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Adar retta al fronte padronale, alle opposizioni e ad alcune forze di governo (renziani e parte dei 5Stelle in primis) sembrerebbe che l’inedita e profonda crisi in cui la pandemia ha precipitato il Paese si possa risolvere a suon di vecchie grandi opere e di accelerazione dei cantieri. Per questo si rispolvera l’antico refrain di liberare l’economia da “lacci e lacciuoli”.
La “nuova” Confindustria non si accontenta mai e per bocca del neo presidente fiorentino, Maurizio Bigazzi, chiede nientemeno che l’imposizione un contributo di solidarietà ai dipendenti pubblici che, lavorando da casa, avrebbero risparmiato tempo e denaro… Del resto, il noto giuslavorista Pietro Ichino si era già avventurato sulla strada di definire lo smart working dei dipendenti pubblici una “vacanza retribuita”…
Ben più serio è lo scontro sul cosiddetto “decreto semplificazioni”. Accantonata la perversa idea dell’ennesimo condono edilizio, i confindustriali (fuori e dentro il governo) vorrebbero liberalizzare fino al 31 luglio 2021 (ma in Italia, si sa, non c’è niente di più permanente del transitorio) appalti e investimenti in opere pubbliche, senza gare, con affidamenti diretti, commissari ad hoc, ed eliminando di fatto i reati per abuso d’ufficio e danno erariale. Insomma, “prendi i soldi (pubblici) e scappa”, in un Paese già tragicamente taglieggiato dalla malavita organizzata e dalla corruzione diffusa.
L’ennesima dimostrazione che la posta dello scontro politico è chi pagherà il prezzo della crisi di sistema, chi gestirà le risorse del dopo Covid19, e quale segno avranno le politiche economiche e sociali.
Le pressioni degli industriali non vanno sottovalutate. Mirano a sancire ancora una volta il primato dell’impresa privata e a riscrivere le stesse forme della politica, con un attacco alla Costituzione. Un programma di restaurazione sociale. Parlare di patti sociali o di accordi triangolari neo-concertativi è oggi insostenibile anche solo come ipotesi di scuola. Dobbiamo essere netti ed incisivi nel contrastare il continuo logoramento del ruolo del Lavoro, a partire da quello pubblico, delle sue organizzazioni di rappresentanza e del contratto nazionale.
Il ruolo del pubblico in economia è la partita più rilevante: basta dare risorse a fondo perduto al sistema delle imprese private, è necessario lo Stato imprenditore. Basta con la litania dell’intervento residuale dello Stato solo nei fallimenti del mercato. Il mercato ha fallito su tutto, e, per riprogettare il Paese, è necessario che il pubblico decida cosa e come produrre nei settori strategici, nei beni comuni, servizi pubblici locali e monopoli naturali.
Ci aspetta come Cgil una fase complicata, nella quale non dobbiamo mai smarrire il nesso tra radicalità della proposta, capacità di mobilitazione, e raggiungimento di avanzamenti positivi per il largo mondo del lavoro dipendente e subordinato.
Il rapporto della Corte dei Conti europea relativo alla valutazione dei progetti più importanti, e costosi, cofinanziati dalla Commissione Ue, ha toccato anche la nuova linea ad alta velocità fra Torino-Lione, definita correttamente “la seconda linea” fra le due città. Su questa grande opera, le conclusioni della magistratura contabile non sono certo tenere. Il documento era stato richiesto nel 2017 dal Parlamento europeo, che aveva chiesto maggior trasparenza nella concessione dei fondi pubblici.
La Corte punta il dito sui benefici che appaiono sovrastimati. Sulle previsioni di traffico che risultano gonfiate soprattutto sulle merci ma anche sui passeggeri. Sui costi, aumentati in modo abnorme da 5,2 miliardi ad almeno 8,3 miliardi. E sui ritardi, che oggi portano a concludere: “È probabile che il collegamento Torino-Lione non sarà pronto entro il 2030, come al momento previsto, poiché il termine ultimo attuale per il completamento è il dicembre 2029”. Da segnalare, al riguardo, che sul versante francese non esiste ancora un progetto per i collegamenti.
E proprio dalla Francia arriva un altro colpo alla discussa grande opera. Protagonista questa volta il nuovo sindaco di Lione, l’ecologista Gregory Doucet, eletto a sorpresa (ma non troppo) nella terza città del Paese dopo una campagna elettorale all’insegna della “pacata praticità”. Appunto per questo Doucet ha osservato, seguendo il ragionamento della magistratura contabile europea, che una linea ferroviaria tra la sua città e il capoluogo piemontese esiste già. Quindi si deve valorizzare quella, che sarà sufficiente per il traffico merci che dovrà sostenere nei prossimi anni. Piuttosto, ha chiosato il nuovo primo cittadino, si pensi alle reti del trasporto di prossimità. Quelle sì necessarie, per decongestionare un traffico su gomma che, quotidianamente, rende i centri urbani sempre più invivibili.
Votare assieme per una importante modifica della Costituzione, che avrà effetti permanenti sulla vita istituzionale, e per un composito turno di elezioni regionali e amministrative, cioè l’esercizio ordinario della democrazia rappresentativa, è una evidente diminutio del valore della scelta referendaria. Così il voto referendario sarà trascinato dal voto delle amministrative e delle regionali, diventando una specie di cenerentola della tornata elettorale. Sarà irrealizzabile promuovere nel Paese una riflessione seria sul ruolo del Parlamento e della politica. Il cittadino sarà di fatto privato del diritto di informare e informarsi, e di conseguenza la sua scelta sarà condizionata.
L’Anpi voterà No alla riforma. Dagli attuali 630 deputati a 400 e dagli attuali 315 senatori a 200. E perché non 430 e 220? E perché non 390 e 185? È un taglio di più del 30%, non fondato su alcuna ragionevole analisi, e che sembra rispondere esclusivamente a ragioni di propaganda.
Al dunque: mentre prima c’erano 96.006 abitanti per deputato, con la riforma vi saranno 151.210 abitanti per deputato. Sarà più difficile rappresentare un numero così elevato di cittadini.
Questa riforma è una tappa di un lungo percorso di svuotamento di fatto del ruolo del Parlamento come organo della rappresentanza politica in cui si esercita la sovranità popolare. Da tempo il Parlamento italiano è prevalentemente strumento di ratifica di decisioni prese dal governo, in base al postulato della governabilità, sui cui altari da anni si sacrifica la rappresentanza, con effetti evidenti: sfiducia e disillusione popolare, percentuale patologica di astensioni, pulsioni populiste. Né è migliorata la governabilità, sovente in fibrillazione per le contraddizioni interne ai partiti di governo. Negli ultimi trenta/quarant’anni declinava e poi crollava la percentuale di votanti, e poco prima scomparivano i partiti di massa del dopoguerra, sostituiti da formazioni politiche prevalentemente “leggere”, assenti dal territorio, sovente divise da gruppi di potere interni, e oggi anche, in alcuni casi, levatrici di pulsioni demagogiche utilissime per raccogliere voti ma esiziali per governare l’Italia.
Si tratta di un lungo processo che ha portato ad una progressiva marginalizzazione delle Camere, di cui questa riforma costituzionale è l’ultimo tassello. Una riforma fra l’altro che richiede di necessità sia una nuova legge elettorale che salvaguardi per quanto possibile i partiti minori dalla loro cancellazione, sia nuove norme per l’elezione del Presidente della Repubblica e della Corte Costituzionale. Siamo ancora in alto mare.
Bene sarebbe invece ricominciare da una riforma del sistema politico in attuazione dell’art.49 Costituzione (“Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”), affinché i partiti diventino fucine di idee e di progetti di trasformazione, e da una piena attuazione del principio di rappresentanza, per cui il cittadino torni a riconoscersi nel parlamentare eletto, il Parlamento torni ad essere specchio delle contraddizioni sociali del Paese e luogo della mediazione.
La crisi indotta dagli effetti della pandemia ci racconta che il tempo sta scadendo, che la fiducia nelle istituzioni è a fondamento della loro credibilità, e assieme che l’intervento pubblico è garanzia della tenuta democratica. Ma ci dice anche dei gravi pericoli per la democrazia, come insegna la deriva autoritaria di tanti Paesi. Questa riduzione del numero dei parlamentari, ululante demagogia a parte, è un passo indietro. Sta a tutti noi provare a fare due passi avanti.
Il rinnovo del Ccnl “per i lavoratori delle cooperative di trasformazione dei prodotti agricoli e zootecnici e di lavorazione dei prodotti alimentari”, che riguarda 50mila lavoratori, ha avuto il suo avvio il 4 novembre 2019 con le controparti Fedagri-Confcooperative, Legacooop Agroalimentare e Agrital-Agci. In relazione alla ricchezza prodotta nel settore (incremento del valore aggiunto di 6 punti percentuali nel periodo 2011-17, esportazioni che ammontano a 41 miliardi dieuro) e all’evoluzione del lavoro sia nel presente che in prospettiva, la piattaforma di rinnovo ha previsto sia una richiesta salariale importante (finalizzata ad incrementare le retribuzioni reali, anche dei soci, redistribuendo parte del valore) sia proposte con elementi innovativi in tema di mercato del lavoro, formazione continua, ricambio generazionale, comunità di sito, welfare bilaterale e conciliazione vita-lavoro, correlati anche in queste attività ai nuovi archetipi di Industria 4.0.
La “normalità” dell’avvio della trattativa - le controparti, pur evidenziando i dati per lo più positivi che hanno caratterizzato il quadriennio di vigenza del Ccnl, manifestavano le preoccupazioni legate all’incertezza di alcuni fattori internazionali (dazi, la cosiddetta Brexit), i cambiamenti climatici e le emergenze fitosanitarie, nonché la debolezza del mercato dei consumi interni - ha però incontrato due variabili sostanziali già all’inizio dell’anno corrente; i riflessi della complicata evoluzione del rinnovo del Ccnl Industria Alimentare, cui questo contratto è “collegato” intervenendo in pratica nello stesso settore, e la straordinaria situazione dell’emergenza sanitaria.
In relazione a quest’ultima è importante sottolineare che la continuità delle attività produttive, ritenute indispensabili, e l’adempimento della funzione sociale della filiera agroalimentare, è avvenuta grazie all’assunzione di responsabilità delle parti e all’impegno e sacrificio di lavoratrici e lavoratori, rendendo solo così possibile, da un lato, la tutela della salute degli addetti e, dall’altro, la distribuzione dei generi alimentari.
Sul piano negoziale la nostra azione è stata quella di condividere lo stesso schema dell’Industria, visto il positivo approdo faticosamente raggiunto da quel negoziato. Queste, in sintesi, le inedite difficoltà che si sono affrontate per arrivare alla sottoscrizione dell’intesa del 16 giugno.
Un accordo che, pur in un contesto eccezionale (dove il futuro economico e sociale appare profondamente incerto per l’impossibilità di valutare compiutamente le trasformazioni organizzative e sociali che l’emergenza sanitaria apporterà all’economia, alle dinamiche sociali e alle abitudini individuali), concretizza sia la ricerca di soluzioni condivise alle nuove necessità relative all’organizzazione del lavoro (articolazione degli orari e delle turnazioni, utilizzo di strumenti alternativi alla presenza fisica, formazione in tema di igiene e sicurezza sul posto di lavoro) e alla specificità del modello cooperativo, sia la salvaguardia del potere di acquisto delle retribuzioni, già nell’immediato, per consentire un prosieguo del negoziato.
Infatti l’intesa riconosce che il rinnovo della parte economica dovrà avvenire secondo i principi condivisi nel Protocollo sugli assetti contrattuali della cooperazione del 12 dicembre 2018, in continuità con i meccanismi applicativi già definiti durante le precedenti fasi del negoziato, e dispone una prima tranche di incremento pari all’1% del valore della retribuzione, con decorrenza a partire dal 1 dicembre 2019, ed erogazione delle mensilità arretrate, a totale copertura del 2020.
Anche in ambito di welfare contrattuale si è operato confermando lo slittamento al 31 dicembre 2020 delle decorrenze a carico delle aziende per il finanziamento al Fondo Filcoop Sanitario. Questo percorso, non semplice, ribadisce da una parte il valore delle relazioni sindacali, e dall’altra conferma il Ccnl quale strumento principale e centrale. Offre inoltre risposte certe e immediate sia salariali che normative per il 2020, e valorizza concretamente anche il lavoro e l’impegno profusi dalle lavoratrici e dai lavoratori in questi mesi di Covid-19.
L’accordo prevede infine la ripresa del negoziato, a partire dal prossimo 27 luglio, per completare il rinnovo 2019-23, su basi ben distinte da quelle che certa imprenditoria vorrebbe imporre ai contratti nazionali a scapito dei lavoratori e del Paese.