Smart working o jail working? - di Patrizia Fistesmaire

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In questo periodo di grave emergenza tutto è cambiato, in modo sostanziale e repentino. È la prima pandemia nella storia delle persone, non vi sono eguali periodi che la memoria ricordi. Il modello neoliberista ha fallito e infatti è stata la prima vittima, poi l’untore per tutto il paese. Lo sfruttamento del lavoro finalizzato al profitto ha creato sacche di fragilità dove il contagio si è insinuato più facilmente.

Il virus ha minato le basi antropologiche della convivenza. I sorrisi sono diventati tentativi di fuga oppure pianti disperati. La ricchezza della nostra democrazia sta nel conflitto riflessivo e nella possibilità di incontro. Siamo dinamici è vero. Contraddittori. E inguaribilmente nostalgici. Abbiamo in mente la fatica delle lotte sindacali, gli scontri, i picchetti e il calore dell’assembramento, dietro ad uno striscione, cantando nelle piazze. La pandemia ha minato la nostra essenza, frutto della storia, della cultura e della psiche collettiva. Adottando strategie tampone, mutuate da altri paesi, o semplicemente riadattate in modo sommario.

Una di queste è lo smart working. Tradotto come lavoro agile, ma di agile non ha proprio niente se non per il padrone. Agile richiama la famosa vignetta dell’ombrello di Altan che rappresenta quando il lavoratore diventa pure sfigato. Ecco, ci siamo intesi.

Si può affermare che lo smart working non è in realtà un modo differente di lavorare, ma un dispositivo di emergenza da usare con parsimonia e durante un periodo di quarantena. Se lo si intende in modo scorretto si rischia di applicarlo senza consapevolezza sui rischi che comporta. E’ affascinante l’idea di lavorare smart, già dirlo crea quel brivido della liberazione dal lavoro con le sue costrizioni. Agile significa che si muove con facilità, svelto, pronto, vivace e anche facile ad essere usato, maneggevole (Treccani). Se è vero che nel lavoro da casa, tipico dell’uscio-bottega artigiana, si riduce l’alienazione del lavoro salariato perché il lavoratore è collegato alla sua opera e ha il controllo dei mezzi di produzione, questo non è però lo smart working. Che produce invece un’alienazione profonda della persona, relegata tra le pareti casalinghe diventate una prigione senza chiavi, né secondini, che illude sulla possibilità di gestirsi in autonomia, ma in realtà costringe a raddoppiare sia l’esposizione al lavoro sia alle incombenze domestiche.

Si sarebbe potuto chiamare house working o jail working? Forse avrebbe reso meglio l’idea, evitando idealizzazioni fuorvianti. Nello smart working viene meno la dimensione sociale, la possibilità di avere relazioni efficaci con gli altri.

Sono ancora in embrione le valutazioni sui rischi di esposizione a strumenti di relazione virtuale, come videoconferenze o videochiamate, e non sono state definite né le modalità esecutive né le regole per il benessere e la sicurezza dei lavoratori. A livello psicologico, ma anche sociale, si intravedono oltre ai vantaggi anche pericolosi scenari di isolamento e frammentazione del senso di sé e del senso collettivo.

Nella scala dei bisogni dell’essere umano dopo quelli fisiologici, connessi alla sopravvivenza fisica dell’individuo, vi sono i bisogni di appartenenza: lavorare insieme, cooperare e sentirsi parte di un gruppo, il bisogno di stima e di auto realizzazione, l’aspirazione ad occupare un ruolo sociale. La casa non offre lo spazio affinché la persona trovi la motivazione alla realizzazione di sé. Comunque, stare in casa non significa essere al sicuro rispetto allo sfruttamento e all’alienazione. Anzi il pericolo è di subire entrambi senza accorgersene, senza la possibilità di aggregare le istanze individuali a quelle collettive.

Il lavoro da casa e in casa ha una forte componente classista: un conto è vivere in un’abitazione con più stanze, che garantiscono comfort e riservatezza, un altro è vivere in una situazione diversa. E nelle disposizioni contrattuali, tra i requisiti, non vi è considerato il tipo di casa né la condizione relazionale e famigliare. Il lavoratore e la lavoratrice si sentono doppiamente frustrati se non riescono a lavorare bene da casa e al contempo mettono a repentaglio il clima famigliare.

Ma il danno peggiore lo subiscono, come sempre, le donne. Relegate ad angeli del focolare, si suddividono nella conciliazione tempi di vita e tempi di lavoro, con ancora maggiore difficoltà. Lo smart working per le donne diventa ‘extreme working’, poiché nella convivenza familiare forzata per la donna risulta difficile ricavare spazio e tempo dedicato. Dalla ricerca #iolavorodacasa, condotta da Valore D, una donna su tre lavora più di prima e ha difficoltà a mantenere un equilibrio tra lavoro e vita domestica. Mentre tra gli uomini è uno su cinque, poiché la cura famigliare continua a gravare in prevalenza sulle donne. Non vi è ancora un’effettiva corresponsabilità genitoriale, e per ora non si intravedono scenari di riappropriazione della propria autonomia e autodeterminazione.

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