Il 25 ottobre scorso si è spento, nella sua casa di Correggio, a 100 anni Germano Nicolini, noto comandante partigiano, accusato ingiustamente dell’omicidio di don Umberto Pessina e condannato a 22 anni di carcere, di cui 10 effettivamente scontati. Nicolini era nato a Fabbrico da una numerosa famiglia contadina cattolica, si diplomò in ragioneria e divenne ufficiale dell’esercito italiano. Fatto prigioniero l’8 settembre 1943 dai tedeschi nei pressi di Tivoli, riuscì a darsi alla fuga e a rientrare in Emilia, dove aderì alla Resistenza diventando comandante di battaglione; fu soprannominato “Diavolo” per una rocambolesca fuga dai tedeschi.
Durante la Resistenza partecipò a vari scontri a fuoco e a due storiche battaglie in campo aperto contro i nazifascisti. Dopo la liberazione venne nominato comandante della piazza di Correggio, dove si distinse per l’equilibrio impedendo anche tentativi di giustizia sommaria. Segretario dell’Anpi di Correggio nel primo dopoguerra, alle elezioni amministrative del 1946 fu eletto nel Consiglio comunale di Correggio nella lista del Pci, divenendo poco dopo sindaco.
Il 18 giugno 1946 nei pressi della chiesa di San Martino Piccolo, una frazione di Correggio, venne ucciso con due colpi di pistola don Umberto Pessina. Del delitto vennero accusati tre partigiani: Germano Nicolini, Ello Ferretti e Antonio Prodi, che vennero arrestati nel 1947. Decisiva fu la testimonianza di una donna, spinta a farlo dal parroco di Correggio con la promessa di una ricompensa.
I veri responsabili, anch’essi partigiani, nel gennaio 1948 dopo essere fuggiti in Jugoslavia confessarono spontaneamente il crimine, che commisero per errore avendo solo ricevuto il mandato di sorvegliare la canonica e riferire di quanto accadeva. Non furono però creduti, e vennero condannati per autocalunnia. Il testimone chiave dell’accusa a carico di Nicolini ammise successivamente che le dichiarazioni rese gli erano state estorte dai carabinieri sotto tortura. Le indagini condotte dal capitano dei carabinieri Pasquale Vesce erano ispirate dal fervore anticomunista e antipartigiano del vescovo Socche.
Il 27 febbraio 1949 la Corte d’assise di Perugia condannò Nicolini a 22 anni di carcere e alla perdita di ogni diritto civile e militare, come mandante di omicidio volontario premeditato; ne scontò effettivamente dieci. Il processo fu caratterizzato da diverse anomalie, evidenziate nel memoriale scritto da Nicolini nel 1993, significativamente intitolato “Nessuno vuole la verità”. Nel memoriale furono evidenziate sia la pesante influenza del vescovo Socche, sia le azioni del Partito comunista che Nicolini defini’ “lo stalinismo aberrante del Pci”.
Nel 1990 il caso venne riaperto a seguito di un convegno del Psi e di alcune interviste contenenti diverse rivelazioni. Quella più nota fu rilasciata dall’onorevole comunista Otello Montanari, (il noto “chi sa parli”), nella quale invitava chiunque avesse informazioni sui delitti dell’immediato dopoguerra, a rompere il silenzio che gravava su quelle vicende da oltre 40 anni.
Un testimone che era stato citato varie volte all’epoca del delitto, William Gaiti, confessò nel settembre 1991 di aver preso parte all’omicidio di don Pessina. Nel giugno del 1994 il processo di revisione svolto dalla Corte di appello di Perugia assolse Ferretti, Prodi e Nicolini “per non aver commesso il fatto”, ribaltando le precedenti sentenze di condanna. Nel marzo 1997 venne conferita a Germano Nicolini la medaglia d’argento al valore militare e ottenne, nuovamente, i gradi di capitano dell’esercito.
Nicolini scrisse il suo memoriale per rivendicare la propria dignità ed il proprio onore personale, dopo quasi un quarantennio nel quale aveva cercato in tutti i modi, invano, di richiamare l’attenzione di chi di dovere sul dramma vissuto. La ragione del memoriale era anche quella di ribadire che prima, durante e dopo la Liberazione aveva sempre agito nel rispetto più assoluto dei principi etici a cui era stato educato e cioè la sacralità della vita dell’uomo, il disinteresse personale, il senso del dovere, l’onestà e la lealtà, mentre nella prima sentenza era stato dipinto come un despota sanguinario.
Con Germano Nicolini se ne e’ andato un combattente, un democratico, un grande amico dell’Anpi, che ha fatto del rigore e della coerenza i capisaldi della sua vita.