- Redazione
- 2022
- Numero 06 - 2022
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Le guerre scatenate in questi decenni dall’Occidente, con le loro disastrose conseguenze, non hanno insegnato nulla. Che la guerra, per sua natura, non possa avere regole né limiti l’aveva ben capito Albert Einstein. È lo strumento della guerra ad essere un crimine contro l’umanità. Si può abolire solo con un salto di qualità della coscienza civile, con l’affermazione della cultura della Pace e della convivenza civile. Con il pensiero critico, libero, senza indossare l’elmetto o fare i tifosi da trincea.
Anche questa guerra in Europa, che poteva e doveva essere evitata, non è più grande, più mostruosa, più violenta e inutile di tante altre, è solo più vicina a noi. I profughi che scappano dall’Ucraina bombardata non sono diversi dagli altri, solo che non provengono da paesi lontani, non sono vittime delle nostre bombe democratiche, civili e ‘intelligenti’, e hanno la pelle del nostro stesso colore.
Fermare la guerra nel nostro continente, difendere e preparare la Pace dovrebbe essere la base di riferimento culturale, etico e politico del governo italiano e dell’Unione europea, di ogni partito che anche solo formalmente sia contro la guerra, contro tutte le guerre.
Invece il governo italiano, con il voto in Parlamento, ha scelto l’invio di armi e un demenziale, criminale riarmo. Si è votato l’insensato aumento delle spese militari, come richiesto dalla Nato, al 2% del Pil italiano. Tradotto, in un’Italia ancora immersa in una crisi di sistema, sanitaria, sociale ed economica, segnata dalla disoccupazione e dalla precarietà di lavoro e di vita, aumentiamo la spesa militare dagli attuali 25 miliardi l’anno a 39: 104 milioni di euro al giorno.
Ma non basta. Il ministro, ormai più della guerra che della difesa, su mandato del governo italiano divenuto una comparsa in questa situazione, si vanta di aver raggiunto un accordo militare Roma-Budapest con il nazionalista ungherese Viktor Orban, per incrementare la cooperazione strutturata in ambito militare, rafforzare l’interoperabilità tra le forze armate, l’addestramento delle truppe e la collaborazione industriale. Un accordo con il razzista che ha eretto un muro di filo spinato lungo i confini con la Serbia e la Croazia per respingere disumanamente le migliaia di migranti, di profughi richiedenti asilo, in fuga dalla guerra in Siria.
Lo stesso Pd, solo due anni fa, dichiarava che quel regime non avrebbe dovuto far parte della Ue. Ma la realpolitik in guerra schiude ogni ipocrisia e chiude le menti, offusca la coscienza e rimuove la memoria storica.
Siamo dentro all’idea del “si vis pacem para bellum”, il motto latino creato a sostegno delle scelte dell’impero romano, quando però si combatteva con spade e lance e non con armi distruttive e bombe atomiche. Siamo ormai alla propaganda, alla retorica, a una cultura e a un’economia di guerra, in dispregio della nostra Costituzione che la ripudia, e in contrasto con l’esortazione del presidente partigiano Sandro Pertini di “svuotare gli arsenali e riempire i granai”.
Concretamente, se non sapremo mettere in campo la mobilitazione sindacale, questi costi da economia di guerra svuoteranno il solito granaio, e saranno scaricati, nel modo più classista e tradizionale, sui ceti popolari e sul mondo del lavoro, con il taglio dello stato sociale e degli investimenti pubblici.
Aumentare le spese militari, armarsi ancora di più come deterrenza e propria protezione nell’era moderna dell’atomica, è un’insopportabile, criminale demenzialità. Come quella di voler costruire un esercito europeo quando non abbiamo mai realizzato un’Europa dei popoli, politica e sociale e una qualsiasi politica estera condivisa.
Il rischio di un’escalation internazionale, continuando, per interessi e ragioni diverse, ad inviare armi e ad ipotizzare il prolungamento della guerra non è impossibile, e potremmo avere conseguenze ben più tragiche, non ipotizzabili a tavolino. Se si dovesse assecondare la richiesta del presidente Zelensky di una “no fly zone”, la situazione potrebbe precipitare verso la terza guerra mondiale.
La guerra in Ucraina ha riportato all’attenzione dell’Europa la follia e le atrocità della guerra. Certo, Putin è il violento invasore nazionalista, il cultore dell’impero russo, uno sciovinista. Peraltro, purtroppo, non l’unico nello scacchiere occidentale e in Europa. Non c’è giustificazione all’invasione e a quel terribile massacro. Ma se non si riconoscono errori, responsabilità, ragioni e cause del conflitto, non si giungerà alla necessaria mediazione, non si fermerà la guerra e non si preverranno le prossime.
Da almeno sette anni gli Usa e la Nato hanno armato l’Ucraina e formato i militari con i loro istruttori. Per anni si è teorizzato e attuato l’allargamento a Est della Nato, preparando irresponsabilmente da parte dell’Occidente la guerra e non la Pace. Una realtà inoppugnabile, viste le dichiarazioni ufficiali del presidente Usa, Joe Biden, e del segretario generale della Nato. La stessa base di addestramento di Yavoriv, in terra Ucraina, bombardata dai russi, vedeva la presenza di soldati dagli Usa, dal Regno Unito, dalla Polonia e da altri paesi. Per anni si è riempita di armi l’Ucraina, addestrato l’esercito e le milizie paramilitari, incluso il battaglione neonazista Azov che si è macchiato di crimini, di torture e di stragi di civili in Donbass e non solo. Si è fomentata la guerra, non preparata la Pace.
La Pace è un nobile sentimento. L’utopia del possibile che deve divenire una politica, un programma, una piattaforma politico-economica e culturale di prospettiva. Se si vuole ripudiare, abrogare la guerra occorre una visione del mondo, entrare nelle contraddizioni, risalire le cause profonde, di ieri e di oggi, delle guerre, compresa questa in Ucraina.
Nel mondo interdipendente le conseguenze di una guerra, come delle sanzioni estreme, si riverbereranno globalmente e per questo non vanno rimossi i tanti conflitti nazionali e internazionali ancora presenti, e si debbono accompagnare gli aiuti umanitari ai profughi con nuove politiche economiche e sociali europee e del governo italiano, di sostegno alla popolazione, al sistema Paese, per evitare ulteriori diseguaglianze, crisi sociali, economiche, industriali, energetiche e alimentari. Occorre ripensare, costruire il possibile mondo di Pace multipolare e multiculturale. Una strada lunga ma percorribile.
Se vuoi la Pace la devi ricercare, preparare e volere con l’azione diplomatica e una politica e una cultura di Pace e di prevenzione delle guerre. Se vuoi fermare la guerra devi armare le coscienze, investire nel progresso sociale, nell’eguaglianza dei diritti e delle possibilità. Non bisogna arrendersi all’idea della guerra, occorre contrastare politicamente e culturalmente chi la invoca, la giustifica, la prepara, e chi la decide e fa enormi profitti mandando al macello intere generazioni.
La guerra per sua natura travolge qualsiasi etica e morale, spazza via ogni barlume di civiltà e di umanità, riproduce e amplia odio, intolleranza e sofferenze per decenni, distrugge territori e annienta vite e speranze, annichilisce ogni solidarietà e ogni umana pietà. La guerra come sempre divide, segna uno spartiacque, determina campi di posizionamento politico, libera ipocrisie e sbugiarda falsi pacifisti, arricchisce i produttori di armi e i mercenari di morte, i moderni lanzichenecchi.
La retorica e l’ipocrisia ormai straripano negli organi di informazione e dilagano in un pezzo sempre più consistente, ancora però minoritario, di un’opinione pubblica sottoposta a un messaggio distorcente, a un pensiero unico che rimuove la memoria storica per far posto agli aspetti emozionali, a riferimenti storici improvvidi e strumentali, e a un’idea di democrazia e di etica occidentale mistificante.
Come scrive Gino Strada nel suo ultimo libro ‘Una persona per volta’: “Non c’è bisogno di avere principi etici intransigenti, né visioni politiche specifiche, per capire che la guerra come strumento non funziona. Basta un minimo di intelligenza, basta solo guardare le cose in modo obiettivo e senza pregiudizi. La guerra, anche quella che si invoca o si fa per porre fine ad altre atrocità, per far finire tutte le guerre, non può funzionare perché è di per sé antitetica alle ragioni che la sostengono; la guerra è la negazione di ogni diritto. La guerra non si può umanizzare, si può solo abolire”.
La guerra ci rimbalza addosso da tutti i teleschermi. Città sventrate, palazzi fumanti, folle di disperati in fuga dalle bombe e accatastati in qualche sotterraneo. L’umanità vilipesa e violentata riempie i nostri occhi mentre rullano i tamburi della propaganda di guerra. I corrispondenti delle tv coprono ogni città dell’Ucraina. Sembra di assistere a Tutto il calcio minuto per minuto, ma invece del rettangolo verde di gioco e il caracollare di 22 giocatori dietro un pallone, vediamo gli studi televisivi pieni di presunti esperti di geopolitica e di una classe dirigente che ripete frasi belliciste fatte con lo stampino.
L’elmetto plasma i cervelli in un pensiero unico. Chi pone obiezioni o ragionamenti viene additato come la quinta colonna di Putin. Anche Papa Francesco è stato preso di mira senza troppi complimenti, e l’Anpi e la Cgil fatte oggetto di una campagna di insulti per aver obiettato che aggiungere armi italiane alle tante già presenti in quel teatro non serve a fermare la guerra.
Se in questi anni avessimo avuto soltanto una minima parte dei corrispondenti o delle dirette televisive da San’a’, Aleppo, Mosoul, Raqqa, Tripoli, Gaza, Kabul, Bamako, Asmara o Mogadiscio, avremmo scoperto che, a febbraio, non è finita la pace con la vigliacca invasione russa dell’Ucraina, ma si è estesa anche lì la guerra mondiale a pezzi di cui parla, inascoltato, il pontefice. Una via crucis lunga trent’anni, quando invece dei dividendi di pace per la fine della guerra fredda, la guerra “calda” venne sdoganata come strumento “normale” per affrontare le dispute internazionali.
Al contempo la Nato, nel suo rilanciarsi come gendarmeria globale e allargarsi ad Est, marginalizzava l’Onu aumentando l’instabilità sul piano globale, e sostituendo il diritto internazionale con quello del più forte.
Quello che abbiamo davanti non è uno scontro tra il “mondo libero” e un dittatore, ma qualcosa che ha a che vedere con le sfere di influenza, con rapporti di forza imperiali e di accesso e controllo alle fonti energetiche.
Non esiste una soluzione militare alla guerra in Ucraina. Lo sanno benissimo anche Zelensky e Putin. Il primo punta tutte le sue carte su una “no fly zone” della Nato che comporterebbe l’estensione del conflitto ai Paesi confinanti e il rischio di guerra nucleare. Il secondo è impantanato in un Paese di 603.548 km² e di 40 milioni di abitanti che non si può occupare stabilmente con 150-200mila soldati, e che ha suscitato una fiera resistenza, anche di parte delle popolazioni russofile, all’invasione.
In questa situazione sono i Paesi terzi come Israele, Cina e Turchia – quest’ultima anche se è nella Nato non ha varato alcuna sanzione nei confronti di Mosca - ad elevarsi al rango di negoziatori tra le parti. Questi sforzi potrebbero essere premiati dall’egida delle Nazioni Unite, che potrebbero così rendere questa mediazione veramente multilaterale. È l’Onu infatti che può smilitarizzare i corridoi e congelare l’invasione sul campo, così come è l’Onu quello che può prospettare zone e paesi neutrali in grado di dare garanzia per la sicurezza ad Est e ad Ovest. Solo l’Onu è in grado di permettere che i corridoi umanitari non si trasformino in un semplice esodo dalle proprie case dei civili, preludio per la distruzione da parte dell’occupante russo delle città assediate. Questo consentirebbe il negoziato vero su tutti i temi sul tappeto, che fino ad oggi non si è voluto affrontare.
Il ritorno al diritto internazionale consentirebbe anche alla Ue di recuperare la sua originale missione, quella di unire i popoli europei e di garantire la pace. Una Ucraina nella Ue e non nella Nato andrebbe a rafforzare quei paesi neutrali che ne fanno parte come Finlandia, Svezia, Austria e Irlanda, e che hanno dimostrato di avere una qualità della loro democrazia non certamente inferiore alla nostra. Solo il cessate il fuoco e una garanzia internazionale consentirebbe agli ucraini di proseguire la resistenza all’invasore senza armi, attraverso la disobbedienza civile, l’organizzazione di comunità solidali, l’indisponibilità alla cancellazione delle proprie identità nazionali (che anche in Ucraina, sono diverse e non una sola).
Far tacere le armi significherebbe restituire la parola ai popoli, compreso quello russo, rompendo l’isteria militarista-nazionalista che anche in Russia addita chi si oppone alla guerra come disfattista e in collusione con il nemico. Una soluzione negoziata infine porrebbe il problema di un sistema di sicurezza continentale condiviso, bloccando l’assurda corsa alle spese militari, che amplificando un trend già in crescita negli ultimi 20 anni vede una corsa al riarmo degli Stati nazionali (la Germania in un colpo solo di oltre 100 miliardi di euro), che rappresentano una minaccia alla pace e annunciano nuove guerre per il futuro.
Analogie tra potenti, ipocrisia dell’Europa. Dalla stampa internazionale.
L’informazione nazionale non brilla per onestà né oggettività, la “copertura” della guerra in corso tra Russia e Ucraina ne è un’ennesima prova. Fiumi di retorica, con un pensiero unico: esaltare l’Ucraina, colpire la Russia, alimentare la guerra.
Mentre è indispensabile e dovuta la solidarietà e la vicinanza con le vittime ucraine e con chi in Russia si ribella alla guerra del presidente, è utile conoscere altri punti di vista e letture nel mondo. Particolarmente interessanti alcune voci da Palestina e Israele, occupata e occupante da decenni, su due aspetti: le analogie, persino nel linguaggio, tra l’azione di Putin e quella di Israele, e la constatazione del doppio standard dell’Europa rispetto alle due situazioni.
“Il modo in cui Putin rappresenta la violenza dello stato russo in Ucraina è simile alla retorica che Israele usa nelle sue guerre contro i palestinesi da decenni” (Meron Rapoport, Israele, +972 magazine). Rapoport cita la stessa parola “operazione” con cui Putin ha definito il suo attacco all’Ucraina per quella che è una guerra a tutti gli effetti: “Gli ex soldati israeliani ricorderanno ‘Operazione Pace per la Galilea’, il nome che Israele diede alla guerra iniziata nel 1982, che portò alla conquista di quasi metà del Libano, compresa la capitale Beirut, e alla successiva occupazione del sud del Paese”. Tante operazioni sono seguite, con i nomi fantasiosi di ‘piombo fuso’ o ‘margine protettivo’ su Gaza, o ‘scudo di difesa’ in Cisgiordania.
La propaganda investe anche la storia: “Non esiste la nazione ucraina” ha affermato Putin, sostenendo che l’Ucraina non ha mai avuto una “tradizione di genuina statualità” e che il paese di oggi è una finzione creata dai bolscevichi quando fondarono l’Unione Sovietica. Nel 1969 l’allora primo ministro Golda Meir dichiarò che storicamente “non esistevano i palestinesi”. Benjamin Netanyahu le fece eco nel suo libro del 2000, ‘Una pace durevole’, in cui sosteneva che prima del sionismo “non esistevano persone come i palestinesi, con una coscienza nazionale, o un’identità nazionale, o una concezione degli interessi nazionali” (Peter Beinart in Jewish Currents).
Queste analogie rendono ancora più chiaro il doppio standard dell’Europa, particolarmente odioso quando viene abbinato alla esa ltazione dei “valori”. “È sorprendente assistere alla rapida risposta europea, alla capacità di mobilitarsi velocemente e alla celebrazione della resistenza quando è ‘bianca, bionda e con gli occhi azzurri’” dice Alaa Tatir su Middle East Eye, ricordando che la resistenza palestinese viene abitualmente tacciata di terrorismo.
Dunque la comunità internazionale – e gli europei in particolare – hanno una opportunità per riflettere e avviare una profonda revisione delle proprie politiche, alla luce di quei valori di umanità e giustizia tanto sbandierati in questi giorni. Sul quotidiano israeliano Haaretz, Jack Khoury si chiede: il mondo unito per le sanzioni alla Russia. Perché non può fare lo stesso per i palestinesi? “Ciò che i palestinesi hanno chiesto negli ultimi 50 anni, azioni internazionali per fermare un occupante aggressivo, è stato attuato per gli ucraini in soli sette giorni. Una richiesta parallela di tali azioni a beneficio dei palestinesi suona come una battuta stantia”.
Ancora, Gideon Levy su Haaretz: immaginate che Israele stia invadendo di nuovo la Striscia di Gaza. Le solite uccisioni, distruzioni e rovine. Il mondo tira fuori la nuova arma apocalittica: esclude Israele dal sistema di comunicazione e trasferimento bancario internazionale. Israele è fuori da Swift. Ciò che è giusto e doveroso per l’invasore dell’Ucraina è giusto e doveroso per l’invasore della Striscia di Gaza. Senza Swift, Israele imploderebbe immediatamente, e sarebbe costretto a modificare la sua politica distruttiva e di apartheid verso i palestinesi!
Concludiamo con Yousef Munayyer su The Nation: da un giorno all’altro, il diritto internazionale sembra essere di nuovo importante. Boicottaggio, disinvestimenti e sanzioni vengono ampiamente utilizzati. La vodka scompare dagli scaffali dei negozi. La Russia espulsa dall’Eurovision e sospesa dai principali campionati di calcio internazionali. I balletti russi e perfino le lezioni su autori russi dell’800 cancellati: il tutto dopo appena cinque giorni. Sorprendentemente, boicottaggi, disinvestimenti e sanzioni non sono controversi se usati per colpire le responsabilità di alcuni trasgressori, ma quando si tratta dei diritti dei palestinesi queste misure sono considerate sbagliate, o addirittura antisemite!
Quando un alleato dell’Occidente come Israele viene “tenuto al riparo” da queste misure, è evidente che non esiste un ordine internazionale basato su regole: esiste solo la regola della forza, e il diritto internazionale viene usato come strumento di potere. La forza stabilisce il diritto, e questa è una minaccia per tutto il mondo.
(Gli articoli citati, tradotti in italiano, si trovano su: www.palestinaculturaliberta.org)
Il 25 marzo c’è stato il Global Climate Strike, e il movimento globale dei #FFF ha lanciato la mobilitazione con l’appello #Peoplenotprofit (persone non profitti). La Cgil, nel sostenere come sempre lo sciopero per il clima, ne ha ribadito l’importanza e invitato tutte le strutture a supportarlo nei territori attraverso iniziative pubbliche, presenza ai cortei e, se possibile, assemblee nei luoghi di lavoro.
I profitti di p ochi guidano un’economia fossile, estrattivista, liberista e neocolonialista che causa emergenza climatica, distruzione degli ecosistemi, crisi sanitaria e profonde disuguaglianze. I profitti di pochi alimentano anche l’economia di guerra, finanziando la produzione e la vendita di armi, il proliferare di guerre, dolore, morte, povertà e distruzione in tante aree del mondo. Disastri ambientali, emergenza climatica, crisi economiche e guerre che causano milioni di morti e di profughi costretti ad abbandonare le proprie terre.
La Cgil da anni lotta per un radicale cambiamento del modello di sviluppo, come abbiamo scritto nel documento “Dall’emergenza al nuovo modello di sviluppo”: una rivoluzione delle priorità, nel senso proprio del termine, come cambiamento collettivo del punto di vista, con una forte centralità della persona e dei suoi bisogni primari e del territorio e dell’ambiente.
Come ha scritto il segretario generale Maurizio Landini “…. la guerra in Ucraina, con il suo portato di morte e distruzione, dimostra quanto sia importante affermare e lottare per un nuovo modello di sviluppo che coniughi la sostenibilità ambientale e sociale con la pace e il disarmo. Inoltre questa drammatica vicenda ha reso evidente la necessità di un profondo cambiamento sul versante della dipendenza energetica dalle fonti fossili, e la necessità di accelerare gli obiettivi di decarbonizzazione dell’economia. Ambiente e pace rappresentano due terreni importanti di iniziativa della nostra organizzazione, in continuità con le manifestazioni delle settimane scorse e in relazione alle prospettive di sviluppo del nostro Paese, a partire dalla piena e buona occupazione e dalla difesa e tutela del lavoro di qualità. La mobilitazione per il pianeta e per la pace sono strettamente legate alle battaglie per i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici”.
L’ultimo rapporto dell’Ipcc su impatti, adattamento e vulnerabilità al cambiamento climatico presenta un quadro drammatico, che il segretario generale dell’Onu Guterres ha definito “un atlante della sofferenza umana e un atto d’accusa schiacciante contro una leadership climatica fallimentare”. E’ proprio questo il punto: siamo ancora in tempo per evitare la catastrofe climatica, ma non lo facciamo. I governi non agiscono con la doverosa urgenza e radicalità, si attardano sul vecchio sistema come se non si fosse in piena emergenza, un’emergenza che investe tutti i pilastri della sostenibilità: sociale, ambientale ed economica.
L’aumento dei costi energetici e la necessità di emanciparsi dalla dipendenza dal gas russo sono un motivo in più per accelerare la transizione energetica, mettendo in campo investimenti e misure strutturali finalizzate al risparmio, all’efficienza e alla produzione di fonti rinnovabili.
Eppure i decisori politici non agiscono di conseguenza. Guardando al nostro Paese: abbiamo ancora un Pniec (Piano nazionale integrato energia e clima) che prevede un obiettivo di riduzione delle emissioni del 37% al 2030, a fronte di un target europeo del 55%; il Pnrr, che rappresenta un’occasione unica in termini di risorse economiche, avrà un impatto limitato rispetto agli obiettivi di contrasto al cambiamento climatico se non accompagnato da risorse nazionali e da uno strumento europeo finalizzato a sostenere questi obiettivi al 2030.
Nel 2020 abbiamo speso 21.648,63 milioni di euro, di cui 13.100 di sussidi alle fonti fossili, in sussidi ecologicamente dannosi, e come se non bastasse vogliamo aumentare le spese militari portandole dall’1,5% al 2% del Pil, dagli attuali 25 miliardi di euro all’anno a 38 miliardi, che potrebbero essere anche di più già nella prossima legge di bilancio.
Il ruolo dei lavoratori e del sindacato è fondamentale per agire un processo di giusta transizione verso un’economia di pace, libera dai fossili, che tenga conto dei limiti del pianeta e distribuisca in modo equo ricchezza e risorse, che tuteli i beni comuni, gli ecosistemi, i diritti umani e del lavoro.
Da anni la Cgil porta avanti queste battaglie, e rivendica misure per garantire una giusta transizione a partire dalla partecipazione democratica di comunità e lavoratori, la piena occupazione, anche attraverso un lavoro garantito con lo Stato erogatore di ultima istanza, la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, il contrasto alle delocalizzazioni, la formazione permanente per le nuove competenze verdi e digitali, il contrasto alla povertà energetica, e il diritto alla mobilità sostenibile per tutti.
I Global Climate Strike sono parte delle nostre lotte fin dal primo momento, il 25 marzo siamo tornati in piazza per il pianeta, la pace e il lavoro #Peoplenotprofit.