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Lo scontro politico in atto nel Paese è chiaro: chi pagherà il prezzo della crisi di sistema, chi gestirà le risorse del dopo Covid19, e quale segno dare alle politiche economiche e sociali per la costruzione del futuro.
Il governo è sotto attacco dalla destra politica ma ancor più da quella rappresentata da Confindustria, che arriva ad ipotizzare un ritorno alla Camera dei fasci e delle corporazioni.
Le uscite del presidente degli industriali non vanno sottovalutate. Mirano a sancire il primato dell’impresa privata e a riscrivere le stesse forme della politica, con un attacco diretto alla Costituzione. Un programma di restaurazione sociale. Dobbiamo essere netti ed incisivi nel contrastare il continuo logoramento del ruolo del Lavoro, delle sue organizzazioni di rappresentanza e del contratto nazionale.
I Costituenti ben ricordavano la viltà della classe padronale durante il fascismo e il ruolo straordinario a difesa del lavoro e delle fabbriche dato dal movimento operaio, a costo della stessa vita. Parlare di patti sociali o di accordi triangolari neo-concertativi è oggi imbarazzante anche solo come ipotesi di scuola.
Il governo deve fare politiche sociali ed economiche radicalmente alternative se non vuole essere sostituito con uno schema ancor più rassicurante per chi vuole che tutto continui come prima, anzi peggio, per il mondo del lavoro e la nostra rappresentanza.
Due sono i poli principali dell’iniziativa: un sostegno al reddito di natura universale per un tempo lungo che copra tutti: lavoratori e lavoratrici, disoccupati, cassintegrati, partite Iva, lavoro grigio e nero. Si conquista il consenso sociale di chi subisce le scelte del capitale e di Confindustria concretamente, migliorando le condizioni materiali di chi per vivere ha solo la possibilità di vendere la propria forza lavoro, qualunque sia il colore della sua pelle.
Il ruolo del pubblico in economia: basta dare risorse ingentissime a fondo perduto al sistema delle imprese private; è necessario lo Stato imprenditore. Basta con la litania dell’intervento residuale e a tempo dello Stato che interviene solo nei fallimenti del mercato. Il mercato ha fallito su tutto, ed è necessario per riprogettare il Paese - imprimendo quella cesura reclamata dal segretario generale della Cgil - che il pubblico decida cosa e come produrre nei settori strategici, nei beni comuni, servizi pubblici locali e monopoli naturali. Creare buon lavoro, redistribuirlo attraverso la riduzione degli orari e non incentivare il lavoro precario e a tempo determinato. La redistribuzione della ricchezza e una vera riforma fiscale capace di colpire l’evasione e tassare i grandi patrimoni.
Ci aspetta come Cgil una fase complicata, nella quale non dobbiamo mai smarrire il nesso tra radicalità della proposta, capacità di mobilitazione e raggiungimento di avanzamenti positivi, seppur parziali, per il largo mondo del lavoro dipendente e subordinato. Al lavoro e alla lotta.
emendamento al “decreto Rilancio”, presentato dal deputato dem Andrea De Maria insieme ai colleghi parlamentari Serracchiani, Epifani e Soverini, chiede di equiparare i trasferimenti collettivi senza accordo sindacale ai licenziamenti collettivi, dal momento che di fatto producono gli stessi effetti di perdita di posti di lavoro.
Succede perché, nella drammatica situazione provocata dal coronavirus nel mondo del lavoro, che pure già in precedenza risultava in grande affanno, visto il proliferare di contratti e contrattini a termine per milioni di persone, sta prendendo piede il meccanismo del trasferimento per mascherare la volontà dell’azienda di ridurre l’occupazione.
Il caso della Roberto Cavalli, azienda di moda con 170 dipendenti che ha deciso, dopo mezzo secolo di attività nell’area fiorentina, di chiudere il suo stabilimento per andare (in affitto) a Milano, in questo senso è paradigmatico. “Si tratta di un licenziamento mascherato – replicano i lavoratori e i loro delegati sindacali – basta analizzare le proposte dell’azienda per rendersene conto”.
Hanno ragione, perché in sostanza chi si trasferirà, dovendo cercare per forza di cose una nuova abitazione, non avrà incentivi ma solo quanto previsto dal contratto nazionale, una mensilità in più se ha familiari, e mezza mensilità se single. Mentre chi interromperà il rapporto di lavoro – in altre parole sarà costretto a licenziarsi - potrà usufruire del cosiddetto “piano sociale”, con l’erogazione da sette a dieci mensilità, a seconda dell’anzianità di servizio.
Sulla vicenda, fra i tanti, è intervenuto il presidente del Consiglio comunale di Firenze, il metalmeccanico Luca Milani, con un giudizio amaro ma aderente alla realtà: “Pare che l’emergenza sanitaria, che tanto ha inciso sull’economia reale della società, non abbia insegnato niente a chi si occupa di lavoro”.
Il referendum costituzionale che riduce il numero dei parlamentari potrebbe rivelarsi un boomerang per chi ha votato in Parlamento la modifica dei relativi articoli della Costituzione: una modifica decisiva, su cui è sottratta ai cittadini ogni doverosa corretta informazione. Si sono aggiunti ulteriori ostacoli i cui nodi, ad oggi (17 giugno), ancora non sono sciolti: l’accorpamento in un’unica data tra elezioni amministrative e referendum. È una manovra che rischia di ritorcersi contro chi ha voluto la modifica costituzionale.
Da anni la partecipazione alle elezioni si è significativamente ridotta: generata dalla sfiducia verso una gestione politica sempre più lontana dagli interessi collettivi e alimentata dall’assenza di quelle forme associative che l’art. 49 della Costituzione definisce il fulcro della partecipazione cittadina alla politica nazionale.
Quando però gli elettori sono stati chiamati a decidere se modificare la Costituzione, è sempre emersa una coscienza civica: è accaduto con i referendum costituzionali del 2006 e del 2016. In entrambi i casi i cittadini si attivarono in campagne di informazione, affermando con un No la volontà di mantenere l’ordinamento costituzionale da cui è nata la nostra democrazia. E vinsero quelle battaglie.
Oggi si ripresenta un quadro analogo: chi ha voluto la nuova riforma costituzionale, su cui è per ultimo chiamato a decidere il popolo, asseconda la sfiducia verso le istituzioni e declina banalmente le proprie ragioni - quando lo fa - con un unico, demagogico, strumentale argomento: “smaltire” il numero dei parlamentari per dare un colpo decisivo alla “casta”. Argomento che potrebbe compiacere la pancia dei cittadini, ma più difficilmente il loro senso civico, a cui potrebbe suonare irragionevole, vuoto, persino insidioso. Per di più in assenza di qualunque informazione, confronto, discussione nel Paese.
Fissata a gennaio scorso la data del referendum per il 29 marzo, furono gli appelli dei Comitati per il No ad evitare che il voto si svolgesse in assenza di discussione pubblica, visto il diffondersi dell’emergenza sanitaria. E fu rinviato.
Oggi l’arma è l’accorpamento con altre votazioni: sapremo dopo il 19 giugno quale data verrà fissata dal governo per il referendum costituzionale, ma sappiamo per certo che lo stesso decreto che consente l’abbinamento delle votazioni in un’unica giornata (prima volta in assoluto in Italia) ha fissato l’ultima data possibile per il referendum costituzionale al 22 novembre prossimo.
Perché non utilizzare questo tempo per far conoscere ai cittadini le motivazioni e le conseguenze di un voto così importante? Il taglio dei parlamentari inficia irrimediabilmente il principio costituzionale della rappresentanza: il 37% in meno di eletti significa escludere molti italiani dall’avere voce nell’organo parlamentare, inclusi gli italiani all’estero (sono 4,5 milioni).
Il Parlamento verrebbe garantito solo alle poche forze politiche espressione di più largo consenso, con l’esclusione delle molteplici sensibilità che la società civile italiana esprime. E tutto avverrebbe in vigenza di una legge elettorale, negazione del diritto alla scelta elettorale, che non è stata modificata; senza un cambiamento dei regolamenti parlamentari (strumenti di “dominio” delle maggioranze parlamentari del momento); imponendo da parte di maggioranze ad hoc le più delicate scelte elettive, prima fra tutte quella del Presidente della Repubblica. Basterebbero questi argomenti per votare No al taglio dei parlamentari.
La scelta libera e consapevole di una rappresentanza è il fondamento naturale di una democrazia: non tenerne conto significa annullare la volontà popolare, di cui molti dei promotori della modifica ad ogni piè sospinto fingono di essere i paladini; significa demolire il ruolo centrale del Parlamento, che nella democrazia costituzionale italiana costituisce il baluardo contro ogni tentativo di ritorno all’autoritarismo.
L’unica arma rimasta a chi ostacola una libera volontà popolare è quella diretta ad annacquare il voto referendario, riducendolo ad un mero occasionale “passaggio nell’urna”, accorpato ad altre elezioni che con il referendum costituzionale nulla hanno a che vedere, per struttura e per finalità.
Il Parlamento va rafforzato, non depauperato, solo così può mantenere il suo ruolo di controllo sulle scelte politiche dell’esecutivo: lo stanno dicendo in molti e queste voci si stanno unendo. All’Assemblea Costituente, il 18 settembre 1946, Umberto Terracini disse: “Quando si vuole diminuire l’importanza di un organo rappresentativo s’incomincia sempre col limitarne il numero dei componenti”. Un monito lungimirante, che oggi serva perché vinca il No al taglio dei parlamentari.
Oltre 2.000 anni fa un uomo in tunica predicava nel deserto l’’uguaglianza e la solidarietà. Da allora, come si suol dire, ne è passata d’’acqua sotto ai ponti: Papato, monarchie benedette, proprietà private con successione divina, banche, lobby sugli armamenti, fondazioni … Chissà cosa farebbe oggi l’uomo in tunica entrando nel tempio del profitto in era turbocapitalistica. Chissà come valuterebbe le dichiarazioni di don Angelelli, direttore dell’ufficio nazionale per la pastorale della salute della Cei, quando dichiara “il momento di grave difficoltà della sanità e, in particolare, della sanità non profit” e l’“attenzione delle strutture sanitarie cattoliche verso i lavoratori e i loro diritti”.
Forse il portavoce della Cei si riferisce al disastro venutosi a creare nella gestione dell’emergenza Covid all’interno delle Rsa private? O forse si riferisce ai diritti di quei lavoratori che per oltre dieci anni hanno continuato a lavorare senza aumento salariale, con stipendi inferiori a quelli dei loro colleghi che nel sistema pubblico svolgevano eguali mansioni?
La trattativa che ha portato, finalmente, alla firma della pre-intesa per il rinnovo del Ccnl della sanità privata ha vissuto momenti che avevano del surreale. I rappresentanti di Aris (Associazione religiosa istituti socio sanitari) e Aiop (Associazione italiana ospedalità privata) hanno cercato fino all’ultimo di preservare il profitto, accumulato in anni di finanziamenti pubblici per le attività private, dalle spese per gli aumenti salariali legati al rinnovo contrattuale.
Alla fine, complice anche il Covid che ha messo a nudo l’inefficienza del sistema privato, generando un tam-tam mediatico che in alcuni momenti sembrava voler affermare uno stravolgimento del sentito comune secondo cui “il privato è bello ed efficiente”, hanno dovuto mollare e cedere alle pressioni sempre più incalzanti del sindacato. In questa fase l’apporto della Funzione pubblica Cgil, con il supporto confederale, è stato determinante.
Le compagne e i compagni hanno saputo cogliere il momento, e attraverso un lavoro estenuante hanno raggiunto un’intesa che non era assolutamente scontata in un contesto di rapporti di forza che vede un divario in crescita costante fra capitale e lavoro. Si è data una battuta d’arresto importante e un segnale forte, soprattutto dal punto di vista politico: gli organismi di rappresentanza della classe lavoratrice sono in campo e sono in grado, che lo si voglia o meno, di conquistare salario e nuovi diritti.
Nel dettaglio la pre-intesa - che sul fronte salariale stabilisce un incremento pari al 4,21%, per un valore medio mensile di 154 euro (categoria D), e una “una tantum” di 1.000 euro per tutti i lavoratori erogata in due tranche - amplia la sfera dei diritti, prevedendo l’allargamento e la piena esigibilità dei permessi retribuiti, fra i quali il diritto a 12 ore annue per visite mediche ed esami diagnostici. Separa il comporto della malattia da quello dell’infortunio, escludendo dal comporto i giorni per le terapie salvavita e i giorni successivi di assenza dal lavoro dovuti agli effetti collaterali; garantisce la formazione con la costituzione di un fondo a carico delle aziende per la formazione e l’aggiornamento professionale, con l’acquisizione dei crediti Ecm. Riconosce 14 minuti di tempi di vestizione compresi nell’orario; diritto ad almeno 15 giorni di calendario consecutivi di ferie tra il 15 giugno e il 15 settembre; riposo giornaliero, con la previsione di 11 ore di riposo consecutive senza deroghe, la prestazione massima dell’orario giornaliero non può superare le 12 ore; introdotto un articolo sull’orario di lavoro flessibile; introduzione delle ferie solidali per i lavoratori in situazioni di difficoltà personale. Potenzia le relazioni sindacali e la contrattazione aziendale, l’informazione e l’introduzione del confronto con le organizzazioni sindacali. Inserisce per la prima volta in un contratto nazionale un articolo specifico che affronta il contrasto alle aggressioni al personale. Prevede una clausola di stabilizzazione per i lavoratori a tempo determinato per contrastare il lavoro precario.
Dal mese prossimo riapriranno le trattative per il rinnovo di un altro Ccnl, quello delle Rsa, che riguarda un’altra fetta importante del terzo settore. Anche questa trattativa non sarà semplice, ma la nostra organizzazione darà sicuramente il proprio contributo rivendicando a parità di lavoro, parità di salario e parità di diritti.