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‘Se vuoi la Pace, prepara la Pace’: non lo si fa inviando armi e aumentando le spese militari. Lo diciamo al presidente Draghi e al governo: per far cessare il fuoco non ci si mette al servizio degli interessi di Usa e Nato, diventando cobelligeranti nel conflitto tra due superpotenze, ma si assume un ruolo diplomatico. Il nostro presidente del Consiglio, che mantiene un atteggiamento di sudditanza e di ambiguità sulla guerra, deve spiegare al Parlamento e al popolo italiano scelte e indirizzi futuri.
La Pace, la diplomazia devono essere le priorità per l’Italia e per l’Europa, dissociandosi da chi vuole usare la guerra, il sacrificio del popolo ucraino per umiliare la Russia e cambiare dall’esterno il suo sistema politico, economico e sociale.
Sappiamo chi invade e chi è stato invaso, e le responsabilità dei massacri, ma un conflitto per procura, finalizzato a interessi geopolitici è vigliacco e miserevole.
La guerra in Europa ha una sempre più stretta relazione con la questione sociale, con le condizioni materiali delle persone, con il nostro futuro. Siamo già in un’economia di guerra, in un’informazione di guerra e persino in una democrazia di guerra. Si umilia la Costituzione, si svuota il Parlamento e si piega l’informazione pubblica al pensiero unico, censurando conduttori e trasmissioni libere e pluraliste. Il popolo sovrano, in maggioranza contro l’invio di armi e l’aumento della spesa militare, non conta nulla.
Il governo, gravemente inadempiente per composizione e scelta di campo, dirotta risorse verso gli armamenti distogliendole da bisogni sociali e investimenti pubblici. Non combatte le storture che generano arretratezza, dipendenza energetica e agro-alimentare, crisi industriali e insopportabili diseguaglianze.
L’Italia è in recessione, aumentano inflazione, prezzi e tariffe. Arretra lo stato sociale e cala il potere d’acquisto di salari e pensioni. L’emergenza pandemica non è finita, e incombe quella ambientale che, insieme alla guerra, produce nuove migrazioni di chi fugge da fame e conflitti. Alla situazione economica e sociale, già critica e acuita dalla guerra e dalle sanzioni, non si può rispondere con vecchie ricette, bonus o interventi spot, facendone ancora pagare il prezzo ai meno abbienti, ai pensionati e al mondo del lavoro.
Siamo in una nuova fase e la Cgil, che rilancia la mobilitazione contro la guerra e le sue tragiche conseguenze, vuole, deve essere protagonista del cambiamento. Daremo vita a una nuova mobilitazione, in continuità con lo sciopero generale del 16 dicembre, con incontri e assemblee in tutti i luoghi di lavoro. Costruiremo una consapevolezza collettiva della grave situazione sociale ed economica, torneremo nelle piazze per dare voce a chi non ne ha, risposte collettive e di rappresentanza confederale nel nostro quadrato rosso.
L'omicidio della giornalista Shireen Abu Akleh, colpita alla testa da un proiettile durante un’incursione dell’esercito israeliano nel campo profughi palestinese di Jenin, e le immagini del suo funerale con la bara che ondeggia sotto una carica della polizia di Tel Aviv fin quasi a cadere a terra, stanno scuotendo molte coscienze. Coscienze spesso e volentieri dormienti, nonostante la realtà dell'insopportabile conflitto che ha come teatro i territori palestinesi occupati dall'esercito israeliano.
Con una rarissima posizione unanime su un argomento riguardante Israele, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite “ha condannato con fermezza l'uccisione l'11 maggio della giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh, e il ferimento di un altro giornalista nella città di Jenin in Cisgiordania”. La puntualizzazione della doppia cittadinanza della reporter di Al-Jazeera, che da oltre vent'anni riferiva la realtà dell’occupazione militare in Cisgiordania, aiuta a spiegare come perfino negli Stati Uniti, davanti a scene che hanno fatto il giro del mondo suscitando una generalizzata indignazione, sia montata la protesta. A tal punto da far rinunciare al governo di Washington l'abituale, acritico sostegno a Israele.
Shireen Abu Akleh è stata la settima giornalista uccisa nei territori palestinesi dal 2018, ricorda Reporters sans frontie'res. Per lei il Consiglio di sicurezza ha chiesto una indagine “immediata, approfondita, trasparente e imparziale”. Questo anche per rispondere al premier israeliano Naftali Bennett, e ad altri esponenti del governo e diplomatici, pronti a dire che la responsabilità della morte di Shireen è da attribuire solo ai palestinesi, rei di aver aperto il fuoco contro i reparti militari entrati nel campo profughi di Jenin. Nel mentre Israele ha appena annunciato la costruzione di più di 4.000 nuove case in Cisgiordania. Altra benzina sul fuoco dell'ennesima guerra che, da decenni, insanguina il pianeta.
Gianfranco Pagliarulo, presidente dell’Associazione nazionale partigiani italiani, lei è finito sulla bocca di tutti. Quasi non c’è media che non lo abbia citato.
“Non so se si tratti di un onore. Sta di fatto che questa assurda campagna di stampa mi ha reso un personaggio. Cosa che avrei preferito evitare. Ma rientra nel dibattito, per molti aspetti inquietante, di questo periodo di guerra. Mi sono trovato sui giornali come autore di frasi che non ho mai detto. Anzi, ho detto esattamente il contrario”
Comunque il 25 Aprile c’era la fila ai banchetti dell’Anpi per rinnovare o fare per la prima volta la tessera dell’Associazione partigiani. Questo nonostante accuse calunniose che l’hanno ritratta, solo per fare due esempi, come il ‘presidente nazionale associazione putiniani italiani’ (Massimo Gramellini), e il nemico dell’Ucraina (Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera, citando dichiarazioni vecchie di otto anni, quando iniziò la guerra russo-ucraina, nel silenzio dei più).
“Di che cosa stai parlando? Degli ormai famosi post del 2014? Bisognerebbe chiedere a Gian Antonio Stella, a Enrico Mentana, se nel 2014, nel maggio 2014, si sono ricordati di parlare dell’assalto alla Casa dei sindacati a Odessa. Quando i nazifascisti hanno sterminato tutti quelli che erano dentro la sede del sindacato e hanno appiccato il fuoco. Ricordo ancora le foto dei cadaveri carbonizzati all’interno dell’edificio, e di una povera impiegata, incinta, strozzata col filo del telefono. Strano che questi personaggi siano umanitari a corrente alternata”.
Torniamo al presente. Sulle pagine dei media, almeno nei primi sessanta giorni di guerra, non hanno trovato spazio le mille voci della pace che pure hanno affollato la Perugia-Assisi, che hanno colorato di arcobaleno le vie e le piazze delle città in ogni occasione.
“C’è un problema specifico nell’informazione italiana oggi. C’è anche nell’informazione russa. Ma vivendo in Italia mi faccio delle domande. Tutti noi percepiamo che fra le scelte del governo e il pensiero della grande maggioranza degli italiani ci sono differenze. Differenze di cui non troviamo traccia nel dibattito politico-parlamentare. In una realtà se non di guerra di semi-guerra, questo è un problema, grosso. I provvedimenti presi con un’opinione pubblica in maggioranza contraria, diventano nodi che prima o poi verranno al pettine”.
A ben guardare, gli attacchi all’Anpi in occasione del 25 Aprile non sono una novità. È da una ventina d’anni che l’associazione dei partigiani viene tacciata di non essere più al passo con i tempi, divisiva, di rappresentare solo una parte degli italiani.
“Qualche tensione c’è sempre stata il 25 Aprile. Sappiamo anche il perché: c’è un pezzo della politica italiana che nei fatti non condivide i valori e il significato simbolico della festa della Liberazione. Ero a Milano per la tradizionale manifestazione del 25 Aprile, ho parlato in piazza e ho notato che le tensioni erano molto inferiori rispetto agli anni precedenti. Certo, c’è stato un gruppetto di una decina di persone al massimo che ha indirizzato qualche fischio a Enrico Letta. La notizia è stata riportata dai media come se fosse successo chissà cosa. Mentre era un fatto assolutamente marginale, irrilevante rispetto all’imponenza del corteo. Personalmente ritengo che sia stato un errore fischiare il segretario del Pd. In un momento del genere, così drammatico per un’Europa di cui noi facciamo parte, acuire le divisioni non è utile alla causa della pace. È stato un grande 25 Aprile, ha rappresentato un elemento di chiarezza nel dibattito pubblico. Ha confermato per chi usa i media come strumento di provocazione pubblica, che non c’è trippa per gatti”.
Domanda d’obbligo: in punta di dizionario si è fatto un gran parlare del termine Resistenza…
“Se mi chiedono se sia o meno legittima la resistenza Ucraina, io rispondo che si tratta di una resistenza militare, dato innegabile, e che è legittima. Se ci sono un paese che invade e uno che è invaso, è legittimo che il paese invaso si organizzi per rispondere all’invasione attraverso una resistenza armata. Detto questo, i paragoni con altri fenomeni resistenziali sono fuori luogo. Permettimi un esempio di scuola: quando c’è stata l’invasione dell’Afghanistan da parte degli Stati Uniti e dei suoi alleati, nel paese è sorta una resistenza armata. Ma nessuno si sognerebbe di paragonare la resistenza afghana, fatta dai talebani, con quella ucraina. Ancora, quando è stato invaso l’Iraq dalla cosiddetta coalizione dei volenterosi, mi riferisco alla guerra del 2003, si è determinata una resistenza armata, ma nessuno potrebbe paragonarla alla resistenza ucraina di oggi. Non si capisce per quale motivo bisogna forzare il corso della storia e della geografia, paragonando la resistenza italiana nel corso della Seconda guerra mondiale che ha tutt’altre caratteristiche, tutt’altra dinamica, tutt’altra cronologia, con la resistenza ucraina. Sono fattispecie diverse. Unite da un unico fatto, questo è innegabile, e cioè la reazione all’invasione di un paese”.
In Italia la Liberazione dal nazifascismo e la pace furono un tutt’uno. E' per questo che il 25 Aprile è connotato dalle bandiere arcobaleno?
“Era impossibile nell’ultimo 25 Aprile non parlare della guerra in Ucraina. E la posizione dell’Anpi rispetto alla guerra è chiara: al primo punto mettiamo la condanna dell’invasione russa; al secondo la solidarietà con il popolo ucraino che legittimamente resiste in armi all’invasore; infine sottolineiamo l’urgenza di aprire un tavolo di trattative, lo stiamo dicendo dall’inizio della guerra, e continueremo a dirlo. Su quest’ultimo aspetto ci troviamo di fronte a ritardi, timidezze, divergenze. Spetta all’Unione europea promuovere una concreta iniziativa di pace. E l’aver preso la decisione di inviare ulteriori armi agli ucraini ha reso difficile assumere questo ruolo. Per ovvi motivi: se mandi armi a una parte, anche se è giusto farlo, poi è difficile proporsi come terza forza, come interlocutore credibile”.
Papa Francesco non si stanca di ripetere che la guerra è una follia, e che sono pazzi quelli che contribuiscono all’escalation militare. Il quotidiano dei vescovi, l’Avvenire, è diventato un punto di riferimento del pacifismo italiano.
“Non c’è dubbio, le cose stanno così. Se possiamo concederci una battuta, i romanzi di Guareschi con Don Camillo e Peppone, ambientati nel secondo dopoguerra, fotografano bene questa relazione. Non va dimenticato che tante famiglie italiane dichiaratamente di sinistra, fra socialisti e comunisti, avevano un rapporto saldo con la fede cristiana. Questa terribile guerra in Ucraina ha fatto discutere al loro interno molte realtà. Anche il mondo cattolico è diviso: fa una certa impressione ascoltare da un lato le parole del direttore di Avvenire, Marco Tarquinio, e di tante altre personalità, penso a monsignor Giovanni Ricchiuti, vescovo di Altamura con cui ho dibattuto qualche settimana fa, e le prese di posizione di tanti esponenti politici che pure si ispirano alla dottrina sociale della Chiesa ma portano avanti comportamenti differenti, direi opposti. C’è una divisione nel mondo cattolico, di cui va preso atto e che va guardata con rispetto. Per la verità le divisioni attraversano tutto il campo politico: il centrodestra, il centrosinistra, e perfino la sinistra. Se posso aggiungere un’osservazione, mi preoccupano moltissimo le ripercussioni del conflitto sull’economia. Siamo usciti da due anni di pandemia e ci ritroviamo nel mezzo di una guerra, con conseguenze ancora imponderabili. Il presidente Draghi parla di un bonus generalizzato di 200 euro, una tantum, per le famiglie al di sotto di un certo reddito. Credo sia giusto pensarci, mi chiedo però se questo benefit sia all’altezza di un costo della vita che sta già aumentando in modo considerevole da prima della guerra. E che continuerà a aumentare per la concomitanza di una serie di fattori intrecciati, a partire dall’inflazione, registrata a marzo al 6-7%, per continuare con la scarsità di materie prime, dato che la filiera ucraina e quella russa non saranno più utilizzabili come in passato. Per noi europei sarà un problema grave, ma per i paesi africani e del medio oriente sarà gravissimo”.
Secondo gli analisti, il presidente statunitense Joe Biden vuole fare dell’Ucraina un nuovo Afghanistan per indebolire la Russia…
“La politica del presidente Biden non va nell’interesse dell’Europa. Personalmente credo che non vada nemmeno nell'interesse del popolo ucraino. Lo slogan del ventennio ‘vincere e vinceremo’, ahimè condiviso anche da alcune autorità europee, comporta nella migliore delle ipotesi un nuovo Afghanistan, vale a dire il protrarsi della guerra per moltissimo tempo. Nella peggiore significa un allargamento del conflitto. Un esempio banale: ipotizziamo che un aereo russo sorvoli la Polonia e venga abbattuto. Che succederebbe l’indomani? I rischi della terza guerra mondiale sono reali. Ed è una possibilità che in tutti i modi, a tutti i costi, dobbiamo sventare, se siamo persone responsabili”.
Lei ha detto che alla fine di una guerra non ci sono vincitori e vinti, ma solo superstiti...
“Faccio un’aggiunta: nel caso di una guerra nucleare non ci sono nemmeno i superstiti. Questo è il dramma. Fino all’agosto del ‘45 non si parlava di guerra nucleare. Poi ci sono state Hiroshima e Nagasaki, dove le persone sono diventate ombre sui pochi muri rimasti in piedi. Da quel momento in poi, la guerra atomica è diventato un convitato di pietra nelle relazioni internazionali. L’equilibrio del terrore la escludeva, io non sgancio una bomba atomica su di te perché tu sei in grado di fare altrettanto. Ma da un mese a questa parte, ho la sensazione che questo tabù, questa rimozione, questo pudore sia scomparso. Per cui, sia pur per mezze frasi, per accenni, si parla anche dell’eventualità dell’uso dell’atomica. A questo punto mi vengono in testa le parole di Papa Francesco, quando ha detto: “Pazzi”. E credo sia un termine ben pronunciato in questo scenario”.
Il 12 maggio la Finlandia ha annunciato l’intenzione di aderire alla Nato. A cascata seguirà la Svezia che, niente affatto turbata per una gestione della pandemia che è stata un unicum a livello internazionale, ora non vuole essere il solo paese nordico non irreggimentato nell’Alleanza atlantica. Due secoli di neutralità, nel caso svedese, e oltre settant’anni di faticoso, ma abile, equilibrio tra Est e Ovest, nel caso finlandese, cancellati nel giro di poche settimane, sull’onda di un’atavica paura dell’orso russo che porta a reputare insufficienti le garanzie militari offerte dalla clausola 42 del Trattato sull’Unione europea.
A fronte dell’espansionismo di Putin, solo il Trattato Atlantico, in particolare l’articolo 5, assicurerebbe la difesa dei due paesi. È la conclusione cui sono giunti a Helsinki sia il rapporto governativo sia la dichiarazione del Comitato parlamentare per la Difesa. In parlamento la maggioranza favorevole alla svolta è schiacciante. Anche l’Alleanza di sinistra, partner di governo dei socialdemocratici, che pure nella campagna elettorale del 2019 si era impegnata a non sostenere partiti favorevoli all’ingresso nell’Alleanza atlantica, ha capitolato: le due esponenti che fanno parte dell’esecutivo rimarranno al loro posto, anche se ai parlamentari sarà lasciata libertà di scelta.
Non c’è spazio per il dissenso: nel rapporto governativo i rischi connessi all’adesione brillano per l’assenza, come hanno notato, tra gli altri, il giornalista della Tv pubblica Magnus Swanljung e il professor Heikki Patomäki dell’Università di Helsinki. Lo studioso giudica il rapporto reazionario; nel timore di un ripetersi della “guerra d’inverno” del 1939-40 (quando la Finlandia fu attaccata dall’Urss), la popolazione si è abbandonata a manifestazioni di russofobia che non si vedevano dagli anni Trenta. Chiunque osi anche solo ricordare il contesto geopolitico in cui è maturata l’aggressione russa o, peggio, esprima posizioni antimilitaristiche, viene bollato come agente del nemico.
In Svezia le resistenze sono più forti, e non solo da parte di pacifisti, femministe, ambientalisti e del Partito della sinistra (che conferma il suo no). Se dopo l’annuncio della Finlandia non ci sono più dubbi sul pronunciamento favorevole dei socialdemocratici, nelle loro stesse fila si levano voci contrarie di rilievo, come quelle degli ex-primi ministri Göran Persson e Stefan Löfven (in carica fino allo scorso novembre), di Pierre Schori (che fu collaboratore di Palme e poi diplomatico di alto profilo) e di influenti intellettuali. Anche pezzi di sindacato (il partner storico del Partito socialdemocratico) mal digeriscono la conversione. Le ragioni: proprio quando ci sarebbe più che mai bisogno di quel neutralismo attivo (ossia non isolazionistico bensì attento a rimarcare l’intreccio tra pace e giustizia internazionale) che ha contraddistinto Svezia e Finlandia a partire dagli anni Sessanta, le due attuali prime ministre si piegano alla logica del militarismo. E poiché esso si autoalimenta, alla svolta atlantista dei due paesi nordici Mosca ha subito risposto minacciando “contromisure”.
Tuttavia ciò che la Svezia dovrebbe temere non è un’invasione russa dell’isola di Gotland (crocevia delle rotte commerciali e militari del Baltico), bensì una guerra tra Usa e Russia. A scriverlo sono Schori e il suo collega di partito Henrik Fritzon, che aggiungono: oggi nove paesi tengono in ostaggio il resto del mondo con l’equilibrio del terrore nucleare, ma questo lato del problema è completamente rimosso. Inoltre, osservano, davvero qualcuno può pensare che Trump, se rieletto (eventualità da non escludere), accorrerebbe in difesa di un paese aggredito dal suo compare Putin? Per converso, Svezia e Finlandia, così rispettose dei diritti umani, potrebbero essere costrette a intervenire in difesa di paesi come la Turchia o l’Ungheria. L’intero Baltico sarà ulteriormente militarizzato; Norvegia e Danimarca, già membri della Nato, non potranno più opporsi all’installazione di armamenti nucleari sul proprio territorio.
In molti criticano poi, in Svezia come in Finlandia, la fretta con cui è decisa una questione da cui può dipendere la vita di intere popolazioni: un procedimento che poco si addice a un sistema democratico, rispondendo piuttosto a preoccupazioni elettorali (in Svezia si vota a settembre) e alla rincorsa dei sondaggi (Finlandia).
In sintesi, la scellerata decisione dei due governi nordici segna un’ennesima escalation verso uno scenario apocalittico.