Nel 2020 si sono persi 543mila posti di lavoro, cosa succederebbe se fosse rimosso parzialmente o totalmente il provvedimento?
Tra i lavoratori spesso circolano informazioni approssimative sul blocco dei licenziamenti introdotto dal governo Conte II e in scadenza al 31 marzo, salvo ulteriori proroghe. Le righe seguenti forniscono una infarinatura di base per poter valutare le conseguenze di una rimozione del divieto, o di interventi “selettivi” in materia.
Il blocco dei licenziamenti rappresenta uno dei primi e più importanti banchi di prova del governo Draghi. Non sono affatto rassicuranti le parole contenute nel suo discorso programmatico, che lasciano intendere la volontà di “proteggere” solo attività e lavoratori “produttivi”, e la riproposizione delle politiche di sostegno non “ai posti di lavoro” ma alla “occupabilità” dei lavoratori, con l’assegno di ricollocazione, cioè il licenziamento e un certo periodo di copertura della “mobilità”.
Ma com’è la situazione oggi? Prima del blocco dei licenziamenti (e se finisse il blocco, tornerebbe di nuovo, salvo nuovi interventi legislativi), un datore di lavoro aveva la possibilità di licenziare i lavoratori, rispettando una procedura di confronto che può concludersi anche senza accordo, e al termine della quale il datore è comunque libero di licenziare un numero di lavoratori pari al massimo degli esuberi dichiarati in procedura.
Per i licenziamenti degli assunti ante jobs act, il magistrato può intimare all’azienda il reintegro di un lavoratore se il suo licenziamento non ha corrisposto a complessi requisiti di selezione tra le maestranze a parità di qualifica e mansioni (questa è la molla che induce datori e imprese a ricercare un accordo, onde evitare il contenzioso); per gli assunti post jobs act, la legge stabilisce il limite massimo di risarcimento (due anni di retribuzione) in caso di errore, ma non obbliga al reintegro.
Già adesso, mentre vige “il blocco dei licenziamenti”, questo non è indifferenziato. Mentre rientrano nel blocco le procedure di licenziamento collettivo, i licenziamenti individuali o plurimi per giustificato motivo oggettivo, le procedure di conciliazione obbligatoria per i lavoratori in tutele reali (ante jobs act), la norma prevede il divieto di: 1) avviare le procedure di licenziamento collettivo, previste dagli articoli 4, 5 e 24, della legge 223/1991; 2) concludere eventuali procedure di licenziamento collettivo avviate dopo il 23 febbraio 2020; 3) procedere a licenziamenti individuali o plurimi per giustificato motivo oggettivo; 4) avviare procedure di conciliazione obbligatoria, previste dall’articolo 7 della legge 604/1966, per i lavoratori in tutele reali (ante jobs act).
Ma ci sono eccezioni al divieto di licenziamento in vigore fino al 31 marzo? Per quanto i licenziamenti indicati nei quattro punti summenzionati siano bloccati sino al 31 marzo 2021, il legislatore ha previsto la possibilità di procedere comunque alla risoluzione del rapporto di lavoro nelle seguenti ipotesi:
In caso di fallimento, qualora non sia previsto l’esercizio provvisorio dell’impresa, ovvero ne sia disposta la cessazione. Nel caso in cui l’esercizio provvisorio sia disposto per uno specifico ramo dell’azienda, sono esclusi dal divieto i licenziamenti riguardanti i settori non compresi nello stesso.
Cessazione definitiva dell’attività dell’impresa, conseguenti alla messa in liquidazione della società senza continuazione, anche parziale, dell’attività. Il licenziamento è legittimo ad eccezione del caso in cui durante la liquidazione non si configuri la cessione di un complesso di beni od attività che possano configurare un trasferimento d’azienda o di un ramo di essa.
Accordo collettivo aziendale, sottoscritto con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale. Le aziende per utilizzare l’accordo collettivo non devono usufruire degli ammortizzatori sociali. L’accordo collettivo non può essere applicato senza il consenso di ogni singolo lavoratore e prevede la monetizzazione contrattata del licenziamento.
Nel 2020 si sono persi 543mila posti di lavoro. Dato che nello stesso anno le persone uscite con ‘quota 100’ sono state 117.034 e 176.924 quelle andate a riposo con la pensione anticipata (con 42 anni e 10 mesi di contributi, 41 e 10 mesi se donna, e dopo aver atteso il periodo di finestra mobile), questo vuol dire che nessun pensionato è stato rimpiazzato da un lavoratore attivo e in più che quasi 250mila persone hanno perso il posto di lavoro, includendo nel salso negativo i posti persi da contratti a termine, stagionali, intermittenti e in somministrazione.
Dunque, parlare di “modulare” il blocco dei licenziamenti significa dare la stura all’espulsione di lavoratrici e lavoratori, visto che il blocco è già abbastanza elastico, e “abolire il blocco” significherebbe, in piena crisi, tornare al totale arbitrio padronale, temperato dall’obbligo del confronto con le parti sociali, con la conseguenza di centinaia di migliaia di licenziamenti.