono in Parlamento forze politiche che mettano al centro della loro politica gli interessi materiali, il punto di vista, le aspirazioni sociali di quanti vivono del proprio lavoro. E’ il prodotto, grave, della crisi di quella che fu la sinistra italiana con i suoi partiti di massa.
Il sindacato confederale, con il suo radicamento sociale, il peso organizzativo, il suo apparato di migliaia di funzionari nelle strutture sindacali e nei servizi, la rete di decine di migliaia di delegati, è tutto ciò che resta di vivo e operante di quella storia. L’unico modo di stare dentro la crisi della politica, per la Cgil, è di tenersi forte la propria autonomia, rifuggendo dal richiamo – avanzato da più parti – a nuovi patti “sociali” o concertativi. Tutt’altro della conquista del necessario confronto per imporre che il Piano di ripresa e resilienza contenga obiettivi chiari e verificabili di nuova occupazione, stabile e di qualità, prima di tutto grazie all’intervento diretto pubblico nei settori strategici, nella riconversione ecologica, e nella pubblica amministrazione.
Proroga del blocco dei licenziamenti e degli sfratti, ammortizzatori universali, contratti di lavoro, riduzione e redistribuzione degli orari di lavoro, nel quadro delineato dal Piano del Lavoro e dalla Carta dei Diritti, da tempo proposti dalla Cgil, sono i terreni su cui la nostra confederazione deve misurare qualsiasi governo, mettendo subito in campo – nonostante le difficoltà dovute alla pandemia – i necessari livelli di mobilitazione e conflitto.
Saremo giudicati – come sempre – per la nostra capacità e coerenza nel rappresentare i bisogni e i diritti di lavoratrici e lavoratori, pensionate e pensionati, giovani precari e in cerca di lavoro. Con il senso di responsabilità di un sindacato generale che guarda al bene comune a partire dalle persone che rappresenta, che sono l’asse portante della democrazia e del benessere del Paese.
Il 25 gennaio scorso abbiamo sottoscritto la stesura definitiva del Ccnl dell’industria alimentare. Finisce così una lunga trattativa per il rinnovo del contratto, cominciata il 10 settembre 2019 quando illustrammo a Federalimentare e alle associazioni di settore la piattaforma rivendicativa approvata all’unanimità da 600 delegati di Fai Cisl, Flai Cgil e Uila Uil. Un percorso democratico di consultazione dei lavoratori che portò ad alcune significative modifiche della piattaforma, grazie a emendamenti arrivati dalle fabbriche.
La stesura definitiva è stata sottoscritta da dieci delle tredici associazioni aderenti a Federalimentare: da Unaitalia che rappresenta le carni bianche e l’avicolo, e, per adesione, da Unionzucchero (queste ultime due non aderenti a Confindustria). Sono rimaste fuori le associazioni dei Mugnai (Italmopa), dei produttori di alimenti animali (Assalzoo), e dei produttori di carne (Assocarni).
I contenuti del Ccnl sono importanti e innovativi. La parte normativa è intervenuta su temi come il rafforzamento delle relazioni sindacali, lo smart working e il diritto alla disconnessione, la necessità di investire sulla formazione, la valorizzazione della sicurezza sul lavoro, e altri punti che hanno migliorato i diritti individuali delle lavoratrici e dei lavoratori.
Il Ccnl interviene anche sulla delicata materia degli appalti, rafforzando l’argine contro l’applicazione dei contratti pirata, e definisce con chiarezza che si deve applicare il contratto dell’attività appaltata a chi lavora in quei settori, e non il contratto dell’azienda che prende l’appalto. Solo nelle ultime ore della trattativa siamo inoltre riusciti a strappare il riconoscimento che esiste una “comunità di sito” in ogni fabbrica, cioè persone che, pur lavorando negli stessi reparti o uffici, non godono degli stessi diritti perché ad esse vengono applicati Ccnl diversi.
Da oggi in poi verrà riconosciuto il diritto a svolgere assemblee informative per i rinnovi dei Ccnl delle aziende in appalto, un primo passo che riconosce finalmente che anni di appalti e sub-appalti hanno peggiorato le condizioni di lavoro e dei diritti individuali e collettivi. Da lì bisogna ripartire per risalire la china, realizzando, come dice la Cgil, una contrattazione sempre più inclusiva. In tutti i mesi di confronto e scontro, questo punto è stato tra i più avversati dalle imprese.
Infine ci siamo trovati a dover definire l’aumento salariale col nuovo modello condiviso da Cgil Cisl e Uil nel cosiddetto “Patto per la fabbrica”. Ed è stato difficilissimo: individuare il “Trattamento economico minimo” e il “Trattamento economico complessivo” ha significato ridisegnare l’intero impianto della retribuzione, e salvaguardate il “valore punto” nel calcolo del Tem. Questo ha rappresentato il punto di maggiore scontro con le controparti già dal primo giorno di trattativa. Molte associazioni datoriali e Federalimentare miravano a non concedere un aumento importante, e avevano subito dichiarato che la nostra richiesta (205 euro) era fuori da ogni logica. Ci trovavamo prima che il Covid “cambiasse il mondo”... .
Il risultato raggiunto sul salario è davvero importante: 119 euro a regime che, seppur suddivisi tra Tem (84 euro) e Tec (35 euro), vanno tutti sui minimi. Non si è perso un giorno di copertura salariale: la prima tranche decorre dalla scadenza del Ccnl e il montante è di 2.954 euro. L’aumento diventa pari a 149 euro in tutte quelle aziende di medie e piccole dimensioni - quasi il 90% delle industrie alimentari italiane - dove non si fa la contrattazione integrativa. Abbiamo trasformato una indennità di mancata contrattazione, mai erogata in precedenza, rendendola automaticamente esigibile.
Su questo punto si è consumato uno scontro fortissimo, durato tanti mesi, e che ha visto per la prima volta il fronte datoriale andare in frantumi di fronte alla forte tenuta unitaria di Fai Flai e Uila, il vero elemento di forza nella vicenda. Uno scontro nel quale si è prepotentemente inserita Confindustria e che è diventato notizia sui media di questi mesi, perché ha assunto il valore di una contrapposizione più ampia fra Cgil Cisl e Uil che, nonostante il Covid, chiedevano il rinnovo dei contratti, e la nuova linea di Confindustria che invece sosteneva il contrario.
Dopo una serrata serie di incontri negli ultimi mesi del 2019, il 2020 si era aperto con posizioni ancora molto distanti. Arriviamo così alla prima rottura del 21 febbraio, nella quale proclamiamo il blocco di straordinario, flessibilità e prestazioni aggiuntive. Sul salario eravamo arrivati a 106 euro, giudicati insufficienti dalla delegazione trattante.
Proclamiamo quattro settimane di agitazione e ci piomba addosso il lockdown, i lavoratori dell’agroalimentare “indispensabili”, le battaglie per l’ottenimento e l’applicazione del Protocollo sulla sicurezza che ci hanno visto impegnati tantissimo a tutti i livelli. Momenti difficilissimi nei quali le nostre delegate e i nostri delegati si sono distinti per coraggio e generosità davvero ammirevoli. Ciò nonostante non avevamo nessuna intenzione di abbandonare il confronto. Federalimentare ci dà una data per la ripresa a metà aprile, e unitariamente sospendiamo le agitazioni.
In questo periodo arriva Carlo Bonomi alla guida di Confindustria, e il suo “pensiero” trova immediata applicazione sul nostro tavolo. Ricordo la sua prima intervista a Lucia Annunziata: ma cosa vogliono questi sindacati dell’alimentare? Rinnovare il contratto proprio ora? Ma si rendono conto del momento? Così Federalimentare si rimangia la riapertura del tavolo, e rimanda al 2021 le trattative per verificare se ci siano le condizioni per procedere.
Accettare sarebbe stato un suicidio. Il forte rapporto unitario con Fai e Uila torna nuovamente centrale. Decidiamo di proclamare nuovamente lo sciopero di straordinario e flessibilità per riconquistare il tavolo di trattativa. Decidiamo di “scavalcare” Federalimentare, arroccata su una posizione di chiusura totale in linea con Confindustria, rivolgendoci direttamente alle associazioni di settore, alle aziende, e a tutte le lavoratrici e i lavoratori. Mossa rivelatasi strategica, perché solo così abbiamo potuto verificare le disponibilità di associazioni e di tante imprese, che non erano d’accordo con la linea di Confindustria, a voler chiudere il contratto. Ha inoltre pesato molto il perdurare dello stato di agitazione in quelle imprese che, restando aperti solo i supermercati durante il lockdown, avevano necessità di produrre tanto.
Il fronte datoriale si è incrinato. Così abbiamo sottoscritto, il 6 maggio, un accordo con le prime tre associazioni, Union Food, Assobirra e Ancit, per riaprire le trattative. Abbiamo subito sospeso le agitazioni in questi tre settori e mantenuta la protesta negli altri. In tutto il mese di maggio, ad una ad una, tutte le associazioni hanno firmato accordi per la ripresa delle trattative, e per l’erogazione di una prima tranche economica del Ccnl da corrispondere ai lavoratori.
Questa modalità ha prodotto profonde spaccature nel campo datoriale. Si sono quindi formati tre tavoli separati sui quali Fai Flai e Uila si confrontavano con le diverse associazioni. Solo uno di questi vedeva il coordinamento di Federalimentare, gli altri due tavoli non riconoscevano più questo ruolo alla loro federazione.
Nei mesi di giugno e luglio la trattativa è andata avanti con mille difficoltà, le rigidità di Confindustria si facevano sempre sentire. Arriviamo al 31 luglio e si determinano le condizioni per firmare l’accordo con Union Food, Assobirra e Ancit. Gli altri due tavoli si sono avvicinati su quasi tutta la parte normativa, ma restano ancora a 106 euro di salario. La delegazione coordinata da Federalimentare abbandona le trattative alle 23. Anche il “tavolo delle carni” abbandona il confronto. Riuniamo le segreterie nazionali per fare il punto e poi, alle due del mattino, la delegazione trattante in modalità videoconferenza. All’unanimità decidiamo di sottoscrivere il rinnovo del Ccnl dell’industria alimentare con le prime tre associazioni che avevano aperto al confronto.
Da quel giorno, il 31 luglio 2020, sono partite le consultazioni di lavoratori e lavoratrici - concluse dopo due mesi con oltre il 99% di consensi - anche in quelle fabbriche di associazioni che non avevano firmato. Ma è partito anche un forte scontro, che ha visto scendere in campo pubblicamente Bonomi, contrastato da Maurizio Landini, e il vicepresidente Maurizio Stirpe che tanto si è adoperato a inviare lettere a tutte le Confindustria territoriali per impedire alle aziende di aderire al contratto. Da metà settembre sono nuovamente partiti i blocchi di straordinario e flessibilità in tutte le fabbriche che non applicavano il Ccnl del 31 luglio. Il 9 ottobre abbiamo fatto le prime 4 ore di sciopero, rinforzate da ulteriori 8 ore il 16 novembre, sempre nelle fabbriche che non aderivano all’accordo.
Queste lotte hanno provocato il progressivo svuotamento e indebolimento delle varie associazioni non firmatarie, che poi una per volta hanno sottoscritto con Fai Flai e Uila accordi di recepimento del Ccnl del 31 luglio 2020.
In tutti questi mesi, in proporzione inversa al numero di fabbriche nelle quali si applicava il Ccnl, Confindustria è progressivamente sparita dal settore, e Stirpe ha smesso di scrivere. Anche Bonomi sembra aver riconsiderato la sua linea. Federalimentare è rimasta purtroppo in un incomprensibile arroccamento, arrivando a non sottoscrivere il Ccnl e non riuscendo a recuperare, almeno al momento, un vero coordinamento delle associazioni.
La stesura chiude cosi una lunga battaglia sindacale che ha visto un forte protagonismo dei delegati e delle delegate. Sono loro infatti i veri vincitori di questa lotta insieme alle lavoratrici e ai lavoratori, a cui spettava di diritto questo rinnovo soprattutto nell’emergenza Covid. Mi permetto di dire che questa volta la parola “conquista” ha avuto davvero un significato pieno.
E' arrivata il 21 gennaio 2021, centenario della fondazione del Partito Comunista Italiano, la sottoscrizione dell’ipotesi di accordo da parte di Unic e la delegazione trattante di Filctem Cgil, Femca Cisl e Uiltec del contratto nazionale Concia Industria: ora la parola passa alle lavoratrici e ai lavoratori tramite le assemblee di approvazione. Una data importante, una storia lunga che ci impone grande attenzione in una sorta di commemorazione che impegna il nostro agire come sindacato.
Non è stata una contrattazione semplice e non è banale dirlo, non solo per la “fase Covid”. Il settore presenta spesso grande frammentazione e scarsa cultura delle relazioni industriali. La composizione imprenditoriale è collocata principalmente nei tre distretti di Solofra (Av), Santa Croce sull’Arno (Pi) e Arzignano (Vi), profondamente diversi per settori di riferimento, dimensioni e cultura. Per me, “vicentino magna gatti”, l’analisi si integra, nell’area di Arzignano (distretto
che rappresenta il 57% di produzione di pelle in Europa), con l’egemonia culturale della ricchezza a tutti i costi. Una natura imprenditoriale che si interseca nel Veneto con la cultura del “paron Bepi Sugaman”, che non ne vuole sentire di diritti dei lavoratori e di regole, figuriamoci di contrattazione e di contratto.
Questa firma, per il contesto in cui viene apposta, quindi, ribadisce l’importanza del contratto nazionale non solo per la regolamentazione dei rapporti di lavoro, ma perché si stabilisce che contrattare si può e contrattare si deve. Va riconosciuto con onestà intellettuale che ciò che in altri contratti sembrano cose banali, a volte anche scontate, qui diventano elementi forti di innovazione.
Dobbiamo dirlo, senza giri di parole: abbiamo una imprenditoria, tranne alcune eccezioni, molto arretrata. Va definita quindi un’analisi condivisa del contesto, altrimenti si fa “fuffa”. Ma un merito questo contratto, insieme ad altri rinnovati nella nostra categoria, ce l’ha: possiamo dire che ha rotto il paradigma del nuovo presidente di Confindustria, che teorizzava la fine del contratto nazionale causa crisi. Fermare nella concia la narrazione di Bonomi, senza scambi e in maniera pulita, assume quindi grande valore politico e simbolico: sottovalutarlo sarebbe sciocco.
Fatemi poi vedere il risultato da vicentino, non in un’ottica provinciale ma realista, rilevando le difficoltà che abbiamo dovuto affrontare: da anni non riusciamo a rinnovare il contratto territoriale, per le debolezze di rappresentanza nostra e anche della controparte imprenditoriale. Il rinnovo del contratto collettivo nazionale può determinare un precedente su cui fare leva per aprire “nuove strade della contrattazione”, mettendo le mani nel quotidiano di vita di migliaia di lavoratori.
Ora facciamo un riassunto dei punti chiave. Il nuovo contratto dell’industria conciaria prevederà un aumento salariale oltre l’Ipca, recuperando parte della produttività su scala nazionale, di 65 euro sui minimi (in tre tranche con un montante di 1.200); il raddoppio da 4 a 8 euro mensili come elemento perequativo dove non c’è la contrattazione di secondo livello; l’aumento del contributo azienda sulla pensione integrativa Previmoda al 2%; l’avvio, mai ottenuto fino a oggi, a luglio 2021 dell’assistenza integrativa Sanimoda, per un valore mensile di 12 euro a totale carico delle imprese. Si inserisce una regolamentazione sull’utilizzo dei contratti a termine e di somministrazione; si aggiunge un giorno retribuito per il lutto dei suoceri; si avvia il percorso di riforma degli inquadramenti; si inserisce un accordo quadro sulla sostenibilità ambientale del settore; si ratificano gli accordi quadro sulle molestie.
Un contratto quindi che guarda avanti con le sfide per i prossimi anni, che andranno colte solo se saranno fatte vivere quotidianamente nelle fabbriche e tra i lavoratori. Necessario sarà un lavoro che in altri tempi si sarebbe definito di costruzione della “coscienza di classe”: ineludibile per la sfida che inevitabilmente dovremo affrontare nel prossimo triennio.
Diventa perciò indispensabile una riflessione che porti a “praticare le strade della contrattazione”, non solo a livello nazionale ma anche a livello locale. Una contrattazione che tenga ancora più legate le imprese al territorio, alle sue professionalità e peculiarità, scongiurando così il “virus sociale” del prossimo sblocco dei licenziamenti. La contrattazione diventi quindi l’antidoto alla crisi. Retorica? Forse, ma a volte non fa male praticarla.