Adriano Prosperi, “Un tempo senza storia”, Einaudi, pagine 121, euro 12.
Nell’ultimo trentennio l’offensiva delle destre a proposito di riscrittura della storia è stata, a fronte dell’evaporazione della sinistra, costante e spasmodica, tanto che siamo pervenuti in un battibaleno all’istituzione del ‘Giorno del Ricordo’, con l’incredibile narrazione delle foibe tesa a cancellare l’occupazione nazi-fascista della Jugoslavia e i crimini perpetrati contro i partigiani e i civili. Ora, con un disegno di legge proposto da Fratelli d’Italia che equipara indebitamente Shoah e foibe, si intende perseguire penalmente chi fosse ritenuto responsabile di “negazione, minimizzazione o apologia del massacro delle foibe”.
Se è vero che da tempo il senso comune del nostro Paese è egemonizzato dai discorsi populisti e reazionari delle destre, uno sguardo su quanto è avvenuto nel settembre del 2019 nel Parlamento Europeo, ove una risoluzione di quell’assise ha equiparato nazismo e comunismo, ci indica come il revisionismo storico può emergere in ogni luogo sulla base sia dei governanti di turno, sia del mutare dei rapporti di forza tra le classi.
Prende le mosse da questa clamorosa equiparazione l’agile saggio dello storico Adriano Prosperi “Un tempo senza storia”, che nel sottolineare come quella risoluzione “non reggerebbe alla prova di un esame di scuola media”, si interroga appassionatamente sulle cause e le ragioni per cui si è verificata una tale distruzione del passato, una interruzione della trasmissione inter-generazionale e, più in generale, una preoccupante perdita del senso della storia.
Innanzitutto, dopo il 1989 le classi dominanti avevano scommesso sulla tesi della “fine della storia” veicolata da Francis Fukuyama, stante l’affermazione del capitalismo su scala globale, assegnandole quindi “uno spazio vicino allo zero nella formazione dei giovani e nella vita sociale”. Al contempo, la rivoluzione informatica ha determinato una accelerazione e una mutazione profonda della percezione delle categorie di spazio e tempo, cosicché alla massa di informazioni ora disponibili tramite Internet o cliccando su Google non corrisponde quell’assimilazione dei saperi che da sempre è permessa solo da un lento e impegnativo studio quotidiano.
Inoltre, nel campo scolastico l’insegnamento della storia e della geografia è stato progressivamente marginalizzato, in quanto gli orientamenti dominanti assegnano il primato ai saperi funzionali e spendibili immediatamente sul mercato del lavoro, svalutando ad esempio quei percorsi formativi umanistici che permettono di conseguire il titolo della laurea. Dopodiché non sorprende se, in base ad un sondaggio 2020 di Eurispes Italia, il 15,6% del popolo italiano non crede che la Shoah sia mai esistita (era il 2,7% nel 2004), per cui tristemente - ci ricorda Prosperi a proposito della dolorosa testimonianza di Liliana Segre - trionfano in tutta Europa i predicatori d’odio contro i nemici (migranti, musulmani, ebrei, ecc.) individuati come tali di volta in volta.
Ma l’ascesa dei movimenti xenofobi e populisti che esprimono questi leader - si veda la vicenda dell’Afd in Germania - è indubitabilmente il prodotto di grandi fratture sociali, in seguito, ad esempio, al fallimento della riunificazione tedesca, di nuove alienazioni ed estraneazioni che evidenziano l’assenza di quel futuro radioso che i cantori del neoliberismo avevano tranquillamente lasciato credere. Tanto che il rapporto del Censis del dicembre 2019 ha segnalato come la scomparsa del futuro sia la malattia che affligge in maniera inquietante il popolo italiano, giacché l’ascensore sociale risulta bloccato, la precarietà e i bassi salari dilagano come non mai, mentre vantiamo il record europeo per i giovani tra i 18 e i 24 anni che non lavorano né studiano; confinati, purtroppo, in un eterno presente.
D’altronde, le aspettative legate al concetto di durata storica sono venute meno quando le istanze di riscatto sociale sono scomparse dall’immaginario politico e simbolico, in seguito alla “grave sconfitta delle classi subalterne”. Una grave sconfitta che Prosperi rintraccia, sulla scorta dell’imprescindibile lascito marxiano, nelle caratteristiche del modo di produzione capitalistico, che, reificando il tempo di lavoro nell’incessante produzione di merci, tende a occultare e quindi a svalorizzare il contributo determinante delle classi salariate.