Come sappiamo, la Corte Costituzionale, presieduta da Giuliano Amato, ha dichiarato l’inammissibilità dei tre quesiti referendari sulla cannabis. Il giorno stesso del pronunciamento lo aveva esplicitato il presidente della Corte, in una irrituale conferenza stampa. Adesso che abbiamo avuto modo di leggere anche le motivazioni di tale pronunciamento, riteniamo utile affrontarne di nuovo alcuni aspetti.
Vorrei qui affrontare soprattutto un tema che è stato posto, ma mi pare rimasto in qualche modo sottotraccia: quello delle Convenzioni internazionali. La Consulta, nel bocciare i quesiti referendari, ha fatto più volte esplicitamente richiamo alle violazioni degli obblighi internazionali posti dalle Convenzioni Onu, del 1961, 1971 e 1988.
Va ricordato che, come giustamente sottolineano i promotori del referendum, che la Cgil ha sostenuto, “la rimozione del termine coltiva dal comma 1 dell’art. 73 si risolveva nella depenalizzazione della sola coltivazione ad uso personale di un numero limitato di piante, lasciando penalizzate le ulteriori condotte necessarie a produrre ed estrarre sostanze stupefacenti, anche se destinate ad esclusivo uso personale. Sarebbe restato fuori legge anche l’hashish, in quanto prodotto derivato dalle foglie di cannabis. E le Convenzioni non dettano in maniera assoluta l’obbligo di vietare la coltivazione, anzi, l’art. 22 della Convenzione del 1961 la ritiene una facoltà del paese se ‘a suo avviso, la ritiene la misura più adatta’…”.
Riteniamo, pertanto, che la rimozione delle pene detentive per chi coltiva cannabis ad uso personale restasse rigidamente all’interno di quanto previsto dalle Convenzioni internazionali. Del resto, molti sono ad oggi i paesi che hanno depenalizzato la cannabis - compresi 19 Stati degli Usa, Malta, Uruguay - senza per questo uscire dalle Convenzioni internazionali.
Nulla aggiungo sulle pesanti ricadute che tale bocciatura ha sulle persone che usano la cannabis a scopo terapeutico, che si trovano nella condizione di dover coltivare poche piante sul balcone di casa, per l’impossibilità di accedere in maniera compiuta alle cure.
Torno infine sul quesito che riguardava la sanzione amministrativa legata al ritiro della patente, e al conseguimento della stessa, perché è del tutto evidente la profonda discriminazione che tale previsione comporta nei confronti di chi è trovato in possesso di cannabis, restando comunque perseguibile la guida sotto l’effetto di sostanze psicotrope. In più, anche in questo caso, le Convenzioni dicono che alle persone che usano, o che sono trovate in possesso di piccole quantità di droghe per uso personale, deve essere fornita la possibilità di interventi di cura al di fuori del sistema penale, alternativi alle sanzioni della giustizia penale.
Abbiamo sempre sostenuto che l’uso delle sostanze è tema da affrontare in termini sociali, sanitari, educativi, e non penali: questa sanzione risulta particolarmente discriminatoria, per le ricadute che ha sulla vita sociale e lavorativa delle persone. Sarebbe stato davvero un passo avanti importante rimuoverla.