- Redazione
- 2021
- Numero 10 - 2021
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Il 3 maggio Luana D’Orazio, ventiduenne madre di un figlio di 5 anni, è morta sul lavoro in un’azienda tessile della zona di Prato, il corpo straziato da un orditoio. Due mesi prima, in un’azienda tessile di Montale, il coetaneo Sabri Jaballah era morto schiacciato da una pressa. Pochi giorni dopo Luana, Christian Martinelli, 49 anni, operaio metalmeccanico, è morto schiacciato da un tornio a Busto Arsizio; Maurizio Gritti, 46 anni, edile, è morto schiacciato da un peso caduto dall’alto in un cantiere di Pagazzano (BG); a Sorbolo nel parmense un altro operaio, Andrea Recchia di 37 anni, è morto schiacciato da un carico di mangime di 14 quintali; Mario Tracinà è morto per la caduta da 30 metri in un cantiere autostradale in Molise; un altro operaio edile, Marco Oldrati, 52 anni, è morto cadendo dall’alto a Tradate nel varesotto; nell’esplosione in un’azienda che produce cannabis a Gubbio hanno perso la vita Samuel Cuffaro, di appena 19 anni, e Elisabetta D’Innocenti, di 52 anni.
Un tragico bollettino che si allunga quotidianamente con i nomi di due o tre lavoratori, la media giornaliera di omicidi sul lavoro. Uomini e donne di cui nessuno parla, di cui spesso non si conosce nemmeno il nome o l’età, tale è l’indifferenza dei media e dell’opinione pubblica. Per non dire delle autorità preposte.
Nel 2020 ci sono stati 1270 morti sul lavoro, una parte significativa – medici, personale sanitario, ausiliari, ma non solo – a causa del Covid. Vittime di una strage quotidiana e silenziosa che non si si vuole colpevolmente fermare. La novità terribile è che gli ultimi morti sono giovanissimi, le persone più indifese, spesso senza formazione, ricattate e con contratti precari.
Non bisogna parlare di morte “bianca”, perché evoca che non ci sarebbero colpe e colpevoli. Si tratta di morti rosse di colpe, di mancate prevenzioni, di misure di sicurezza non attivate, di precarietà e ritmi insostenibili, di vergogna e di rabbia.
La retorica indignazione della politica non è più accettabile: chiacchiere, promesse, con un richiamo oggi alle risorse, su questo inesistenti, del Recovery Plan, una coperta comoda come alibi, ma troppo corta per curare i mali e le ingiustizie del Paese.
Per decenni, governo dopo governo, i piani per la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro sono rimasti nei cassetti, mentre si tagliavano risorse, sedi e personale agli organi ispettivi pubblici, e svanivano quella medicina del lavoro, quelle campagne di prevenzione, frutto delle conquiste degli anni ‘70. Gli ispettori non sono più di 1.550, la maggior parte negli uffici. Il personale specializzato che svolge ispezioni su salute e sicurezza è ridotto a circa 220 persone, in un paese con oltre quattro milioni di aziende.
Intanto si cerca di eliminare o svuotare qualsiasi regola, legge o strumento che possa condizionare la ripresa e disturbare l’impresa, lo svolgimento dell’attività produttiva. A qualsiasi prezzo. Mentre investiamo in digitalizzazione, innovazione, industria 4.0, si continua a morire come cinquanta anni fa. Anzi, le app e gli algoritmi - il moderno cottimo - mettono a repentaglio la vita dei nuovi schiavi, come i rider. Oggi come ieri si può morire di fatica, come accaduto a Paola Clemente, 49 anni, bracciante, deceduta in un vigneto di Andria il 13 giugno 2015.
Gli strumenti per la prevenzione e la formazione non mancano. Il punto è un altro: le imprese non applicano le leggi e le norme e non danno riconoscimento e spazio ai Rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza. E il pericolo principale sta nell’organizzazione e nei ritmi di lavoro, e nella precarietà dei lavoratori. È ora di denunciare la correlazione tra infortuni e sistema degli appalti e sub-appalti. Bisogna intervenire sui cicli produttivi, sui tempi sempre più pressanti, sui carichi di lavoro sempre più pesanti, agire sulle retribuzioni e sulla precarietà sempre più diffusa, lottare per un lavoro di qualità, stabile, ben pagato.
Se oggi c’è più consapevolezza del rischio e più formazione, il pericolo sta nella pretesa di più produttività, per essere più competitivi sul mercato, rendendo più “snella” e “flessibile”, senza diritti e tutele l’occupazione, e incrementando i ritmi.
Siamo chiamati ad agire con più forza e determinazione. Numerose sono state le mobilitazioni e gli scioperi territoriali in questi giorni. Nell’assemblea del 12 maggio il sindacato confederale ha lanciato la giornata di assemblee del 20 maggio (anniversario dello Statuto dei Lavoratori), e la settimana di mobilitazione di fine maggio. Si apre formalmente una vertenza con il governo, dopo il primo incontro con i ministri di Lavoro e Salute. Lo Stato dia un segnale forte contro rassegnazione e complicità verso un massacro indegno di un paese civile. Servono risorse pubbliche adeguate per prevenzione e controlli, e un forte rilancio della mobilitazione e della contrattazione nei luoghi di lavoro su processi produttivi, orari di lavoro e condizione lavorativa.
Sono rappresentante dei lavoratori per la sicurezza territoriale nel territorio di Prato e provincia, nel settore dell’artigianato. Lo sono da tre anni, ma da una vita (e per vita intendo anche l’esperienza di figlia di operai oltre che come studiosa e sindacalista) ho a cuore, studio, mi impegno sul tema di salute e sicurezza. Ho sulle spalle studi e anni di ricerca sociologica che mi permettono di guardare e analizzare un po’ il manifatturiero di Prato, l’humus, il contesto nel quale ha perso la vita Luana D’Orazio, l’operaia tessile di 22 anni rimasta intrappolata e stritolata nel subbio dell’ordito.
Un tempo, del tessuto produttivo tessile pratese se ne sottolineava l’operosità, la flessibilità da terzisti di rispondere alla richiesta del committente in tempi rapidi, i rapporti stretti fra operai e padroni, con gli operai che dopo le innumerevoli ore di fatica sognavano di diventare padroni, il grigio diffuso ma sostanzialmente socialmente accettato perché la torta da spartire era larga e c’era di che campare, piccole e piccolissime imprese a conduzione familiare che inventavano processi e macchinari, portando l’orgoglio pratese in tutto il mondo. Prato ha avuto la sua età dell’oro, poi la crisi, poi le trasformazioni della globalizzazione e il ricatto di qualche altra parte del mondo che fa prezzi più bassi, le colpe facili da dare ai cinesi, infine la pandemia.
Ora chi lavora deve rimediare al tempo perso, deve andare più veloce, farsi corpo ancora più flessibile e adattabile e non si deve lamentare; lavoratrici e lavoratori quotidianamente devono sostituire le assenze per quarantene e contagi. Prato è difatti la peggiore provincia per contagi, come ha confermato la Asl. Tutto questo contesto non salva le vite, anzi soffoca le richieste di prevenzione. Come già ho avuto modo di scrivere, salvano, a Prato come in tutto il paese, le protezioni, l’investimento in tecnologie (perché si investe solo sulle app per sfruttare e molto meno su macchinari, procedure e protezioni?), la formazione seria e non il mercato nero degli attestati, i contratti stabili e senza monetizzazione del rischio, lo studio di filiera e di territorio, lo studio dei lavoratori come cittadini e poi come lavoratori, l’addestramento e il passaggio di consegne di conoscenza delle maestranze, il coinvolgimento dei lavoratori e delle loro rappresentanze nella valutazione dei rischi e nel fare prevenzione.
Fra gli anni ‘60 e ’70, se abbiamo conquistato lo Statuto dei lavoratori e il Sistema sanitario nazionale, lo abbiamo dovuto alle lotte del movimento operaio e a una stretta collaborazione con tecnici, medici, studiosi. Una sinergia che ha saputo fare rete e fare forza. Oggi tutto è frammentato e ognuno guarda al proprio pezzettino, si muove in un magma cercando di salvaguardare se stesso e sempre di più si disperde un patrimonio di relazioni e conoscenza intorno al lavoro e alla salute e sicurezza. Enti pubblici, procure, istituzioni, organi di vigilanza, medicina del lavoro e sindacati sono strutturati più su gerarchie, burocrazie e rigidità che non sul patrimonio di conoscenza e sulla capacità di metterlo in rete. Bisogna non disperdere e riprodurre conoscenza.
Leggiamo spesso dai comunicati sindacali parole di sdegno, di sgomento, di rabbia per le morti sul lavoro. Siamo molto bravi a individuare le mancanze di altri, ma occorre farlo anche all’interno della nostra organizzazione.
Cosa possiamo fare noi? Migliorare e studiare e organizzarsi in maniera più efficace. Gli Rls in questo ci danno la linea: sono figure obbligatorie e formate. Bisogna rafforzarli in strumenti e conoscenza e bisogna creare, diffondere e sviluppare i coordinamenti sia territoriali che di settore. Occorre che il Testo unico per la salute e sicurezza sia patrimonio (almeno nella conoscenza base e generale) di ogni funzionaria e funzionario, e strutturare i dipartimenti non tanto su gerarchie e registri di presenze, ma come conoscenza da cui attingere.
Non abbiamo bisogno di innumerevoli inoltri dei soliti documenti, ma di chi li spieghi e ci aiuti a trovare strumenti e confronti per applicarli, diffondere e condividere buone pratiche abbattendo gelosie o primati di categorie e realtà. Occorre programmare e spendere le risorse su salute e sicurezza e formazione da ogni ente bilaterale, occorre lottare ovunque e non abbassare la guardia sull’applicazione delle norme, occorre che si facciano le verifiche sui programmi che ci diamo ad ogni congresso: quante volte sentiamo parlare di Rls di sito, di filiera e Rlst, e poi quante esperienze concretamente realizzate? Occorre fare rete con chi ci crede in enti, istituzioni, associazioni di familiari di morti sul lavoro, singoli che si impegnano, esperti di comunicazione: sì, abbiamo bisogno di tutti, e non dobbiamo temere né il confronto né l’apertura. Si impara sempre, e la prevenzione è un lavoro più collettivo di altri.
La videoconferenza organizzata da Lavoro Società l’11 maggio scorso.
Circa centocinquanta compagne e compagni hanno partecipato, lo scorso 11 maggio, alla videoconferenza promossa da Lavoro Società per una Cgil unita e plurale su: “Next Generation Eu: occasione da non perdere. Quali politiche e quali risorse per un cambiamento radicale”.
Presieduta e moderata dal segretario lombardo Massimo Balzarini, la conferenza on line, a partire dalla esaustiva introduzione di Giacinto Botti, referente nazionale di Lavoro Società (https://www.sinistrasindacale.it/index.php/documenti/1982-introduzione-di-giacinto-botti-alla-videoconferenza-next-generation-eu-occasione-da-non-perdere-quali-politiche-e-quali-risorse-per-un-cambiamento-radicale), voleva dare una lettura critica, un giudizio politico complessivo e indicazioni di lavoro sindacale sul Piano di ripresa e resilienza inviato dal governo alla Commissione europea.
Il ricchissimo confronto si è basato sui contributi di Monica Di Sisto, vicepresidente di Fairwatch, tra gli animatori della Società della Cura e del Recovery PlanET, dell’economista e giornalista Andrea Di Stefano, del segretario della Cgil Toscana, Maurizio Brotini, e della vicesegretaria nazionale della Cgil, Gianna Fracassi. Con loro hanno interloquito, con brevi interventi, Giovanna Lo Zopone, segretaria della Fp Toscana, Federico Antonelli, coordinatore nazionale di LS della Filcams, Vasco Cajarelli del direttivo della Cgil Umbria, Aurora Ferraro dello Spi Marche e Gabriele Giannini della Flc nazionale.
E’ difficile riassumere in poco spazio la ricchezza di un confronto su un tema già di per sé così vasto e complesso, ma, scusandoci da subito per le tante omissioni, cerchiamo di individuare alcuni fili conduttori.
Un primo tema sottolineato da tutti è quello dell’assenza di un percorso democratico nella definizione di un piano che, nel bene e nel male, influirà significativamente nel Paese per un lungo periodo, non solo per la ingente mole di finanziamenti. “Un vulnus democratico”, l’ha definito Brotini, per come anche il Parlamento è stato esautorato e la definizione del testo inviato a Bruxelles sia avvenuta nel rapporto tra Draghi e la tecnocrazia europea.
Di mancanza di trasparenza ha parlato Di Stefano: il Parlamento ha votato un testo che non è quello poi inviato alla Commissione, né ha visto la mole (2.487 pagine complessive) delle schede tecniche che costituiscono i veri progetti da finanziare. Del resto – ha ricordato Fracassi – nelle audizioni parlamentari avevamo sottolineato che si discuteva sul testo, superato, del Conte II. E il vulnus democratico ha impedito allo stesso sindacato di avere un confronto e un negoziato di merito. La richiesta di un coinvolgimento, da sancire anche nel decreto sulla “governance”, deriva dalla chiara consapevolezza – ribadita anche nel documento conclusivo dell’assemblea generale della Cgil del 10 maggio – che “non si cambia il Paese senza e contro il mondo del lavoro”.
Anche Monica Di Sisto ha denunciato la mancanza di confronto democratico, contrapponendo il percorso partecipato della vasta rete di associazioni della Società della Cura, nata nel picnic di Villa Pamphili, quando Conte aveva escluso molta della società civile dai suoi “stati generali”. Da allora in decine di incontri – seppur virtuali – centinaia di attivisti hanno costruito il piano alternativo del Recovery PlanET.
Altro filo conduttore è quello della “visione” del piano. Botti ha proposto una discussione non tecnicistica, convinto che “il nostro giudizio debba essere di ordine generale confederale”. E se Di Stefano ha parlato di un piano “privo di visione”, di “destrutturazione” del Pnrr (già nella versione di Conte e ancor più in quella di Draghi) negli altri interventi il giudizio è stato ancora più netto. Si tratta di un piano in continuità con una visione liberista e di mercato, sia per quello che c’è, sia per quello che manca.
Per Botti, Brotini e Fracassi manca innanzitutto il ruolo del lavoro e la risposta che il piano deve dare all’occupazione stabile e di qualità, al superamento della precarietà e della frammentazione del mondo del lavoro. Gli obiettivi occupazionali a fine piano (2026) sono troppo limitati, nemmeno recuperano i posti di lavoro già persi con la pandemia. La creazione di lavoro, anche se indicata come uno dei parametri “trasversali” ai progetti, non è condizione vincolante degli investimenti e degli ingenti incentivi alle imprese. Manca – nella già limitata “missione” sulla sanità – qualsiasi investimento su salute e sicurezza sul lavoro, tema ripreso con forza anche da Cajarelli, alla vigilia dello sciopero generale in Umbria per l’ennesima strage sul lavoro a Gubbio.
Ancora, il ruolo dello Stato c’è, ma è ancillare all’impresa e al mercato. Questo getta particolare preoccupazione sulle numerose riforme annunciate (e su quelle mancanti, come le pensioni). Tutti gli interventi lo sottolineano, a partire dalla riforma della Pubblica amministrazione che, come ricorda anche Lo Zopone, è piegata alla competitività e alla concorrenza tra pubblico e privato, con lo Stato al servizio del privato, mentre si intravede un ulteriore depotenziamento del pubblico, a partire dal tema dei controlli, così importante, di nuovo, per la salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Lo stesso accade per la scuola e la ricerca, come sottolinea Giannini.
Preoccupante – lo denuncia la relazione di Botti, e poi ancora Fracassi e Antonelli – la prefigurazione, sotto specie di “semplificazione”, di una disarticolazione delle norme sugli appalti e la proposta della legge annuale sulla concorrenza che spinge verso una liberalizzazione e privatizzazione dei servizi pubblici locali, dai trasporti ai rifiuti all’acqua.
Sulla transizione ecologica non è nemmeno facile verificare – nota Di Stefano - se effettivamente vi è dedicato il 37% richiesto dall’Ue e confermato nelle dichiarazioni del governo. Vengono considerati in questo quadro progetti di dubbia coerenza per risparmio energetico e rispetto dell’ambiente. Di Sisto ricorda che sulla biodiversità, significativa nel nostro paese, si investe solo lo 0,8%, solo l’1,3% sul dissesto idrogeologico, l’1% sull’economia circolare, che pur rappresenta un settore in importante sviluppo in Italia, e che si sono ridotte del 3%, rispetto al piano Conte, le risorse per le energie rinnovabili. Contraddizioni sottolineate anche da Fracassi, che insiste sulla principale carenza in questa “missione”: la mancanza di investimenti in una filiera industriale che sostenga la transizione ecologica, non limitabile certo al tema dei rifiuti.
Insufficienti vengono giudicati i capitoli dedicati alla coesione sociale e alla sanità. Per quest’ultima, tutti notano la riduzione di investimenti rispetto al piano Conte, ma soprattutto rispetto ai reali bisogni e ai tagli degli ultimi 10-15 anni. Aggravato, il tutto, da quanto ha rilevato Botti: il Def prevede un nuovo calo della spesa sanitaria sul Pil dopo il 2024! Al contrario, per tutti, sui pur insufficienti investimenti sociali servirà un piano di assunzioni pubbliche che andrà conquistato nella legislazione ordinaria e nella spesa corrente.
Di Stefano richiama il tema della necessaria riforma del sistema: la pandemia ha reso quantomai evidente il fallimento della regionalizzazione e del modello privatistico alla Formigoni, ripreso da molte Regioni, anche “rosse”. Al contrario bisogna ritornare ad una gestione pubblica nazionale e universale, non delegando alla sussidiarietà e al terzo settore (Botti). Aurora Ferraro coglie le opportunità del Pnrr sulla non autosufficienza, ma si chiede se ci saranno le condizioni politiche per arrivare finalmente ad una legge. Comunque, il Pnrr non affronta come dovrebbe il tema dell’invecchiamento della popolazione, c’è troppo poco sulla domiciliarità e ancor meno sulla “riforma” delle Rsa.
Il Pnrr è comunque un’occasione irripetibile e da non perdere. Fracassi sottolinea che si tratta di ingenti risorse a cui bisogna guardare nel loro complesso: non solo i fondi del Ngeu e il fondo complementare italiano, ma anche i fondi europei ordinari. Risorse mai viste prima, così concentrate in un breve lasso di tempo. Ma – nota a sua volta Brotini – in Europa significativamente inferiori per quantità e qualità da quanto deciso negli Usa da Biden; per l’Italia una parte del Pnrr è costituito da investimenti già preventivati e, per quanto a interessi convenienti, la parte più consistente sempre a debito. Il che richiama la questione del fisco: “riforma” annunciata nel Pnrr senza che se ne specifichino i contorni, ma che per tutti gli intervenuti significa progressività, tassazione della ricchezza, funzione redistributiva, lotta all’evasione ed elusione. Se l’approfondimento continuerà, non si sarà trattato di una discussione accademica.
Il tema della vertenzialità e delle alleanze sociali ha percorso tutto il dibattito, dalla relazione, agli interventi. Monica Di Sisto lo ha posto subito con forza sul tavolo, chiedendo esplicitamente alla Cgil di fare da coagulo a un vasto schieramento sindacale e associativo che sappia incidere su contenuti e gestione del piano. Un “accumulo di forze nella società” (Brotini) ben raccolto da Fracassi, che ha confermato l’impegno della Cgil in questa direzione, già testimoniato dall’avvio, a inizio aprile, di un confronto con molte associazioni.
Un’occasione da non perdere dunque, anche e soprattutto per la Cgil e il sindacato. Confermando la natura vertenziale dell’approccio al piano e al confronto col governo. Sono molti gli obiettivi da conquistare, dentro e oltre il piano: una visione alternativa del modello di sviluppo e del ruolo dello Stato in economia; un piano nazionale di piena e buona occupazione, a partire dalla Pa; stringente condizionalità degli investimenti e degli incentivi alla creazione di lavoro stabile per donne, giovani, nel Sud, e al pieno rispetto delle norme di salute e sicurezza; conferma del codice degli appalti; potenziamento dei servizi pubblici locali contro liberalizzazioni e privatizzazioni; riforma fiscale progressiva e tassazione della ricchezza; blocco dei licenziamenti e ammortizzatori sociali universali; riforma delle pensioni e superamento della Fornero; potenziamento di assistenza e sanità pubblica, superando la regionalizzazione dei servizi e dei diritti. Il tutto sostenuto dalle adeguate mobilitazioni.
Con la video-assemblea del 4 maggio scorso, cui hanno partecipato i segretari generali Landini, Sbarra e Bombardieri, Cgil Cisl e Uil hanno voluto rilanciare la vertenza sulle pensioni. Un tema, questo, assente dalle politiche e dalle risorse stanziate con il Pnrr. Anzi, a ben vedere, minacciosamente presente nelle premesse del Piano e nelle “riforme” invocate dalla Commissione europea che, nelle sue raccomandazioni all’Italia del 2019, evocava un ritorno alla “riforma” Fornero di fronte all’introduzione temporanea – triennale – di “quota 100”. Nella consueta logica di valutare il sistema pensionistico solo in funzione della sua sostenibilità finanziaria, senza mai alcun riferimento alla sostenibilità sociale e ai diritti di lavoratrici e lavoratori e pensionate e pensionati.
Come previsto, con la fine dell’anno “quota 100” verrà meno e – tanto più di fronte alle pesanti conseguenze sociali della pandemia e della fine del blocco dei licenziamenti – è impensabile ritornare al pensionamento a 67 anni per tutti. Si sta riavviando un tavolo di confronto con il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, ma le intenzioni del governo, ad usare un eufemismo, non sono affatto chiare. Al contrario della piattaforma unitaria, presentata già da tempo.
Per Cgil, Cisl e Uil le pensioni vanno riformate in modo strutturale, per superare i tanti vincoli e le tante iniquità presenti nel quadro legislativo. E il momento per farlo è adesso, perché quei problemi sono presenti da tempo e perché non si può in alcun modo tornare alla Fornero, tra le principali responsabili di quelle iniquità. Tra l’altro, come avevamo previsto e denunciato, “quota 100” non ha neppure dato i risultati annunciati dai suoi promotori, e c’è un notevole risparmio delle risorse messe a bilancio che ora possono e debbono essere utilizzate sempre in ambito previdenziale sulle proposte della piattaforma sindacale.
Il paradosso è che sui media è già partita la grancassa di commentatori ed “esperti” di vario orientamento, tutti concordi però nel proseguire nella logica di provvedimenti tampone (come “quota 102” o il semplice allargamento dell’Ape sociale), mentre per noi si tratta di delineare un nuovo quadro generale organico sulle pensioni. Una vera riforma. Su questo Cgil, Cisl e Uil vogliono risposte dal governo.
Per quanto riguarda l’“emergenza” e la fase di uscita – speriamo – dalla pandemia, fra le altre misure, dovranno essere riformati e resi più accessibili alcuni strumenti che permettono di affrontare le crisi senza farle pagare ai lavoratori, come i contratti di espansione e l’isopensione, che possono favorire le uscite anticipate di quanti sono più vicini alla pensione. Ma al di là di queste misure contingenti, dobbiamo traguardare un sistema più equo di previdenza pubblica.
Per far questo è necessario prima di tutto introdurre una flessibilità in uscita a partire dai 62 anni di età o con 41 anni di contributi a prescindere dall’età; riconoscere la diversa gravosità dei lavori e il lavoro di cura e delle donne; offrire una prospettiva previdenziale anche ai più giovani, e a chi fa lavori poveri o discontinui, attraverso l’introduzione di una pensione di garanzia. L’attuale mercato del lavoro precario e discontinuo rischia di creare un esercito di pensionati poveri, con migliaia di giovani e meno giovani – il contributivo puro vige per quanti hanno iniziato a lavorare dal 1996 - che non riescono a costruirsi un montante di contributi adeguato ad avere una pensione dignitosa. Allo stesso tempo, la piattaforma unitaria si basa su proposte precise a favore delle donne, che sono sempre le più penalizzate.
L’altro punto decisivo, ovviamente, riguarda la condizione di chi è già in pensione. È arrivato il momento di riparlare del valore reale delle pensioni, che sono andate progressivamente svalutandosi negli anni, con meccanismi certi di rivalutazione, l’allargamento della “quattordicesima” e l’allineamento della pressione fiscale al lavoro dipendente. Così come bisognerà dare concreta ed efficace attuazione alle aperture contenute nel Pnrr per una legge sulla non autosufficienza che sindacati dei pensionati e confederazioni richiedono da anni, di fronte ai crescenti bisogni di una popolazione in invecchiamento.
Più discutibile, nella piattaforma, la proposta di rilanciare la previdenza complementare attraverso un periodo di silenzio-assenso. Servirebbe un bilancio più articolato degli effettivi ostacoli all’adesione proprio dei soggetti ‘previdenzialmente’ più deboli, ancora una volta lavoratrici e lavoratori precari e con salari bassi, impossibilitati ad ulteriori forme di risparmio previdenziale.
Ora è fondamentale che si diano le necessarie gambe alla vertenza. Se, come giustamente sottolineato dai segretari generali, “il tempo della riforma è adesso”, alle verifiche sulle reali disponibilità del governo, con un confronto stringente, dovranno affiancarsi le opportune iniziative di mobilitazione, a partire da una campagna di informazione nei luoghi di lavoro e nelle leghe dei pensionati.