Elezioni 25 settembre: una prima analisi sul voto operaio - di Riccardo Achilli

Stella inattivaStella inattivaStella inattivaStella inattivaStella inattiva
 

I risultati elettorali di questa ultima tornata, suddivisi per fascia sociale, pongono più di un problema alla sinistra e al sindacato.

Mentre i dati Ixé mostrano come non vi sia stata una vera e propria deriva a destra (i partiti di destra hanno preso solo 150mila voti in più rispetto al 2013), evidenziando come l’esito sia stato determinato da un forte calo in direzione dell’astensionismo dei voti progressisti, e dalla frammentazione ulteriore indotta dal “terzo polo” Azione – Italia Viva, Nando Pagnoncelli rivela altri dati interessanti sulla composizione sociale del voto.

Secondo il sondaggista infatti FdI è prima fra operai e affini, con una percentuale di voto del 34,6%, enormemente superiore a quella del suo risultato complessivo. Poi con il 16% viene il M5S, ma buona è anche la percentuale della Lega (13,4%). Complessivamente, gli operai votano a destra nel 55% dei casi. Pd e sinistra prendono solo il 13,4% del voto fra gli operai, evidentemente contando solo sull’élite operaia più qualificata e sindacalizzata.

Secondo Swg la situazione è più sfumata, ma non meno drammatica: gli operai voterebbero a destra nel 45% di casi, con FdI ancora primo partito in tale classe sociale, mentre il Pd prenderebbe appena il 18% e il M5S andrebbe solo leggermente meglio (21%), e quasi la metà (45%) del voto operaio si è rifugiata nell’astensionismo.

Questa tendenza viene da lontano, è stata evidenziata già da anni, senza che la sinistra potesse (o volesse) mettervi un argine. Il tema è che la classe operaia è stata lasciata da sola ai venti dell’outsourcing produttivo, che ha frammentato l’unitarietà della grande fabbrica fordista, e delle delocalizzazioni indotte dalla globalizzazione, che nella narrativa dominante della sinistra era buona e giusta, senza curarsi delle sue conseguenze occupazionali, dipinte come inevitabile scotto da pagare per un mondo più interconnesso e che avrebbe dovuto fornire maggiori opportunità.

Gli operai, inoltre, non si sentono più protetti da una rete sindacale in disfacimento per motivi strutturali: decentramento produttivo, toyotismo e metodi di lean organisation che riducono la conflittualità sociale e rendono più facili anche i provvedimenti di contenimento salariale o di incremento della produttività. E precarietà crescente, nuove modalità di lavoro meno in grado di essere penetrate dal sindacato, come ad esempio tutto il mondo della gig economy, molto diffuso nella logistica, che induce una autorappresentazione di classe distorta, con lavoratori molto sfruttati che, come coscienza di classe, vengono collocati nella piccola borghesia.

Infine c'è stato il taglio della cinghia di trasmissione con la politica, con la fine di un rapporto diretto e osmotico fra sindacato e partito, ed errori propri come competizione eccessiva fra sigle confederali, mala lettura dei fenomeni lavoristici e sociali, debordamento della funzione concertativa, che ha prodotto uno spostamento del focus dell’attività sindacale dalla difesa del lavoro a funzioni pseudo-partitiche di rappresentanza generale, banali scandali sui compensi dei dirigenti delle sigle, assenza di una legge sulla rappresentanza sindacale.

In questo abbandono, gli operai si sono aggrappati ad una retorica sovranista e nazionalista nella speranza, ovviamente del tutto vana, che i portatori di tale retorica (Lega prima e FdI oggi) chiudessero le frontiere alle delocalizzazioni o alla competizione salariale globale. E non è nemmeno da citare il tema della sicurezza urbana, nei quartieri popolari delle nostre città, la cui percezione (non necessariamente corrispondente con la realtà) è in grave e continuo peggioramento, tema, questo, che la sinistra ha tradizionalmente difficoltà a maneggiare.

Ovviamente il risveglio operaio, dopo aver dato il voto alla destra, quindi ad un nemico di classe, sarà amaro. Ma il voto non tornerà al Pd ed ai micro partitini di sinistra, ormai eccessivamente sfiduciati e privi di qualsiasi credibilità: in parte rifluirà nell’astensione e in parte andrà al M5S, se saprà tenere la barra dritta.

Anche il sindacato confederale rischia tantissimo. Da un lato un progressivo cambiamento di natura, che, insieme al decentramento contrattuale (cavallo di battaglia della destra da sempre) lo porterebbe verso un modello di sindacato aziendale o settoriale all’americana, che è esattamente il punto di arrivo del sindacalismo di base, se non addirittura verso un modello di sindacato erogatore di servizi. Dall’altro lo condurrebbe ad una erosione del tesseramento, depotenziandone la rappresentatività.

La fase è estremamente preoccupante, sottovalutarla rischia di essere esiziale.

 

©2024 Sinistra Sindacale Cgil. Tutti i diritti riservati. Realizzazione: mirko bozzato

Search