Ospedale Treviso, pochi medici e infermieri contro il virus - di Frida Nacinovich

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L’anno che finirà sui libri di storia è stato particolarmente intenso per tutte e tutti coloro che, in un modo o nell’altro, lavorano nel sistema sanitario, sia esso pubblico o privato. Come uno tsunami, gli effetti del virus hanno investito gli ospedali ai quattro angoli del pianeta, onde altissime che si sono propagate in tutti i gangli del sistema, dai pronto soccorso ai medici di base. E certo, se c’è una lezione che è stata compresa dai cittadini è quella dell’importanza di presidi organizzati, capaci di dare risposte anche nell’emergenza.

“Eppure, dopo un anno, non siamo ancora adeguatamente attrezzati e abbiamo paura di questa terza ondata dei contagi”. Andrea Artuso è un infermiere, lavora nel principale ospedale di Treviso, il Ca’ Foncello, e si è trovato in prima linea in una battaglia che solo nella Marca trevigiana ha visto in dodici mesi 64mila contagiati e ben 1600 vittime. Numeri drammatici, dietro i quali si sono intrecciate le storie dei singoli e delle famiglie che risiedono nella città veneta. Una Treviso dove tutti conoscono tutti: “Non sai quanto è stato delicato, psicologicamente duro, lasciare nell’incertezza i familiari dei ricoverati. Ma il Covid è terribile, ha effetti difficilmente prevedibili su ogni singolo paziente. E allora non puoi neppure dare eccessive speranze a chi cerca di sapere da te se il nonno, lo zio, l’amico riuscirà a superare la fase critica”.

Un anno davvero drammatico, incancellabile dalla memoria collettiva, che però non sembra ancora aver insegnato molto a una burocrazia sanitaria, troppo spesso sorda al grido di allarme di chi si è trovato in prima linea. Artuso racconta come sia stata faticosa la quotidianità di un lavoro già di per sé delicato, che improvvisamente è diventato più intenso, sempre più intenso. “Non è una novità che i tagli di questi ultimi dieci, quindici anni al Sistema sanitario nazionale abbiano ridotto all’osso il personale. Così quando è esplosa la pandemia ci siamo trovati drammaticamente in pochi per rispondere alle esigenze della popolazione. Abbiamo fatto straordinari su straordinari, settimana dopo settimana, mese dopo mese. Saltato le ferie, i riposi, fino a dimenticarci tutto quello che non è il lavoro, con poche ore di sonno fra un turno e l’altro. Siamo allo stremo delle forze, abbiamo la nuova recrudescenza del virus, con un’organizzazione del lavoro e del personale che non è cambiata in meglio. Anzi”.

Devono essere i singoli lavoratori a mettere le toppe - con la loro esperienza e il loro senso di responsabilità - a un sistema che nei momenti di stress fa acqua da tutte parti. Per giunta devono lottare anche per farsi pagare le integrazioni allo stipendio già contrattate e sottoscritte. “Sono soldi che farebbero comodo, che ci siamo meritati, ai quali ne andrebbero sommati altri che, per ora, sono stati solo promessi”. Delegato sindacale per la Funzione pubblica Cgil, Artuso non si tira indietro per denunciare logiche aziendali che non tengono conto delle esigenze dei trevigiani e di chi al Ca’ Foncello ogni giorno lavora.

Per la Cgil il punto di non ritorno è stato rappresentato dall’organizzazione già in partenza deficitaria del presidio di Vittorio Veneto, destinato interamente a reparto Covid, ma privo di personale formato a gestire l’assistenza specifica richiesta. “Sarebbe stata sufficiente una formazione agile e mirata’ - spiega Artuso - doveva essere fatta a monte. Va avanti così da troppo tempo. Per intervenire nelle situazioni più delicate si chiede uno sforzo aggiuntivo al personale delle rianimazioni di Treviso e di Conegliano, rischiando di lasciare sguarniti i reparti di rianimazione da cui infermieri e medici vengono dirottati. La solita strategia alternativa che ricade quasi tutta sulle nostre spalle, ma che non può funzionare”. Sono state programmate nuove assunzioni, così come in tanti altri presidi ospedalieri, ma per mettere a regime il motore di un comparto così delicato come quello sanitario ci vuole tempo. E di tempo non ce ne è.

Trentasette anni, infermiere da dieci di terapia intensiva, Artuso non è sfuggito al virus, come tante sue colleghe e tanti suoi colleghi. “Sono stati per tutti periodi difficili da superare, qualcuno si è ammalato in forma lieve, ma c’è anche chi ha accusato sintomi importanti e dopo alcuni mesi porta ancora addosso i segni della malattia. Qui in Veneto abbiamo avuto un tasso di contagi fra gli operatori sanitari inferiore a quello di altre regioni, come ad esempio la Lombardia. Ma le carenze del sistema restano tutte”. Che succederà ora? Artuso è preoccupato perché bisognava organizzarsi prima, assumere, formare personale specializzato in vista della nuova ondata che tutti gli esperti avevano previsto. “Facciamo fatica, con la reperibilità siamo sempre sulle spine. Per un mese o due puoi farcela. Ma andiamo avanti così da più di un anno. Siamo davvero stanchi”.

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