- Redazione
- 2021
- Numero 11 - 2021
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L’ennesima tragedia della caduta della cabinovia a Stresa evidenzia la mancanza di manutenzione, di controlli, di scrupoli, avidità e responsabilità da parte della proprietà pubblica e privata, persino la rimozione dei sistemi di sicurezza, come avvenuto, sembra, anche per l’orditoio che ha straziato sul lavoro la giovane Luana D’Orazio. Situazioni che da decenni si ripetono per altre tragedie: ponti che crollano, argini che cedono, treni che deragliano o si scontrano, case abusive o costruite con la sabbia e senza sistemi antisismici, sino alle tante morti sui luoghi di lavoro.
In un quadro simile, andava ben oltre l’indecenza la previsione del decreto semplificazione di ripristino del massimo ribasso e di subappalti senza limiti.
È la continuità del sistema della “legge obiettivo” di Berlusconi e dell’ex ministro Lunardi, definito criminogeno da esperti e magistrati di allora. La ripresa così intesa non ha nulla a che fare con il progresso: è importante solo “mettere a terra” i progetti, fare presto, semplificare, come purtroppo chiedono anche Sindaci di centrosinistra. Importante è muovere l’economia: legalità, qualità del manufatto, sicurezza e diritti di chi lavora sono secondari.
Lo avevamo detto subito senza esitazione: questo governo, politico e non certo tecnico, non ci rappresenta! Il governo Conte II non è stato fatto cadere per scelta incomprensibile di un certo Renzi, ma su un progetto politico pensato per sostituirlo con l’attuale governo, spostato a destra e che fa evidenti scelte classiste, avendo come riferimento il mercato e il profitto, in sintonia con Confindustria e la destra politica e sociale del Paese.
Non ci meraviglia quanto di indecente e di vergognoso questo governo ha attuato e sta cercando di attuare. Non eravamo prevenuti, né tantomeno estremisti e massimalisti demagogici nell’esprimere il nostro netto giudizio su Draghi e il suo governo. Avevamo come riferimento un’analisi marxista sulle tendenze del capitale e della sua presente crisi globale. E non ci siamo scordati che, rispetto all’uscita dalla crisi sanitaria, economica e sociale, lo scontro tra gli interessi in campo, il rapporto tra Capitale e Lavoro, lo scontro con chi detiene poteri e ricchezze, tra progetti e visioni diverse, sarebbero stati all’ordine del giorno.
I fatti parlano da soli. Destra e sinistra non sono entità astratte o superate, ma più che mai attuali. Questo è il governo del condono sulle cartelle esattoriali, del ringraziamento allo “stato” libico per come affronta la questione migranti. Fanno nausea le parole ipocrite dinanzi all’ennesima foto di un bimbo morto su una spiaggia libica, italiana o turca.
Sul piano democratico siamo in presenza di pericolose derive autoritarie, c’è la tendenza ad accentrare la governance del Pnrr, a una gestione dei piani e dei poteri decisionali al Presidente del Consiglio Draghi, l’uomo solo al comando, e ai suoi stretti collaboratori, ai ministri di fiducia che non a caso ricoprono settori decisivi. Si disconosce non solo la democrazia parlamentare, il ruolo del Parlamento, ma, conseguentemente, anche quello della rappresentanza sociale, il sindacato confederale, invitato formalmente anche nella cabina di regia come comparsa per l’ascolto su scelte strategiche già fatte più che da protagonista, senza riconoscerne le rivendicazioni e il diritto a trattare preventivamente sui progetti in campo.
La decisione di manomettere il codice degli appalti, l’attacco ai diritti e alla legalità nei luoghi di lavoro, conquistati a fatica dal movimento dei lavoratori, non sono un errore, ma una scelta, pensata e proposta su indicazione precisa. I parziali miglioramenti al testo iniziale, sul massimo ribasso e su alcune tutele per i lavoratori degli appalti, avvengono su pressione e minaccia di sciopero della Cgil. Ma la logica della deregolamentazione, della “semplificazione” per “correre” e accelerare la messa a terra dei progetti del Pnrr, lo sblocco dei licenziamenti sono parte di quella centralità dell’impresa, del mercato e del profitto perseguite in questi decenni, e spesso privilegiate anche durante la pandemia.
Le politiche neoliberiste, che hanno prodotto diseguaglianza, povertà, disoccupazione e precarietà di vita e di lavoro, non sono sconfitte e sono in campo. La sintonia agli interessi di Confindustria e della destra politica sullo sblocco dei licenziamenti, la devastante proposta sulla semplificazione dicono molto di più di qualsiasi analisi. Persino il deciso No di Draghi alla non certo rivoluzionaria proposta sulla tassa di successione per dare un “bonus” ai giovani - peraltro mal presentata e di carattere caritatevole e paternalistico - rende evidente anche a chi non vuol vedere che questo è un governo che prepara la restaurazione sociale pur ammantandosi da innovatore del Paese. Il fronte della destra, insieme a Italia Viva, sa dove e con chi stare, quali interessi difendere, a quale società aspirare. Quello che manca ancora oggi al fronte progressista e di centrosinistra, che non fa mai i conti con le scelte e gli errori del passato.
Basta con la retorica delle riforme. Vogliamo sapere, per esempio, se la madre di tutte le riforme, quella del Fisco, punterà alla redistribuzione di ricchezza e reddito, alla tassazione dei grandi patrimoni, o a favorire l’evasione, le diseguaglianze e l’espansione ancora del profitto. Se le risorse necessarie per sanare un debito pubblico alle stelle, per mantenere servizi e diritti sociali per tutti, scuola e sanità in testa, si prenderanno ancora dalle pensioni e dal lavoro o contribuiranno le tasse di chi oggi paga poco o nulla. Se, in merito al mercato del lavoro precario, con circa cinquanta tipologie di rapporti di lavoro, con oltre 900 contratti, molti dei quali pirata, si vuole portare quel cambiamento necessario da noi richiesto. Se si modifica quel Jobs act, voluto da Renzi e dal Pd, che ha portato ulteriore precarietà e cancellato l’articolo 18, un pilastro della dignità del lavoro contro le discriminazioni e i soprusi dell’impresa. Oggi, è quanto mai necessario ripristinarlo in presenza di una possibile ondata di licenziamenti per ristrutturazione o riorganizzazione dell’impresa dopo il Covid. Redistribuire il lavoro, ridurre gli orari diventerà passaggio dirimente in una società dove la tecnologia spinta si mangerà sempre più posti di lavoro. E vogliamo sapere come sarà fatta e chi pagherà la necessaria riforma universalistica degli ammortizzatori sociali.
Siamo dentro al moderno e mai sopito scontro di classe. Chi si richiama alla sinistra politica e alla sua storia farebbe bene a fare i conti con questa realtà: l’equidistanza tra capitale e lavoro non regge, non ti fa riconoscere da quel mondo del lavoro che oggi non si sente rappresentato e protetto da nessuna forza parlamentare.
Questo governo è impegnato a “modernizzare, sburocratizzare, digitalizzare, innovare” il Paese, non a cambiarlo, a renderlo più uguale e più giusto, allargando diritti sociali e civili, garantendo servizi sociali pubblici, un ruolo dello Stato in economia, una pensione decente, un reddito di sostegno e una occupazione stabile con una politica industriale innovata. Il cambiamento radicale e di progresso non è nella visione del governo. Non vengono aggredite le diseguaglianze e le ingiustizie. Oggi lo scontro di ordine generale e confederale si gioca sul futuro del Paese per i prossimi decenni. La continuità con il passato sarebbe una sconfitta e porterebbe alla regressione valoriale, sociale e democratica del Paese.
È tempo che il mondo del lavoro, le confederazioni sindacali, ritornino in campo con decisione, a mobilitarsi, a scioperare con determinazione, per contrastare il disegno di Confindustria e della destra sociale e politica, per la conquista delle nostre richieste, della nostra idea di progresso e di futuro. La tenuta unitaria è fondamentale, ma non può sacrificare l’autonomia, l’identità, la rappresentanza, la credibilità, la fiducia conquistata dalla nostra Cgil sui luoghi di lavoro e nella società. Non possiamo essere subalterni a nessuno, se si deve ci si prepara a mobilitarci anche da soli.
Occorre per questo riconoscere i limiti e difficoltà avute anche come Cgil. Occorre ridare forza, senso e passione alla militanza, coinvolgere tutto il gruppo dirigente diffuso, convocare i Direttivi e le Assemblee generali per cambiare il passo, prepararci a organizzare la lotta, la mobilitazione, gli scioperi di categoria e generali. La posta in gioco è alta e la sfida enorme: non possiamo che affrontarla, senza fughe in avanti, con decisione e radicalità. Occorre soprattutto tornare in tempi stretti nei luoghi di lavoro. Senza i delegati e le delegate, le lavoratrici, i lavoratori, i pensionati e i giovani, senza la loro forza e la partecipazione consapevole e attiva la partita è persa.
Di questo occorre avere responsabilità e consapevolezza.
Dobbiamo ascoltare e conoscere i bisogni, le condizioni di vita e di lavoro delle persone, coinvolgere, parlare, conquistare consenso e disponibilità alla mobilitazione. Dobbiamo fare battaglia valoriale e culturale, fare informazione, sindacalizzazione e politicizzazione, da tempo carenti, portare conoscenza, riflessione su ciò che sta avvenendo, ristabilendo verità sui processi in atto, non solo a livello italiano, sulla natura di questo governo e sui pericoli sul piano sociale e democratico.
La Cgil deve essere sempre più il luogo dell’abbraccio, dell’ascolto e della speranza. Dell’organizzazione e della militanza plurale e collettiva di coloro che vogliono essere lavoratori e cittadini con gli stessi diritti in un Paese migliore e più giusto.
Con la Cgil unita possiamo rendere possibile il cambiamento e conquistare il nostro orizzonte.
Quest’anno ricorre il 75esimo anniversario del voto alle donne: il 2 giugno 1946 le donne votarono in massa (12 milioni su 14 aventi diritto) in occasione del referendum istituzionale monarchia/repubblica e per l’elezione dell’Assemblea Costituente. Le norme che sancirono il diritto alle donne di votare ed essere elette furono poi inserite nella nostra Carta costituzionale (articoli dal 48 al 51) chiudendo positivamente un percorso culturale, giuridico e di lotta delle donne che era durato quasi un secolo (per venti volte in Parlamento fu presentata la proposta per riconoscere il voto alle donne, e per venti volte fu respinta).
Le donne sono state protagoniste della nascita e della costruzione della nostra Repubblica; hanno partecipato alla guerra di liberazione contro il fascismo e il nazismo, si sono mobilitate per conquistare il diritto al voto e per convincere le italiane a esercitarlo. Il 1946 è stato l’anno dei cambiamenti che spazzarono via pregiudizi e tabù di un passato, allora recente, di dittatura e di guerra, e di vecchia consuetudine per le donne di essere sottomesse alle decisioni maschili.
Dai diritti si passò negli anni successivi alle politiche per le donne (con leggi che potremo chiamare “delle e per le donne”), nel lungo cammino che le italiane hanno compiuto per la promozione della parità e il riconoscimento della differenza femminile.
Circa vent’anni dopo, nel 1968, si creò una frattura nella società italiana e per le donne fu il primo, vivace momento di partecipazione politica, prima nei movimenti degli studenti e dei lavoratori e poi nel femminismo. Nel 1968, secondo i politologi, le donne cominciarono ad abbandonare le idee conservatrici influenzate dalla chiesa cattolica, svoltando verso un orientamento politico progressista. Anche in Italia era arrivato il vento del cambiamento, modificando le relazioni fra i sessi, in nome di una libertà che, accorciando le gonne, seppelliva il perbenismo degli anni precedenti e determinava una trasformazione così profonda ed estesa, in particolare sulle donne, che il cambiamento incise a fondo nella vita di un’intera generazione, radicandosi stabilmente nelle generazioni successive.
Il bilancio però, a 75 anni dal voto, resta ancora scarso. Da alcuni anni assistiamo ad un arretramento nei diritti acquisiti, e ad una mancanza di conquista di diritti nuovi.
La recente pandemia e la crisi economica e finanziaria che ha colpito il nostro Paese in questi ultimi anni hanno penalizzato soprattutto le donne, che pagano sia l’estromissione dal mercato del lavoro, sia la riduzione del welfare sociale e il conseguente aumento del carico del lavoro di cura.
L’Italia si posiziona tra gli ultimi posti in Europa per tutti gli indicatori di uguaglianza tra donne e uomini. Le donne sono più precarie, anche se in realtà le ragazze si laureano più e meglio dei loro coetanei e sono ormai entrate nel mercato del lavoro, sia pubblico sia privato; ma l’Italia non utilizza le risorse femminili che ha, nemmeno in un momento in cui si dovrebbero migliorare le capacità produttive del Paese. Siamo una nazione in cui mancano vere politiche di welfare, a partire da asili nido, scuole a tempo pieno, cura di anziani e disabili. Le giovani donne si trovano costrette a optare fra tenersi un lavoro o fare figli, infatti il nostro tasso di natalità è tra i più bassi d’Europa, e resiste una vecchia cultura familista che richiede alle italiane una quantità di lavoro assai superiore rispetto alle europee.
L’insufficiente presenza di donne in ruoli decisionali fa sì che raramente la “conciliazione dei tempi” venga considerata un tema prioritario, inducendo un’organizzazione del lavoro e della società, tarata su un “addetto tipo” che dispone di una donna a casa che si occupa di tutto il resto (sia essa la compagna, la moglie, la mamma o la suocera).
Oggi possiamo votare, ci sono riconosciuti diritti umani al pari degli uomini, abbiamo convenzioni importanti che ci tutelano, godiamo di maggiori libertà; ma dobbiamo calare quanto raggiunto sulla carta nella vita reale, nei linguaggi, nei pensieri e nelle azioni. Faticoso e difficile, ma non impossibile.
La strada da percorrere per una reale uguaglianza tra i sessi è ancora lunga e richiede numerosi cambiamenti nella mentalità e nelle azioni. Esige un programma di interventi che dovrebbero essere studiati per le donne, ma soprattutto proposti e sostenuti da tutti, uomini e donne, semplici cittadini, istituzioni, sindacati e associazioni, perché le conquiste e i risultati saranno un beneficio per tutta la collettività.
Per continuare ad alimentare la democrazia, in Italia come altrove, per rinnovare lo sviluppo della società europea e mondiale, le donne devono essere riconosciute come soggetti attivi e protagoniste del cambiamento sociale. Il cammino iniziato tanti anni fa non è ancora concluso. Continuiamolo insieme per contrastare timori e pregiudizi e per costruire una società paritaria, inclusiva, ricca di cultura e umanità.
Una mobilitazione unitaria il 9 giugno in piazza Montecitorio.
Lo scorso 20 maggio è stato sottoscritto un Patto per rilanciare il sistema scolastico nazionale, con le firme da una parte del ministro dell’Istruzione, su delega del presidente del Consiglio, e dall’altra dei segretari confederali di Cgil Cisl e Uil. Obiettivo del Patto è di intervenire organicamente sulla scuola, per rilanciare il Paese verso un nuovo modello di sviluppo (dopo la grave crisi causata dalla pandemia), promuovere le nuove generazioni e valorizzare il lavoro scolastico.
La gestazione del Patto è stata molto lunga, in quanto le trattative hanno preso l’avvio all’indomani della sottoscrizione tra governo e sindacati di un altro accordo, quello del 10 marzo sul lavoro pubblico. Questo ultimo accordo, pur contenendo impegni che riguardano l’insieme della Pubblica amministrazione, non poteva affrontare aspetti peculiari del sistema scolastico, e pertanto ha richiesto la definizione di uno specifico Patto di settore.
La difficoltà a chiudere l’accordo è dipesa dall’esigenza di stringere il governo su impegni politici e sindacali che avessero una ricaduta concreta e un valore generale per l’intero Paese, comportando con ciò, in alcuni casi, anche l’assunzione di impegni onerosi aggiuntivi.
Uno degli impegni di maggior rilievo contenuti nel Patto è quello di garantire una ripresa delle attività scolastiche a settembre che assicuri fin dal primo giorno non solo generali condizioni di sicurezza per chi frequenta le aule scolastiche, ma anche che ogni posto di lavoro sia occupato da un lavoratore a tempo indeterminato. Questo perché negli ultimi anni l’incidenza del precariato - tra personale docente e personale tecnico e amministrativo - ha superato, di molto, la soglia delle 100mila unità, comportando con ciò non solo condizioni di insicurezza lavorativa per i tanti supplenti, ma anche conseguenze negative per la continuità e qualità del servizio offerto. Con l’accordo siglato ora c’è l’impegno a stabilizzare entro l’estate il personale precario mediante una procedura urgente e transitoria e, in prospettiva, a indire regolari concorsi per non alimentare più il precariato.
Altro punto importante del Patto è l’impegno a prevedere, con il prossimo rinnovo del contratto, “efficaci politiche salariali per la valorizzazione del personale scolastico”. Val la pena ricordare che il Ccnl è scaduto ormai da oltre due anni, e che le risorse stanziate in legge di bilancio sono al di sotto delle necessità di una categoria che, di fronte all’emergenza sanitaria e senza mezzi adeguati, si è fatta carico di garantire a tutti gli studenti, in presenza o a distanza, la continuità del diritto all’istruzione. Gli ultimi governi che si sono avvicendati hanno sempre assicurato aumenti stipendiali almeno “a tre cifre”, senonché le risorse effettivamente stanziate garantiscono per docenti e Ata della scuola aumenti medi ben al di sotto delle promesse fatte. Ora con il Patto il governo si assume la responsabilità di rispondere a un’aspettativa molto sentita, in una categoria i cui stipendi sono tra i più bassi non solo rispetto agli omologhi europei, ma anche tra i lavoratori pubblici italiani.
Molti altri sono i punti di interesse contenuti nell’accordo, dalla questione del numero degli alunni per classe, agli organici, ecc. Trattandosi di un Patto politico, è però evidente che rappresenta solo un punto di partenza, che occorrerà attentamente presidiare e monitorare perché sia rispettato ed applicato. Cosa per niente scontata, considerando la varietà della maggioranza parlamentare che sostiene questo governo, che non solo può mettere in discussione le singole scelte riguardo la scuola ma addirittura può compromettere la tenuta stessa del governo.
Il rischio è che possa venir meno il consenso politico necessario a trasformare gli impegni assunti in scelte conseguenti. E purtroppo le prime decisioni definite con il decreto legge “Sostegni bis” in materia di scuola già contrastano con quanto concordato, evidenziando così tutti i limiti di un governo incapace di imprimere il necessario cambiamento per il riconoscimento dei diritti sociali e universali a partire dall’istruzione. Ciò comporta che il sindacato sia chiamato a mobilitarsi, nell’interesse generale e per rivendicare il rispetto degli impegni sottoscritti dallo stesso governo.
Con questo obiettivo, una prima manifestazione di tutti i sindacati di categoria è stata indetta per il 9 giugno a Roma, in piazza Montecitorio.
L’emergenza Covid, col suo drammatico numero di vittime, ricoveri e drammi economici per milioni di lavoratori dipendenti e non, ha comunque permesso, nel senso comune (devastato per anni da ideologici luoghi comuni del tipo “privato è bello” o “lavoratori pubblici=fannulloni”) un parziale cambio di mentalità sulla decisiva importanza del lavoro pubblico, e in particolare sul personale medico, infermieristico e della sanità in generale. Nei momenti più cruciali della pandemia ancora in corso, questi lavoratori e queste lavoratrici hanno visto riconosciuto in giusta misura quello che è il loro contributo quotidiano al vivere civile. Sui media radiotelevisivi, sul web e sulla carta stampata, il termine più ricorrente per il personale sanitario è stato quello di “eroi”.
Peccato che ai riconoscimenti verbali, non corrispondano spesso quelli più pragmaticamente economici. E stiamo parlando di semplice, sacrosanto pagamento del lavoro effettivamente svolto. Già a fine marzo scorso i lavoratori e le lavoratrici dell’ospedale S. Giovanni-Addolorata avevano dovuto proclamare uno sciopero per il 31 marzo per vedersi riconosciuto il pagamento del salario e degli straordinari Covid svolti nell’emergenza. Oggi tocca a quelle e quelli del Sant’Andrea, altro nosocomio pubblico, pietra centrale del Servizio sanitario pubblico del quadrante di Roma nord e dei comuni limitrofi.
Nonostante accordi precedenti, che hanno comunque consentito l’aumento del personale addetto, mancano i soldi per pagare le ore di straordinario già effettuate, e i sindacati confederali di categoria, dopo un tentativo di conciliazione in Prefettura, pur apprezzando la volontà dell’azienda sanitaria di venire incontro alla legittima richiesta degli operatori, hanno comprensibilmente rifiutato la mediazione proposta, che prevedeva di utilizzare i fondi della produttività per il pagamento degli straordinari. In pratica i lavoratori e le lavoratrici avrebbero dovuto pagarsi quelle prestazioni che a lungo li hanno visti lavorare intere giornate in ospedale, lontano dalle proprie famiglie e affetti, in un momento così critico per tutti, con i loro stessi soldi!
Per il 22 giugno prossimo Fp Cgil, Fp Cisl e Fpl Uil di Roma e Lazio hanno quindi indetto uno sciopero per tutto il personale dell’ospedale Sant’Andrea. “Quella che si sta giocando ai danni dei lavoratori è una beffa inaccettabile”, attaccano i responsabili territoriali di categoria Massimiliano De Luca, Giovanni Fusco e Igino Rocchi. “In questi mesi al personale è stato chiesto di moltiplicare gli sforzi e di mettere a rischio la propria vita per garantire servizi, cure e assistenza a tutti i cittadini. E invece di essere sostenuti e riconosciuti nel loro impegno e sacrificio, vengono privati della giusta retribuzione. Non accetteremo che venga sottratto un solo euro. Tanto più visto che, proprio per i maggiori carichi dovuti al Covid, sono state definite premialità aggiuntive negli accordi dei mesi scorsi. La Regione deve rispettare i patti e consentire all’azienda di provvedere subito ai pagamenti”.
La palla passa ora alla Regione Lazio, che deve mettere immediatamente i soldi necessari a consentire il pagamento di straordinari e produttività. Soldi rispetto ai quali si è impegnata formalmente. I segretari generali delle tre categorie Cenciarelli, Chierchia e Bernardini, intimando alla Regione il rispetto dell’accordo precedentemente firmato ad aprile scorso, concludono: “La risposta a questa fase dell’emergenza pandemica non può limitarsi a organizzare e pubblicizzare la campagna vaccinale, perché se questa sta funzionando è merito soprattutto di operatori che stanno dando il massimo, anche oltre le loro forze. Quegli stessi operatori a cui va dato riscontro, rispetto ai diritti e al riconoscimento economico. E che certo non possono pagare il prezzo del mancato rispetto degli accordi. I patti si rispettano. Se non avremo risposte, il 22 giugno sarà sciopero, e porteremo la nostra protesta fin sotto la sede dell’amministrazione regionale”