Quindici processi, tre inchieste, due pronunciamenti della Cassazione per una verità che, con la sentenza di condanna di otto carabinieri per i depistaggi, può ora dirsi definita. Una verità arrivata a 13 anni di distanza dalla morte di Stefano Cucchi, il geometra romano morto in ospedale dopo un terribile pestaggio mentre, affidato allo Stato, era sottoposto alla custodia cautelare.
Prima però c’era stata una falsa verità costruita a tavolino con documenti modificati ad arte, cancellati, spariti o negati. Una falsa verità che ha resistito finché la tenacia di una famiglia che non si è mai arresa, e le tecniche investigative di una procura determinata a riaprire il caso, hanno smascherato l’imbroglio. Tecniche investigative degne delle più complesse inchieste antimafia, per smontare un meccanismo di auto protezione scattato all’interno dell’Arma dei carabinieri della capitale.
Resta nella memoria la definizione del primo processo data dal pubblico ministero dei processi bis e ter, Giovanni Musarò: “Questo è un processo kafkiano, con i testimoni sul banco degli imputati e gli imputati sul banco dei testimoni”.
Alla fine il bilancio giudiziario conta tre assoluzioni definitive per gli agenti di custodia imputati nel primo processo; un’assoluzione e quattro prescrizioni (frutto di annullamenti e rinvii) per i medici e gli infermieri; condanne definitive a 12 anni per i due carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, responsabili del violentissimo pestaggio, e altre due per falso da rivedere in un nuovo processo di appello.
Infine ci sono otto condanne, in primo grado, per gli imputati dei depistaggi che hanno accompagnato tutte le indagini. Fra loro il generale Alessandro Casarsa, all’epoca comandante del Gruppo Roma (quindi capo dei corazzieri del Quirinale), il colonnello Francesco Cavallo, il luogotenente Massimiliano Colombo Labriola, il militare Francesco Di Sano e il maggiore Luciano Soligo.