Affogati nell’indifferenza - di Sinistra Sindacale

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L’ennesima strage di profughi annegati al largo della Libia grida vendetta per il criminale cinismo delle autorità libiche, italiane ed europee, e la vergognosa indifferenza di parte dell’opinione pubblica. Più di 130 tra uomini, donne e minori hanno lanciato drammatici appelli al soccorso per oltre 48 ore, mentre i governi si rimpallavano la responsabilità di intervenire, sotto l’occhio vigile quanto inerte di Frontex. L’Europa del Next Generation Eu e del “cambiamento” non sa proporre che respingimenti, esternalizzazione delle frontiere e, ora, rimpatri “volontari”.

Non può esserci nessun futuro per l’Unione se, dietro la retorica sui diritti umani – da far valere ad altri Stati con sanzioni e “guerre umanitarie” – si fa strame della vita di decine di migliaia di persone. Se si viola costantemente il diritto internazionale e quello del mare, fondato sull’obbligo del soccorso e salvataggio.

Dopo Mare Nostrum, affondata dal governo Renzi, le missioni europee e Frontex hanno operato non per soccorrere, ma per sigillare i confini dell’Unione. Pagando lautamente l’utile dittatore Erdogan, le milizie libiche (travestite da guardia costiera con l’accordo firmato nel 2017 dal ministro Marco Minniti), e altri regimi africani e mediorientali, per trattenere i migranti in veri e propri lager e campi di concentramento. Spendendo decine di miliardi per incarcerare e respingere, invece che per soccorrere e accogliere. E impedendo con ogni mezzo il soccorso umanitario delle Ong, che fanno azione di supplenza agli obblighi disattesi dagli Stati.

Sono state sciagurate le parole di ringraziamento di Mario Draghi nella sua visita in Libia, mentre molto dei decreti securitari di Salvini è ancora vigente. E non è accettabile che una delle principali economie mondiali, un’Ue con quasi 500 milioni di abitanti, non possa accogliere e includere dai 500mila a un milione di migranti all’anno, una o due persone ogni mille abitanti. In Paesi, per di più, dove la crisi demografica – Italia in testa – è destinata allo spopolamento di intere aree, all’invecchiamento della popolazione, alla sempre più difficile tenuta dell’economia e del welfare. Nei cinque, sei anni precedenti la pandemia, mentre la destra gridava all’invasione, nella nostra penisola si sono persi 1,4 milioni di residenti.

Diritti umani, diritto internazionale e futuro dell’Europa richiedono insieme una svolta radicale: corridoi umanitari e svuotamento dei lager libici, turchi, bosniaci; canali regolari di ingresso per ricerca lavoro; accordi con i Paesi mediterranei e africani per contingenti annuali di visti rilasciati nelle ambasciate locali degli Stati europei; regolarizzazione di tutti i presenti nel territorio nazionale e libera circolazione dei migranti tra le nazioni dell’Ue. In Italia va sbloccato immediatamente l’assurdo stallo nel rilascio dei permessi di soggiorno per le circa 200mila domande di regolarizzazione dello scorso anno.

Su tutto questo è quanto mai urgente alzare lo sguardo sul mondo, uscire dall’indifferenza e dal silenzio, e costruire una forte mobilitazione del sindacato italiano ed europeo. Della Cgil, in alleanza con il vasto fronte associativo che si batte per solidarietà, accoglienza e piena uguaglianza dei diritti.

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A sette anni dalla chiusura dell’altoforno per decisione governativa (“L’azienda era in perdita...”), gli operai superstiti delle Acciaierie e l’intera Piombino non hanno avuto alcunché da festeggiare, nemmeno per il Primo Maggio. All’iniziativa confederale unitaria organizzata all’ingresso dello stabilimento, lì dove da quasi due mesi c’è un presidio lavoratori, Riccardo Cerza della Cisl ha cercato di rincuorare gli operai: “La fabbrica deve tornare a produrre acciaio, con la presenza dello Stato dentro il capitale. Deve avere l’altoforno elettrico”.

Il dirigente sindacale non poteva dire altrimenti. Ma i 1.700 addetti diretti rimasti, quasi tutti in cig e con un indotto di altri 1.500 lavoratori ormai disintegrato, restano pessimisti. Perché i piani industriali della multinazionale siderurgica Jindal South West sono stati giudicati irricevibili perfino dal governo. Quello giallorosa di Giuseppe Conte, disposto a entrare nel capitale sociale con Invitalia ma a patto che Jindal desse il via a investimenti solo promessi. E quello “dei migliori” di Mario Draghi, che di fronte all’ultimo piano incentrato unicamente su sovvenzioni pubbliche, ha bollato Jindal come “inaffidabile”.

La soluzione, avvertono da anni, inascoltate, sia le organizzazioni sindacali che le forze sociali e politiche locali di sinistra (Prc, Camping Cig), può arrivare solo grazie a un intervento sistemico dello Stato, che tenga insieme rilancio della siderurgia come strumento strategico nazionale, potenziamento delle infrastrutture, e partenza definitiva delle opere di smantellamento e di bonifica. Ora anche la destra che governa la città con il sindaco Ferrari (Fdi) è arrivata alle stesse conclusioni. Intanto però lo stabilimento è fermo. E la lotta operaia - di un’intera città – è sempre più in salita. A causa della totale assenza, come ha sottolineato la Fiom Cgil con Francesca Re David, della politica nazionale.

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Pnrr: come prima, più di prima - di Giacinto Botti

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Di fronte ad un piano di continuità liberista, la Cgil e il sindacato confederale devono rilanciare la mobilitazione sulle loro proposte di radicale cambiamento. Per un nuovo modello basato su riconversione ecologica e pieni diritti sociali e del lavoro. 

Il corposo “Piano di ripresa e resilienza” che il “governo dei migliori” e delle larghe intese ha presentato in Parlamento, votato per presa d’atto dalla grande maggioranza dei rappresentanti del popolo, nasce con il limite di uno svuotamento, nei fatti, del potere legislativo e della democrazia parlamentare come sanciti dalla Costituzione.

Le ingenti risorse messe a disposizione dall’Unione europea, 248 miliardi (inclusa la quota aggiuntiva italiana) da impiegare nei prossimi sei anni, devono essere un’occasione per imprimere quel cambiamento radicale che la Cgil ha indicato nelle sue elaborazioni strategiche, dal Piano del Lavoro alla Carta dei Diritti, dal documento del 18° Congresso alle piattaforme unitarie.

Ora anche in Cgil c’è bisogno di un approfondimento, di un confronto ampio che coinvolga non solo i segretari generali ma il Comitato direttivo, l’Assemblea generale e tutto il gruppo dirigente diffuso, a partire dai delegati e dalle delegate, per elaborare un giudizio condiviso di ordine generale, rifuggendo settorialismi e corporativismi; ed è per dare un contributo a questo che Lavoro Società ha organizzato il confronto dell’11 maggio (vedi locandina in ultima pagina).

E’ fuor di dubbio che alcuni capitoli inseriti nel piano siano il frutto anche dell’iniziativa del sindacato, e che ci siano aspetti innovativi. Ma ci sono anche gravi omissioni, non casuali, su temi per noi centrali come il lavoro, i diritti universali, il salario minimo, la legge Fornero e la riforma delle pensioni e della previdenza, oggi resa più che mai necessaria dalla prossima conclusione di quota 100. La precarietà di vita e di lavoro, dovuta alla frammentazione del mercato del lavoro e a leggi come il jobs act.

Mancano sostanzialmente la politica industriale, la riqualificazione di un sistema produttivo arretrato che richiede investimenti pubblici e privati e l’esercizio di un ruolo dello Stato nell’economia sui settori strategici e i beni comuni. Manca l’impegno sulla legalità e il contrasto allo sfruttamento e allo schiavismo, sul dramma delle morti sul lavoro, sulla salute e la sicurezza.

Lo svuotamento del Codice degli appalti, una delle richieste degli industriali e della destra politica, lascia liberi l’economia e il mercato dai controlli, e dai quei cosiddetti “lacci e lacciuoli” ancora indicati come cause del declino del Paese. Intanto, come nella crisi del 2008, le imprese beneficeranno di una fetta consistente delle risorse, senza garanzie e condizionamenti sulla qualità del loro utilizzo.

La filosofia di fondo rimane quella liberista, di mercato e tecnocratica, priva del coraggio nell’affrontare la crisi del sistema di accumulazione capitalistico, nell’indicare un’economia diversa fondata sul cambiamento radicale di un modello di sviluppo e di consumo che sta portando alla rovina il pianeta.

L’approccio alla grave crisi strutturale, sanitaria, sociale ed economica, amplificata dalla pandemia, rimane figlio della cultura d’impresa e del profitto, per la quale solo la crescita e il mercato sarebbero in grado di risolvere i problemi del Paese. Ma la crescita in sé, senza uno sviluppo sociale equo, compatibile e indirizzato verso la qualità della vita e del lavoro, non produce alcun cambiamento ed è una falsa soluzione, come dimostrano i fallimenti del passato.

Il piano, che fa riferimento alle raccomandazioni dettate dalla Commissione europea nel 2019, prima della pandemia, è più rivolto alla modernizzazione e all’aggiustamento dell’esistente che non alla trasformazione del Paese.

Sulla sanità, l’istruzione e la ricerca pubblica, lasciate nello scorso ventennio senza risorse e dequalificate per scelta politica in favore del privato, le risorse sono fortemente insufficienti, mentre sul fronte della transizione ecologica e ambientale le contraddizioni e gli interessi in campo, pubblici e privati, rischiano di frenare le scelte in direzione dell’energia rinnovabile, della decarbonizzazione, del non utilizzo delle fonti fossili e del contenimento delle emissioni. I tempi sono stretti.

La concorrenza, anche tra il pubblico e il privato, nel settore dei servizi essenziali, resta e si rafforza come strumento decisivo per la ripresa, dentro una competizione dal valore mercantile.

Si accenna appena, in un Paese con un forte debito pubblico, a una riforma fiscale che per noi dovrebbe essere improntata non solo alla progressività e all’equità, con il recupero dell’evasione, ma anche alla redistribuzione della ricchezza con la tassazione sui grandi patrimoni e sui profitti delle multinazionali, come sta provando a fare il presidente statunitense Joe Biden.

Il presidente del consiglio ha parlato del “bene del Paese”, della “fiducia nel popolo” e di “ricostruzione”, citando De Gasperi, ma il popolo non è un’entità indistinta, bensì un insieme di interessi, di ceti, di classi, di donne e uomini con condizioni sociali e materiali e con bisogni differenti. Da una disoccupazione che riguarda in particolare le donne e i giovani e il Mezzogiorno. Il popolo italiano è segnato da forti diseguaglianze, prima di tutto tra ricchi e poveri e tra nord e sud, dall’impoverimento diffuso e dalla sofferenza che la pandemia ha ampliato e portato con sé.

Ora, dopo la presentazione di questo piano, dovrebbe essere chiaro perché determinate forze sociali e politiche hanno affossato il governo Conte II, con l’obiettivo di cancellare l’esperimento politico in corso con quella maggioranza, per sostituirlo con questo governo di unità nazionale, nel quale, come volevano, sta prevalendo l’egemonia della destra salviniana e di Confindustria, per le quali l’economia e il mercato sono più importanti della salute e della vita delle persone.

Solo un governo come questo, con la presenza di partiti socialmente e politicamente di destra che rispondono oggi e risponderanno domani al loro elettorato nella prossima competizione elettorale, avrebbe potuto produrre un piano di continuità liberista come questo. Sarà ancora più chiaro quando si tratterà di concretizzarlo, di “metterlo a terra” attraverso le leggi delega e i vari decreti, con l’obiettivo e il rischio di un ulteriore svuotamento della democrazia parlamentare, e del ruolo e della funzione sociale di rappresentanza del sindacato confederale.

La destra politica e sociale, gli interessi forti e le lobby sono in campo. Dobbiamo esserlo anche noi, con le necessarie mobilitazioni e azioni di lotta a sostegno delle nostre piattaforme. Come si uscirà da questa crisi dipenderà anche da noi, dalla Cgil e dal sindacato unitario confederale che, forte della sua rappresentatività e delle sue proposte, deve pretendere rispetto, deve conquistare con la mobilitazione un tavolo di reale confronto e di trattativa, oltre il perimetro di questo Pnrr, facendo pesare gli interessi generali della sua rappresentanza sociale.

La vecchia strada dei patti di “salvezza nazionale”, delle pratiche concertative neocorporative o di un riconoscimento istituzionale, dimostratasi fortemente penalizzante dei diritti e degli interessi del lavoro, oggi più che mai non è praticabile e ci allontana dalla nostra gente, dal mondo del lavoro.

Dobbiamo alzare lo sguardo, non perdere la nostra visione di Paese e di futuro, dare risposte, rappresentare bisogni e conquistare diritti universali, combattere le diseguaglianze e le precarietà di lavoro e di vita. Non possiamo rischiare di perdere credibilità, di mettere in discussione anche a livello di immagine la forza e l’autonomia del sindacato confederale. Di una Cgil che, forte delle sue radici, vive e si alimenta della contrattazione, di una democrazia plurale, e della partecipazione consapevole e militante dei suoi iscritti e delle sue iscritte. E che, nel mare burrascoso della crisi anche culturale e valoriale, continua ad avere come faro la nostra Costituzione repubblicana e antifascista.

Pnrr: quale politica industriale per il Mezzogiorno? - di Alfonso Marino

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Apochi giorni dall’invio a Bruxelles del documento, si sono svolti gli ultimi confronti per la stesura definitiva del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), con un passaggio in Parlamento il 26 e il 27 aprile. L’ultima versione del Pnrr, rispetto alle versioni preliminari, ha cercato di conciliare due esigenze opposte: allargare la fetta per gli investimenti pubblici, portandola al 70%, riducendo quella dedicata ai sussidi, ma senza sfondare le linee di deficit e debito di finanza pubblica.

Esiste un pericolo concreto per il sud: gli investimenti, anziché rafforzare, rischiano di indebolire il Mezzogiorno. L’assenza di programmazione da parte dello Stato può determinare una gestione degli investimenti non organica in termini di politica industriale, da tempo assente in Italia.

Il sud è tanti settori e aziende. Fra queste Fincantieri, ma qual è la sua missione produttiva? E quali sono le infrastrutture sulle quali puntare? Automotive: la Marelli ha spostato la produzione del motore elettrico in Germania, e la consolazione per la produzione del diesel, tecnologia quasi obsoleta, è minima se lo stabilimento di Pratola Serra non cambia traiettoria. Come si inseriscono Melfi e Pomigliano in questo percorso? Un confronto è possibile per legare investimenti pubblici e politica industriale nel mezzogiorno?

Passiamo al settore del bianco: i lavoratori della Whirpool come rientrano in questo piano? La soluzione è quella tipo Italcable di Casoria, workers buyout? Aerospazio civile, la concentrazione nel sud è interessante: Pomigliano, Nola, Foggia, Grottaglie, tutti stabilimenti che hanno necessità di individuare o consolidare le loro traiettorie di crescita. Non dimentico Termini Imerese, dopo dieci anni qual è la traiettoria di crescita? Alcuni di questi settori se producono conto terzi per Francia e Germania reggono, ma se valutiamo la tenuta dei settori che rispondono alla mobilità interna e all’automotive c’è il baratro.

Una politica industriale che individua la filiera tecnologica e le competenze sostenibili per le imprese localizzate nel sud Italia è urgente. Senza di essa i fondi possono determinare un moltiplicatore negativo, una deindustrializzazione ulteriore. Evitare questo moltiplicatore negativo è possibile, ma bisogna avere una politica industriale con investimenti pubblici e privati per il Mezzogiorno.

Questa è una breve e non completa rassegna dell’esistente che barcolla e resiste, poi c’è il nuovo che deve essere consolidato nei beni capitali nel tempo pandemico. Ne cito una tra le altre, la Lachifarma di Zollino, paesino del Salento, che produce prodotti di erboristeria e cosmetici ma come le altre ha investito e sposta la propria attività sui vaccini. Oppure Edilatte, che acquista scarti da utilizzare come materie prime per i suoi prodotti: pitture, intonaci, coloranti e additivi.

In questi settori come pensa di procedere il governo attraverso il Pnrr? La transizione verso un nuovo modello deve guardare all’esistente, esistente che esprime avanzate realtà industriali e leader di mercato. Una di queste è la Bionap di Belpasso, nel catanese: chilometro zero e riuso degli scarti, i pilastri dell’economia circolare.

Lo ripeto, è necessaria una politica industriale, oppure i soldi non bastano. La necessità è data anche nei settori con un “dibattito” continuo: nel turismo ad esempio, in relazione alle piccole e medie imprese che sono la spina dorsale nel Mezzogiorno, quali sono le ipotesi di innovazione del settore? Se poi il ruolo del governo attuale deve limitarsi alle opere pubbliche nel Mezzogiorno, con tutto il suo portato in termini di tempi di realizzazione e trasparenza, l’azione non segue le parole del governo, che afferma di realizzare un “ruolo nuovo del pubblico, in linea con il nuovo modello di sviluppo”.

Presentare un piano credibile non prescinde dagli errori del passato, dalle profonde assenze in materia di politica industriale dell’Italia, di cui il Mezzogiorno è parte. Le risorse, senza un piano che tiene conto dei settori, delle specifiche azioni da implementare, del ruolo dello Stato come regolatore e negoziatore, non reggono. Anzi creano ulteriori difficoltà, e possono determinare l’addensarsi di ulteriori, robuste asimmetrie di crescita.

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