Guerra al Covid19, ma con meno spese militari - di Stefano Maruca

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“Siamo in guerra” è l’espressione più usata per descrivere lo sforzo comune e la mobilitazione generale di governi, istituzioni, comunità scientifica, sistema delle imprese, sindacati e cittadini, nella lotta globale contro l’epidemia di Covid19. Le armi e le munizioni, i generali e i soldati di questa guerra sono però tutt’altro dall’apparato bellico e militare e dai vari sistemi d’arma, che nel mondo hanno corrisposto a una spesa di 1.800 miliardi di dollari nel 2018, dati dell’Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace - Sipri di Stoccolma.

Non è con queste armi che sconfiggeremo il coronavirus. A combattere e farci vincere questa “guerra” saranno la qualità e l’efficienza del sistema sanitario, la qualità e la quantità del personale medico e infermieristico dei servizi ospedalieri, la capacità della ricerca scientifica di analizzare le cause e individuare rimedi a questa ulteriore e nuova pandemia che, oltre a uccidere una quantità enorme di persone in tutto il mondo, sta mettendo in ginocchio l’economia mondiale, l’economia della globalizzazione come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi.

Le limitate risorse a disposizione vanno concentrate a potenziare il sistema sanitario e a produrre gli strumenti necessari al suo migliore funzionamento, e per mantenere in funzione quei servizi e settori produttivi necessari alla popolazione per sopravvivere all’epidemia e alle difficoltà economiche che ne derivano.

Francamente non è chiara la essenzialità di continuare a produrre caccia bombardieri o missili balistici, cannoni e navi da guerra, bombe e mitragliatori. Eppure è quello che sta succedendo grazie alle maglie larghe e alle concessioni offerte all’industria militare-aeospaziale dal decreto governativo, che definisce le attività che possono o devono continuare a funzionare.

La Fiom e la Cgil hanno denunciato questa incomprensibile concessione e hanno preso una forte iniziativa, anche con scioperi, a tutela della salute dei lavoratori coinvolti e dell’intera comunità nazionale, per limitare drasticamente l’attività di questa filiera che in Italia vede alcune grosse imprese, a partire da Leonardo, e una grande quantità di piccole e medie imprese. Grazie anche agli accordi fatti con Leonardo e i gruppi più grandi, l’attività produttiva in senso stretto di questo settore si è ridotta al 30-35%, con un ampio ricorso allo smart working per tutte le attività compatibili con questa modalità.

Pur nell’emergenza coronavirus ci sono aree di attività del settore aerospazio-difesa che devono essere garantite, ad esempio quelle di supporto alle forze dell’ordine, ai vigili del fuoco, alla Croce Rossa, e le manutenzioni e le revisioni di aerei ed elicotteri, le telecomunicazioni, le trasmissioni satellitari, etc. Ma non possiamo accettare che si metta a rischio la salute di lavoratori e cittadini per continuare produzioni che sono strategiche forse per il profitto aziendale ma non certo per il paese. Abbiamo chiesto di fermare e comunque ridurre al minimo queste produzioni, come quella delle parti di F35, e oggi, anche grazie alla nostra azione negoziale, lo stabilimento di Cameri lavora solo al 25%, con un accordo che garantisce la verifica rigorosa delle condizioni di sicurezza sanitaria e della disponibilità individuale alla prestazione, senza comandate da parte aziendale.

Guardando poi oltre l’immediata emergenza sanitaria, e considerando la prospettiva di un settore come quello dell’aerospazio, dobbiamo aspettarci uno scenario inedito, molto diverso e più preoccupante delle crisi post 11 settembre e del 2008. Uno scenario del tutto incerto in cui nessuno sa quale sarà il quadro del trasporto aereo nel mondo nei prossimi mesi e anni. Oltre ai possibili fallimenti di compagnie, difficilmente qualcuno comprerà aeroplani almeno per un po’ di anni.

Anche sul versante militare, oltre ai dubbi di ordine etico, è discutibile pensare che il mercato delle armi e degli aerei da guerra continuerà “as usual”. Saremo comunque di fronte alla necessità di ripensare scelte di investimento e allocazione di risorse pubbliche nella produzione/acquisto di costosi sistemi d’arma e di aerei come gli F35. Sarebbe bene che a tutti i livelli politico-istituzionali e degli attori economici e delle rappresentanze sociali, ci fosse la consapevolezza che nel dopo coronavirus le priorità economiche e di investimento per garantire ripresa e sviluppo sono molto diverse da incremento degli arsenali e aumento delle spese militari.

Possiamo continuare a dire “siamo in guerra”, ma per vincere questa guerra serviranno meno bombe e carri armati e più ospedali e istruzione pubblica qualificata, meno ricerca e tecnologia militare e più ricerca scientifica e tecnologia utile alla sicurezza sanitaria e sociale, a contrastare il cambio climatico, a favorire la riconversione energetica e i processi democratici. A far bene i conti, costa anche meno che riempire gli hangar di F35 & simili.

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