- Redazione
- 2021
- Numero 12 - 2021
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Esprimo a nome di Lavoro Società per una Cgil unità e plurale le più sentite condoglianze per la scomparsa del compagno Guglielmo Epifani alla moglie, ai familiari e ai suoi cari. Ci associamo in questo alle sentite e commosse parole del segretario generale della Cgil, Maurizio Landini.
La sua prematura, improvvisa scomparsa ci addolora, ci rattrista, come siamo certi che sia per tutte e tutti coloro che hanno avuto la possibilità di conoscerlo, di apprezzarlo come dirigente sindacale e come persona. Era un uomo gentile e perbene, dalle forti radici di sinistra, sensibile e attento alla condizione delle persone.
Per noi rimane il sindacalista, il vice segretario di Bruno Trentin e di Sergio Cofferati, il segretario generale della Cgil che ha saputo condurre l’organizzazione con capacità, fermezza, convinzione e coerenza in una fase difficile per il Paese, attraversato da una crisi istituzionale e da dure lotte contro le scelte del governo Berlusconi, e in presenza di una pesante divisione sindacale con Cisl e Uil.
Fuori da ogni retorica, possiamo dire che per noi è stato e sarà sempre un uomo della Cgil. Raffinato e colto, con le capacità, la competenza e le coerenze che gli erano proprie. Un sindacalista stimato, mite e dal tratto gentile, con un forte senso di appartenenza, propenso al rispetto delle pluralità delle idee, alla ricerca della mediazione e della coesione dell’organizzazione.
Sempre privilegiando e avendo a cuore l’unità del mondo del lavoro e delle sue rappresentanze sindacali, fu capace però di assumere decisioni radicali e di condurre la Cgil in battaglie sindacali in solitudine, ma non da sola, contro le scelte del governo Berlusconi, contro i patti neocorporativi, in difesa dell’articolo 18, del modello contrattuale, dei diritti sindacali e sociali, schierando con decisione tutta la Cgil a difesa della Costituzione nel referendum che bocciò la controriforma costituzionale berlusconiana.
Un sindacalista, un dirigente capace di analisi anticipatorie, di elaborazioni ricche di spunti innovativi, mai banale o superficiale, con il valore della confederalità. Sempre corretto, seppe difendere in ogni occasione l’autonomia dell’organizzazione valorizzandone il pluralismo programmatico, rafforzando il patto di unità con la sinistra sindacale, riconoscendole valore e rispettando sempre gli accordi politici.
Nel 2003 seppe schierare la Cgil nel voto referendario sull’estensione dell’articolo 18 anche alle aziende sotto i 15 dipendenti promosso da un gruppo di delegati con il sostegno della Fiom, della sinistra sindacale e di alcune forze politiche. Pur dichiarando che il referendum era inopportuno e non era stato promosso dalla Cgil, non si piegò alle richieste dei partiti vicini e alle posizioni di alcuni sindacalisti che nel Comitato direttivo nazionale chiedevano alla Cgil di assumere la posizione della non partecipazione al voto per far mancare il quorum.
Il compagno, il segretario Guglielmo Epifani, con coerenza e determinazione schierò la Cgil per il Sì perché era una battaglia che ci apparteneva, e perché era nella storia della Cgil non alimentare mai la disaffezione ma favorire sempre la partecipazione democratica al voto referendario come a quello politico o amministrativo. Su questa scelta coerente fu criticato anche all’interno della nostra organizzazione. Questo era il sindacalista, il segretario generale e l’uomo che abbiamo conosciuto e apprezzato.
Rimarrà infine nella storia del sindacato italiano come il segretario generale che seppe rompere un tabù, indicando e portando per la prima volta nella vita della Cgil una donna, la compagna Susanna Camusso, alla massima carica dirigente. Non fu una scelta indolore e priva di tensione, ma quello che è certo è che fu una scelta innovativa e di grande coraggio.
Il ricordo di Guglielmo Epifani resterà vivo nella straordinaria storia della Cgil e nella memoria delle sue donne e dei suoi uomini. Grazie Guglielmo.
Rigore nell’analisi, capacità d’ascolto, tensione unitaria ed empatia, insieme alla gentilezza, sono state le sue qualità decisive.
Il mio primo ricordo di Guglielmo Epifani risale all’inizio degli anni ‘80 del secolo scorso, o forse addirittura prima. Ero ad Ariccia, la scuola sindacale della Cgil, ad uno dei primi corsi per funzionari sul tema del terziario privato, e fu lui a tenere una delle relazioni. Mi colpì la sua giovane età e la sua preparazione: un po’ prevenuto lo ero, visto che lui era del Dipartimento Industria (si chiamava così all’epoca), e noi giovani funzionari della Filcams eravamo convinti che l’approccio confederale di considerare il terziario come semplice residuo di quanto avveniva nell’industria fosse sbagliato. In più eravamo in lite con il Pci, soprattutto romano, che avversava lo sviluppo della grande distribuzione e perseguiva una “politica delle alleanze” (mal concepita) con la parte più retriva della Confcommercio. Per questo fui sorpreso dalla scelta di Guglielmo di focalizzare la sua relazione sulle prospettive di crescita di un terziario moderno e – come si diceva allora – “avanzato”.
Il ricordo serve solo a dimostrare ancora una volta quanto Guglielmo, fin da giovane, sapesse di cosa parlava, di quanto la sua mente fosse aperta anche rispetto a convinzioni consolidate nell’organizzazione, di quanto sapesse vedere sviluppi che altri non riuscivano.
Il suo è stato un percorso raccontato tante volte in questi giorni, e non ci torno su. Vorrei dire qualcosa sul suo stile di direzione: non gli sono capitati anni facili, a cominciare da un’eredità pesante quale quella di Cofferati, eppure ha saputo tenere la Cgil unita nello scontro con Berlusconi e la Confindustria; nel dissenso anche radicale con le scelte delle altre organizzazioni confederali non ha mai chiuso la porta ad una discussione unitaria; ha saputo gestire un dibattito interno acceso senza interrompere mai il filo comune dell’unità dell’organizzazione.
Credo che gli sia anche capitato il passaggio più difficile per un segretario della Cgil: relazionarsi criticamente con un governo che si dichiarava “amico”. Ricordo bene la telefonata agitatissima che gli feci alla prima lettura del testo che sarebbe divenuto il Protocollo del 23 luglio 2007, la segnalazione degli “aggiustamenti dell’ultim’ora” (mandante Confindustria) rispetto al lavoro “concertato” con gli sherpa (tra cui il sottoscritto) nelle settimane e giorni precedenti.
Lui era in auto con Fulvio Fammoni e Morena Piccinini, di ritorno da Palazzo Chigi, ascoltò le mie frasi smozzicate e partì quella lunga notte da cui scaturì la lettera con cui la Cgil chiedeva di firmare “a sezioni e per presa d’atto” un testo che pure avevamo contribuito a scrivere, e che in larga misura andava nella direzione che volevamo. La prova di autonomia forse più difficile, ma fatta vivere dall’organizzazione con il misto di fermezza e duttilità che è forse il tratto più peculiare di Guglielmo segretario generale.
Rigore nell’analisi, capacità d’ascolto, tensione unitaria, empatia: queste qualità sono state decisive per fare di Guglielmo un leader rispettato ed amato. Certamente ha contato il carattere, la gentilezza che tutti hanno notato: ma conta anche – forse soprattutto – la consapevolezza che senza quelle qualità non si dirige un’organizzazione grande “e” confederale.
Lo ricordò lui stesso celebrando il centenario della fondazione della Cgil nel 2006 a Milano, con parole che giustamente hanno ripreso sia Susanna Camusso che Maurizio Landini nei loro ricordi di Guglielmo. Posso solo aggiungere “che è la Cgil a imporre” queste caratteristiche: solo tenendo insieme apertura intellettuale e tensione verso la sintesi si può dirigere un’organizzazione plurale per definizione, qual è un sindacato confederale.
Vorrei citare due fatti: la scelta di costruire la candidatura di Susanna Camusso per la segreteria generale, condotta con determinazione ma curando che avvenisse con un grado di sostanziale unità interna; e il convinto sostegno alla crescita e al rafforzamento di Nidil, perché un’organizzazione non può restare grande se non presidia tutti i fronti del cambiamento e non dà rappresentanza a tutte le forme di lavoro, a partire da quelle più fragili e precarie.
La Cgil è una scuola severa, ma riempie la vita e dona affetto verso chi le ha voluto bene: e noi dobbiamo essere grati a Guglielmo che ce lo ha ricordato tutti i giorni. l
Il 21 maggio, nel corso di una riunione tra la direzione aziendale e le rappresentanze sindacali, assistite da Filcams, Fisascat e Uiltucs, Disney Italia ha annunciato la chiusura di tutta la rete di vendita e la messa in liquidazione della società. Un annuncio che ha sconvolto tutti per le dimensioni del problema e per la radicalità della scelta.
La rete di vendita Disney è fatta da 15 punti vendita tra negozi e “corner” all’interno di grandi magazzini. Sono occupati circa 250 lavoratrici e lavoratori in una catena presente in Italia da venti anni. Alcuni negozi sono collocati nei centri storici delle città, in posizioni di enorme prestigio e visibilità (Milano Corso Vittorio Emanuele, Roma Via del Corso, Napoli Via Toledo) e sono un punto di aggregazione commerciale oramai consolidato: molti di noi vi avranno portato i propri bambini a fare un giro e respirare l’aria da sogno di giocattoli e oggetti targati Walt Disney. Ma purtroppo anche le favole finiscono, e il capitalismo non guarda in faccia alla poesia dello sguardo infantile che ha affascinato e blandito.
La scelta di chiudere non è giustificata da insufficienti risultati economici, dalla crisi pandemica che sta rischiando di mettere in ginocchio molte catene commerciali. Non è frutto di una attenta analisi del mercato italiano o di una presunta insufficienza del giro d’affari nazionale. No! La scelta che la più grande compagnia di “entertainment” mondiale sta operando è quella di indirizzare tutta la propria offerta commerciale sul canale “on line”. Infatti la chiusura di tutta la rete non riguarda solo l’Italia ma sostanzialmente tutto il mondo.
La notizia ha avuto una notevole risonanza: tutti gli organi di stampa hanno rilanciato in maniera molto visibile i comunicati delle federazioni nazionali del commercio; la televisione ha seguito il caso, e i lavoratori hanno ottenuto notevole visibilità nella giornata di sciopero di sabato 26 maggio.
Nelle prossime settimane si avvieranno i confronti a livello ministeriale e aziendale: nostro obiettivo è preservare l’occupazione nella maniera più forte possibile. Molte delle lavoratrici e dei lavoratori di Disney sono occupati presso questi negozi da diversi anni, e hanno maturato un legame profondo con la propria realtà lavorativa. Questo legame era uno dei grandi valori e motivi di successo della catena, dei negozi sul territorio.
Qui emerge un tema che questa vicenda sta ponendo all’attenzione: l’esperienza della pandemia sta modificando molti nostri comportamenti. Il commercio sta vivendo giorni complessi, in cui il cambiamento di questi comportamenti potrebbe avere conseguenze importanti. Il blocco degli spostamenti, e la chiusura dei negozi e degli uffici posizionati nei centri storici, stanno modificando la geografia del commercio. Le vendite on line hanno moltiplicato il proprio volume di affari, e anche in un Paese dalle abitudini sociali radicate, come il nostro, il rapporto con l’acquisto in termini di esperienza sta cambiando. Molti hanno imparato a comprare sui siti on line, e un patrimonio di esperienza, capacità, legame con il proprio lavoro e il proprio territorio rischia di venire meno.
Disney ne è precursore: chiudere i negozi e dirottare tutte le proprie attenzioni sul commercio on line. Calano gli investimenti, si perdono le professionalità e i posti di lavoro e si aumentano i profitti; che sono già altissimi, è bene ricordare.
Fermare il futuro è impresa impossibile, e le nuove abitudini sono difficili da modificare. Ma è indispensabile che tutti facciamo una riflessione: qualche settimana fa, nel corso di un convegno sul tema del commercio on line, una studiosa esperta di flussi commerciali ha spiegato che le abitudini dei consumatori non sono mai realmente consolidate. Ciò che oggi appare certo domani può modificarsi. Una abitudine acquisita si può rimettere in discussione: quindi il ritorno della clientela al negozio, al rapporto con il proprio negoziante può tornare appena le condizioni sanitarie saranno nuovamente serene.
Ma nel frattempo cosa accadrà? Potrà la cassa integrazione salvaguardare il lavoro di commessi e addetti di negozio? E se le grandi catene abbandoneranno il mercato “fisico”, il consumatore sarà orientato ai soli acquisti on line? Se osserviamo il fenomeno ci rendiamo conto di come il commercio on line sia la sola possibilità di acquisto di prodotti di massa in alcune aree del Paese. In molte città di piccole dimensioni l’offerta commerciale non è adeguata a necessità e interessi dei consumatori, e questi si rivolgono all’on line. Se questo accadrà anche nelle grandi e medie città, allora il processo si stabilizzerà e il lavoro di negozio si ridurrà drammaticamente.
Questo ci insegna oggi la vicenda Disney: la tutela del lavoro del commercio inizierà dal modello che la politica saprà indirizzare, senza tentennamenti e senza infingimenti. Magari iniziando a operare anche una vera politica fiscale nei confronti dei colossi dell’on line, che producono utili immensi senza dover pagare la giusta imposizione fiscale.
Giovedì 9 giugno ore 8, “Agorà”, Rai 3. Luisella Costamagna va avanti sul tema “non si trovano persone disposte a lavorare”. Sul video un filmato: il volto del nostro Rossano Rossi, esponente del Movimento dei Consigli negli anni ’90, ex delegato della Sammontana di Empoli, già segretario della Cgil Toscana ed empolese, attuale segretario generale della Camera del Lavoro di Lucca che dice: “Il problema reale è la mancanza di domanda di qualità, ovvero di un’offerta di lavoro con retribuzione adeguata alle ore svolte. Sammontana è un’azienda seria: riconosce i diritti ai suoi lavoratori e, ogni mese, dà ai suoi dipendenti uno stipendio medio che consente loro di vivere in modo dignitoso. Non è scontato, di questi tempi. Invece le offerte di lavoro che girano sul mercato prevedono pochi spiccioli e quasi zero diritti per molte, troppe, ore di lavoro. E gli imprenditori si lamentano pure”.
È il contenuto di una sua intervista a “Il Tirreno”, quotidiano toscano, del giorno innanzi. Poche ore dopo su “l’Aria che tira”, La7, Myrta Merlino intervista, nella saletta del Consiglio di fabbrica, due lavoratori stagionali della Sammontana. Loro raccontano che lavorano con un contratto regolare di 40 ore settimanali dal lunedì al venerdì per 1.200 euro netti mensili, avendo posto fine alla trafila delle assunzioni in prova “a nero, perpetue ma provvisorie” per pochi spiccioli, dove la paga sembrava più una elargizione ricevuta che un diritto. Merlino riesce ovviamente a non intervistare nessun delegato presente e neppure Rossano che è lì con loro.
L’intervista di Rossano è stata ripresa dalle edizioni on line e cartacee de “Il fatto quotidiano”, da Sky24 e dal blog di Andrea Scanzi. Purtroppo – e cogliamo l’occasione per esprimere solidarietà alla redazione de “Il Tirreno” – Scanzi non ha citato la fonte, e così Repubblica e Corriere hanno cercato di dirottare la discussione dal contenuto (la denuncia della campagna padronale) alla diatriba sulla correttezza di Scanzi. Tuttavia questo ha contribuito enormemente a far girare l’intervista e il suo contenuto, attirando l’attenzione di stampa e tv. Merito a “Il Tirreno” di aver intervistato Rossano.
Dunque la narrazione sulla mancanza di disponibilità al lavoro è uscita dalla propaganda padronale contro il reddito di cittadinanza per arrivare ad affrontare il nodo vero: la mancanza di diritti sul lavoro, il lassismo di uno Stato che non controlla e non impone ad imprenditori senza scrupoli – tanti, troppi – il rispetto di leggi e contratti, mentre là dove il sindacato c’è ed è forte e combattivo – come alla Sammontana di Empoli, roccaforte della Flai Cgil, con i lavoratori sempre in prima fila sulle battaglie non solo contrattuali, ma anche di solidarietà - là dove i contratti si rispettano e si applicano, il lavoro buono c’è, anche stagionale.
Infatti Rossano ha aggiunto: “Il problema non è il reddito di cittadinanza, il problema è che fino a quando gli imprenditori continueranno a offrire 3 euro l’ora, c’è poco da lamentarsi se non trovano lavoratori stagionali. I ricchi sono sempre più ricchi, mentre i poveri sono di più rispetto al passato e anche con maggiori difficoltà. Per questo il reddito di cittadinanza non deve essere stigmatizzato, ma visto come una possibilità. Se i datori di lavoro cominciassero a pagare bene i dipendenti smettendo di sfruttarli, sono sicuro che avrebbero la fila”.
Centinaia di migliaia di lavoratori stagionali in agricoltura e nel turismo; e la massa dei lavoratori interinali o a termine, hanno visto nella pandemia le conseguenze di contratti di lavoro privi di regole o con regole deboli. Di contratti siglati da sindacati di comodo, di paghe totalmente o parzialmente in nero. Non hanno potuto usufruire del tutto o a pieno della cassa integrazione e delle integrazioni al reddito. Tra 600mila e un 1 milione e 100mila lavoratori, a seconda delle stime sull’andamento della ripresa post pandemica (e salvo ricadute), vedono il posto di lavoro a rischio. Oltre 600mila lo hanno già perduto.
Confindustria ha una sola ricetta: mano libera sui licenziamenti per ricorrere ad una manodopera a costo minore, perché priva di salario di anzianità e professionalità consolidate e con contratti a termine; il governo, con Brunetta che annuncia solo assunzioni a termine di personale per la gestione straordinaria del Recovery plan, fa da spalla.
Noi invece vogliamo il lavoro di qualità, stabile e con un salario dignitoso. La Cgil deve tenere duro.