Agitu Ideo Gudeta, allevatrice di capre, produttrice di formaggio e simbolo di integrazione, è stata uccisa il 29 dicembre 2020, all’età di 42 anni.
In tutto il mondo non c’era niente di così bello quanto una capra. Quando sedeva tra loro nei ripidi pendii alberati della Valle di Felice, …, Agitu Gudeta gioiva. (…) Non erano capre qualsiasi, ma pezzate mochene, l’antica specie pezzata della regione altoalpina vicina al confine austriaco. (…) Nel 2010, quando lei ne ha prese 15, erano quasi estinte; in un decennio ne aveva 180, e conosceva il carattere e il nome di ognuna. (…) Quando le portava tutte fuori al pascolo poteva zittirle come un gruppo di ragazzini, roteando allegramente il suo bastone tra le sue snelle mani nere. Sì, era nera. Le capre non ci facevano caso, …. Ma la gente certamente sì.
La regione Mochena è uno spazio chiuso, ancora abitato dai discendenti dei Bavaresi che … parlano un dialetto tedesco. Diffidano di tutti gli estranei, compresi gli ambulanti regolari che vendono tessuti fuori dai loro furgoncini. E non avevano mai visto un volto nero se non il martedì grasso, quando il carnevale è guidato da betscho e betscha (i vecchi), (…) tutti e due con la faccia nera, che facevano i pagliacci per propiziare prosperità. Adesso qui tra loro c’era una vera donna nera, una rifugiata etiope, che viveva tra le montagne sola con le sue capre.
(…) È fuggita dall’Etiopia senza nulla, determinata a lasciarsi dietro la nostalgia e reiventarsi. Il suo lavoro là, minacciata da una polizia dal grilletto facile e da un mandato di arresto, è stato quello di difendere i pastori nomadi le cui terre da pascolo venivano prese dal governo e affittate alle grandi aziende. Neocolonialismo, in una parola. Ma anche in Italia la terra, buona terra verde, veniva dissipata, dato che la gente se ne andava. Quindi lei ha fatto quello che avrebbero fatto i suoi nonni pastori: mettere le sue capre nei pascoli comunitari abbandonati e lasciarle mangiare e fertilizzare per ripristinarle gradualmente.
La specie Mochena non dà latte abbondante, ma lei ha avuto presto latte e yogurt da vendere. Quindi è arrivato il formaggio, alla fine 15 differenti tipi adattati ai gusti locali (…). Il suo caseificio a Frassilongo era in un edificio una volta usato come scuola primaria quando c’erano ancora abbastanza bambini nella valle. Qui mescolava le grandi tinozze di latte cagliato altrettanto allegramente di quando portava le capre nella valle, e insegnava alle ragazze del luogo a fare il formaggio come aveva imparato in corsi seguiti in Francia. Niente le faceva più piacere che sentirsi dire che il suo formaggio era buono. Ha vinto dei premi. A Trento gestiva uno stand nei giorni di mercato e nel 2020 ha aperto un negozio chiamato La Capra Felice, che serviva caffè etiope insieme a tutti i prodotti caseari. Felicità era il suo slogan: capre felici, consumatori felici, un posto felice riempito da un’attività locale. La chiamava la sua filosofia della comunità.
(…) Giornalisti da varie parti del mondo venivano a incontrarla …, un simbolo di integrazione per tutti in Italia. Per i primi otto anni poteva dire loro, con il suo sorriso gioioso, che non c’era mai stato un problema. Diffidenza, sì, all’inizio. Ma reali problemi, no. E lei era stata fortunata. Dopo la scuola superiore aveva studiato sociologia a Roma e Trento con una borsa di studio, quindi parlava già un buon italiano, e anche se poi era ritornata in Etiopia i suoi documenti di residenza in Italia erano ancora in ordine. A Trento, aveva ancora amici. Durante il lockdown del 2020 amici vecchi e nuovi si erano passati la voce che aveva da smaltire un grande stock di prodotti deperibili, e tutto è stato venduto.
Già, c’erano sempre vicini più difficili: orsi e lupi, che spaventava con petardi, e pochi mascalzoni, seguaci di politici di estrema destra, che correvano in motocicletta tra le capre o mandavano i cani contro di loro. Nel 2018 un uomo entrò nel granaio mentre lei stava pulendo la macchina per il latte, la prese per le spalle e le disse di tornarsene a casa. (…) Aveva ritenuto più sicuro spostarsi dal suo isolato rifugio di montagna di Plankerhof ad un appartamento vicino la chiesa.
Gli intrusi dicevano che le sue capre avevano danneggiato la loro proprietà. Avevano anche da ridire sui rifugiati africani e migranti che aveva preso per aiutarla quando era troppo indaffarata. Questo era il suo ultimo progetto, usare una risorsa importante che stava per essere sprecata, come la terra. Voleva trovare giovani uomini con il permesso di soggiorno, ma senza lavoro, per insegnare loro ad avere cura delle capre. (…) Ha cominciato prendendo a un certo punto un giovane uomo, dal Ghana o dal Mali, sperando di trasformarlo in amante delle capre fervente quanto lei. Fin dall’inizio, quando si arrampicavano verso il pascolo, chiedeva loro “Siete felici?” Dovevano esserlo, sentiva. Ma non era così per Suleiman dal Ghana, che proprio dopo Natale ha litigato con lei su salari non pagati, e ha finito per ucciderla. (…) l
(dal numero del 9 gennaio 2021 del settimanale The Economist, traduzione di Leopoldo Tartaglia)