Quel non voto di classe e la crisi della rappresentanza democratica - di Riccardo Emilio Chesta

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Spiegare il comportamento elettorale attraverso le appartenenze di classe è impresa tanto difficile quanto necessaria, specialmente per chi si pone il compito di organizzare forze che rappresentino chi più ha bisogno della democrazia, ovvero chi con maggior forza subisce le attuali disuguaglianze strutturali e che si riversano sulla sfera dei diritti.

Il rischio di involuzione oligarchica nel pluralismo democratico è costante in quanto, come ricordava già il politologo Elmer Eric Schattschneider, “nel paradiso pluralista il coro celeste canta con un forte accento della classi superiori”. Così, capire come ricostruire legami forti di rappresentanza democratica è compito necessario soprattutto per chi vuole rappresentare chi più della democrazia avrebbe bisogno e per chi vuole scongiurare che essa divenga un semplice teatro al cui centro del palcoscenico si muovono i gruppi d’interesse dei più forti, autori di uno spettacolo che si vuole offerto a un pubblico passivo o che addirittura non s’interessa affatto del pubblico che quindi, come nelle recenti elezioni politiche, decide di disertare lo spettacolo.

In tal caso, come aveva ravvisato nei suoi ultimi scritti il sociologo italiano Alessandro Pizzorno, l’odierna crisi della rappresentanza democratica si delinea sempre più attraverso un’erosione delle forme di rendicontabilità tra attività dei rappresentanti e mandato conferito dai rappresentati, e con uno spostamento tendenziale delle decisioni rilevanti dalle luci della ribalta delle istituzioni democratiche al buio del retroscena dove è di casa la logica delle lobbies, là dove è facile si consumino scambi occulti tra gruppi d’interesse e leader personalistici. Leader che, slegati da tradizionali e robusti meccanismi di controllo delle responsabilità verso strutture di rappresentanza collettiva, non possono che finire a coltivare interessi di dubbia utilità collettiva, fondendo pulsioni narcisistiche e interessi di carriera con forme di dipendenza verso poteri poco trasparenti a cui dover rendere conto (tendenza sempre più tangibile anche con la trasformazione in senso privatistico delle forme di finanziamento alle attività politiche).

Dopo una pandemia che ha per certi versi raffreddato le forme ordinarie di partecipazione democratica, dopo una controversa parentesi tecnocratica dominata dall’agenda Draghi, le elezioni politiche hanno mostrato in primis una chiara tendenza all’astensionismo. Il 63,9% di affluenza alle urne è il dato più basso della storia repubblicana ed è principalmente un fenomeno che va sicuramente letto come uno svuotamento di significato che alcune parti della popolazione percepiscono nel sistema democratico parlamentare, incapace di incidere su dimensioni rilevanti delle loro vite.

Analizzare l’origine di classe di questo dato non è semplice ma è possibile identificare alcune tendenze di massima, anche per sottrazione rispetto ai risultati elettorali più visibili e a quelli delle tornate precedenti.

Per farlo due sono tradizionalmente le prospettive analitiche da incrociare. La prima guarda alla ‘domanda politica’ da parte di gruppi socio-economici specifici e valuta in che modo gli stessi esprimano interessi, valori e idee che possano strutturarsi attorno a domande collettive o ‘di classe’. La seconda osserva in che modo l’‘offerta politica’ punti strategicamente a saldarsi con domande di gruppi sociali per fini che dalla semplice raccolta di consenso divengano programma organico di rappresentanza collettiva non episodica o strumentalmente vincolata a scopi elettorali.

Tornerebbe utile forse di questi tempi rivedere il dibattito classico sul socialismo democratico inaugurato dalla rilettura gramsciana di Adam Przeworski, dove il problema della costruzione di una politica di classe in un sistema di vincoli elettorali come quello delle democrazie occidentali ad economia capitalistica è determinato da uno squilibrio di risorse e capacità di mobilitazione nettamente a favore dei gruppi dominanti e dei loro interessi. Tale lettura ha permesso di superare definizioni dogmatiche del rapporto tra classe e voto ed in parte ha spiegato la classe come una categoria principalmente politica, ovvero come una condizione esistente più dal lato dell’offerta (il partito) che per il lato della domanda (latente in società). In tal caso, la classe non potrebbe esistere senza un ruolo aggregante e identificante di un partito che ne costruisce esso stesso interessi e visioni.

Per fare ciò, anche in un’epoca dove nelle democrazie occidentali gli attori collettivi della rappresentanza hanno da tempo rinunciato a grandi narrazioni o visioni organiche del mondo, servono comunque doti insieme di organizzazione e di leadership, capacità di immaginare nuove visioni politiche in grado di rispondere non solo ai bisogni materiali contingenti ma anche di mobilitare identità collettive che vadano al di là delle logiche strumentali dell’alleanza e suggeriscano speranze, capacità di fare politica oltre una logica che si limiti a registrare i vincoli di amministrazione dell’esistente.

Concepire una politica democratica come una semplice amministrazione dell’esistente significa implicitamente rinunciare a rappresentare, in una società dove le differenze di classe non solo esistono ma si acuiscono, chi più ha bisogno della democrazia.

Nel mostrare una visibile ascesa delle forze alternative all’agenda Draghi, due sono le tendenze tanto importanti quanto tra loro intrecciate. Il risultato della campagna elettorale che dà ragione alla proposta di destra populista di Giorgia Meloni si deve anche a una maggior capacità di attrarre a sé forze popolari di destra precedentemente legate alla proposta trasversale del Movimento 5 Stelle. Al contempo, tale risultato appare più tangibile visto il ritorno all’astensione di ampie fasce popolari tra cui cresce il numero dei disillusi di sinistra.

Ciò in parte è stato limitato dalla campagna fatta su questioni sociali da parte del Movimento 5 Stelle di Conte, che ne ha spostato l’asse verso una proposta più progressista e di sinistra. Mobilitando su questioni di sinistra moderna come il reddito di cittadinanza o il salario minimo, Conte ha saputo elaborare una proposta in grado di rispondere a domande che il Partito Democratico, il principale soggetto organizzato del centro-sinistra, ha nettamente eluso, sposando sin dal fischio d’inizio della campagna elettorale l’agenda Draghi e puntando quindi verso un progetto centrista, moderato e con in fondo aspirazioni più tecnocratiche che democratiche.

La leadership di Enrico Letta si è mostrata poi poco adatta ai tempi correnti, dove nuove forme di polarizzazione a livello sociale si stanno aprendo alla vigilia di un autunno che aprirà importanti fronti di crisi economica tra le classi popolari. Non è necessario scomodare la figura weberiana del leader carismatico, le cui capacità di visione profetica e di trascinamento sono necessarie nei momenti di grande crisi, per intuire che, anche dal lato della mobilitazione identificante, della passione politica per un progetto collettivo, la leadership del Partito Democratico si è dimostrata nettamente inadeguata, o non ha mai considerato di farsi promotrice di una proposta di trasformazione progressista.

Se è sicuramente intellettualmente sbagliato applicare al risultato elettorale letture che rimandino allo spirito di un’epoca, comunque è possibile leggere alcuni elementi tendenziali di lungo periodo sulla crisi della rappresentanza democratica in queste elezioni politiche. Certo, le logiche della mobilitazione e della competizione elettorale tra forze organizzate in una democrazia avanzata sono ben più profane, legate a meccaniche piuttosto semplici, estese su archi temporali di breve termine e vincolate a obiettivi circoscritti. Gli elettori hanno sempre buone ragioni per scegliere tra le offerte disponibili nell’area politica, così come per non sceglierle, in barba a tante retoriche sulla missione democratica (tanto più se ridotta alla definizione di consultazione elettorale). Tuttavia, tanto quanto il singolo elettore non è in grado di conoscere quali siano le proposte migliori per sé e per i propri gruppi di riferimento, tanto il suo voto è in ultima analisi anche effetto di una credenza che ha bisogno quindi di qualcuno che la mobiliti. L’altra faccia, assolutamente complementare, delle ragioni del voto è che esso è anche un atto di fede, dove molto si spiega con l’identità e la credenza in qualcuno o qualcosa.

Coltivare suggestioni tecnocratiche, o proporre la conservazione delle attuali storture prodotte dal capitalismo contemporaneo, sono entrambe strategie che contribuiscono a togliere significato alla democrazia.

La ripoliticizzazione dell’arena democratica dovrebbe anche passare per questa fondamentale capacità di elaborare un progetto di trasformazione che parli ai soggetti che più hanno perso la fiducia, che più non credono nella democrazia. Ovvero, nell’unico strumento in grado di migliorare le condizioni materiali, far avanzare i diritti e le forme di riconoscimento di vite messe ai margini da un discorso che sempre più assume l’accento dei gruppi dominanti.

 

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