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Siamo in una vera emergenza sanitaria e umanitaria globale che investe non solo il nostro Paese ma tutte le nazioni e il mondo intero. Non ci sono precedenti. E questo shock che investe le popolazioni, che disorienta e spaventa le persone mettendo a nudo fragilità personali e collettive, colpisce sistemi economici internazionalizzati, mettendo a rischio il sistema economico e produttivo sul fronte dell’offerta più che della domanda, è forse la più complessa e significativa crisi globale derivata da un’emergenza sanitaria per estensione e gravità, peraltro prevista da inascoltati esperti mondiali.
E’ una dura prova. Ne usciremo sicuramente, ma nulla dovrà essere come prima perché, come dicono gli scienziati da tempo, le pandemie si ripresenteranno e sono figlie e prodotto del nostro modello di sviluppo e della nostra deregolata globalizzazione, all’insegna del mercato e del profitto, che ha innescato la disastrosa e incontrollata crisi climatica.
Occorre cambiare in profondità il modello di sviluppo economico e sociale, preparare e costruire modelli alternativi, indicare strumenti che orientino la futura ripresa nella direzione della salvaguardia del pianeta, garantiscano il primario diritto della salute e della vita delle persone al lavoro e al benessere sociale della collettività, non del mercato e dei profitti.
Si dovrà trasformare il nostro sistema economico in senso ecologico, nella prevenzione e nella riduzione dei rischi sanitari, rispondere alle conseguenze derivanti dalla crisi climatica e di un sistema capitalistico rapace e distruttivo. Il dopo non dovrà essere segnato da un ritorno a dove eravamo, ma fare un salto in avanti verso un sistema più giusto, di solidarietà e di eguaglianza, verso un sistema più efficiente e qualitativo con al centro la persona e i suoi primari bisogni. Un sistema nuovo e alternativo dal punto di vista economico, sociale e ambientale, senza asservimento alle multinazionali, alla finanza e al mercato.
Si dovrà superare ogni stupida idea protezionistica, nazionalista e razzista, smetterla di affossare il bene comune, lo stato sociale e ridurre il cittadino a mero consumatore. Così come dovremo ripensare al ruolo e alla divisione delle competenze tra Stato centrale e Regioni, tra Nazione e Unione europea, tra Europa e istituzioni globali.
L’internazionalizzazione di un virus mette a nudo l’inconsistenza, il fai da te del regionalismo, dell’autonomia differenziata. Non c’è adeguata difesa e prevenzione dinanzi a un’epidemia globale se non si hanno politiche sanitarie e protocolli universali.
Questa emergenza esalta le nostre eccellenze sanitarie, la conquista della sanità pubblica universale, ma mette a nudo anche la nostra impreparazione a questa epidemia. Ci mette davanti alla gravità dei tagli imposti dalle spending review negli ultimi decenni, il blocco del turn over, la carenza dei medici e degli infermieri che, come aveva previsto l’Oms, ha reso debole la resistenza delle nostre società agli eventi come epidemie e disastri naturali. La protezione civile per settimane ha avuto difficoltà a trovare e fornire a medici e infermieri mascherine, guanti e camici adeguati. Un Paese di 60 milioni di abitanti ha solo poco più di 5mila posti di terapia intensiva, mancano 50mila medici e altrettanti infermieri, sono stati tagliati ospedali e posti letto, la ricerca è stata mortificata e ora la popolazione ne paga le conseguenze.
La politica tutta dovrebbe fare il mea culpa. Non il mercato finanziario ma il finanziamento della salute pubblica garantisce crescita economica, benessere e prosperità sociale.
L’epidemia di coronavirus ci impone un’assunzione di responsabilità individuale e collettiva per bloccare l’espandersi del virus. Occorre difendersi individualmente e collettivamente seguendo le indicazioni della scienza e del governo per interrompere la propagazione del virus e non far saltare il Sistema sanitario, messo a dura prova, e che per ora regge grazie al lavoro e all’abnegazione dei medici, degli infermieri, del personale parasanitario e del volontariato. A loro un grazie infinito e un doveroso riconoscimento, spesso concretamente negato dalla politica e dai governi.
Stare tutte e tutti a casa significa sostanzialmente stare nella propria abitazione se non si è impegnati in servizi essenziali per la salute pubblica, e cambiare abitudini e comportamenti che permettano di non far collassare il Sistema sanitario per il numero di pazienti che avranno bisogno di cure lunghe e importanti. Queste misure devono andare di pari passo con il blocco degli sfratti e dei licenziamenti, l’immediata soluzione dell’annoso problema del sovraffollamento delle carceri, la garanzia di sicurezza e continuità di reddito a tutte le lavoratrici e a tutti i lavoratori indipendentemente dalla tipologia contrattuale, dipendente o autonoma, ma economicamente dipendente.
Occorre infatti prendersi cura di tutti i cittadini, dei lavoratori e delle lavoratrici a partire dai luoghi di lavoro, rispetto ai quali è necessario garantire le più strette norme di sicurezza, arrivando anche alla sospensione programmata delle attività produttive, garantendo salari e stipendi dei lavoratori. Primo vivere, dopo produrre.
Le decisioni del governo dell’11 marzo vanno ancora nella giusta direzione, ma sono state condizionate dall’irresponsabilità sociale di Confindustria e del padronato che – con il sostegno dei governatori di Lombardia e Veneto (contrariamente alla cinica e strumentale propaganda del loro partito, la Lega di Salvini) – vogliono mantenere aperte le attività produttive non essenziali, e approfittare della crisi per ottenere strumenti di controllo unilaterale sui lavoratori, sottoposti al rischio di contagio per salvare profitti e rendite finanziare del capitalismo nostrano.
Il protocollo faticosamente ottenuto dalla Cgil, insieme a Cisl e Uil – sconfiggendo la pretesa di Confindustria di un controllo unilaterale sull’organizzazione della produzione, e sulle stesse misure di prevenzione e contenimento della potenziale diffusione del virus – pur con i suoi limiti è un’importante sanzione del primato della salute e sicurezza sulle ragioni dell’economia e del profitto, primo risultato delle lotte dei lavoratori. Ma il governo deve garantire la sua piena attuazione e la piena agibilità della contrattazione sindacale nei posti di lavoro, in un Paese tristemente noto per la continua violazione delle norme da parte di grandi, medi e piccoli imprenditori, con il tragico primato di morti, infortuni, malattie sul lavoro. E dev’essere chiaro che vanno fermate le attività laddove le condizioni di sicurezza concordate non sono applicate, così come, per il commercio alimentare, vanno chiusi gli esercizi la notte e il sabato e domenica. E resta aperta la questione centrale di sospendere le attività nei settori non essenziali.
Questa crisi impone di rompere una volta per tutte i demenziali trattati europei dell’austerità, recuperando tutte le risorse economiche necessarie. Non in maniera occasionale ma in modo strutturale: non come elargizione ma come premessa per diverse politiche economiche e sociali. Allargando il perimetro pubblico, a partire dalla sanità: più risorse, più personale, più ridondanza dei sistemi in modo da poter far fronte alle emergenze. Con misure drastiche di prelievo sulla rendita fondiaria e finanziaria, che senza misure efficaci cresceranno ancora nel nostro Paese, con un ulteriore restringimento della base produttiva e allargamento delle già grandi diseguaglianze.
Un nuovo e rinnovato intervento e proprietà pubblica nell’economia si impongono, per riconquistare una sovranità popolare solidale: non con le frontiere blindate a chi fugge guerra e miseria, ma la possibilità di decidere della propria politica economica e sociale nell’ambito di un mondo ormai interdipendente. Non la comunità di sangue invocata dai nazionalisti xenofobi, ma la solidarietà di classe, interloquendo con quel poco che resta di borghesia manifatturiera, nel rispetto delle dialogo e del conflitto sociale. Non ne usciremo come ci siamo entrati: molto dipenderà dalla nostra capacità di iniziativa e di proposta.
Non distogliamo lo sguardo dalle emergenze umanitarie che non sono altra cosa da quella sanitaria. Alle nostre porte oltre un milione di persone fuggono dalla guerra siriana, molti stanno morendo tra stenti e gelo. Una disumanità intollerabile. Non siamo i soli a soffrire e ad affrontare gravi difficoltà e non ci salveremo da soli. Rispettiamo le distanze fisiche, ma rimaniamo socialmente, culturalmente uniti e umani.
Nel pentolone della politica italiana bolle il taglio degli eletti dal popolo. Abbiamo scelto di parlarne con uno dei più attenti osservatori delle dinamiche politico parlamentari, il costituzionalista Massimo Villone, professore emerito della materia all’Università Federico II di Napoli, presidente del Coordinamento per la democrazia costituzionale.
L’emergenza coronavirus ha bloccato il referendum, ma prima o poi si dovrà decidere sul taglio dei parlamentari votato ad ampia maggioranza da Camera e Senato. Per risparmiare 57milioni di euro, che sono lo 0,007% del bilancio statale, circa 1,35 euro per singolo cittadino, un caffè all’anno, si passa da 630 a 400 deputati alla Camera e da 315 a 200 senatori a palazzo Madama. Il gioco vale la candela?
“Certamente no. Nel referendum del 2016 M5s richiamava l’esempio del caffè contro la riforma Renzi-Boschi sul Senato. Hanno cambiato idea. Il risparmio è marginale anche per i bilanci di Camera e Senato, in cui le maggiori voci di spesa sono i servizi e il personale. Spese sostanzialmente incomprimibili. Il danno invece è grave, soprattutto nella politica di oggi. Un tempo, non ci si rivolgeva al deputato o senatore, ma all’organizzazione territoriale – sezione, circolo, federazione - del partito, che era l’interfaccia con l’istituzione. Oggi, con i soggetti politici in larga misura dissolti o evanescenti, il cittadino, l’associazione, il comitato cercano il deputato o senatore. Ridurre i rappresentanti significa, più di ieri, togliere voce ai rappresentati”.
I sostenitori del ‘No’ osservano, giustamente a parer mio, che il taglio dei parlamentari ferisce, lede il principio della rappresentanza politica, perché meno sono gli eletti più distante è il loro rapporto con gli elettori e il territorio. Quelli del ‘Sì’ invece parlano invariabilmente di taglio alla casta e ai suoi privilegi, in barba al funzionamento efficiente del Parlamento, visto che riducendo il numero dei parlamentari si lascia il processo legislativo in mano a pochi, e soprattutto di pochissimi partiti. Che ne pensa?
“Il principio di rappresentanza è certamente leso, soprattutto per il Senato. Nove regioni hanno da due a cinque senatori. Anche con un sistema elettorale proporzionale, in non poche regioni solo due, o al più tre, soggetti politici otterranno seggi. Sul piano nazionale, probabilmente solo i due maggiori partiti avranno seggi in tutte le regioni. Si rischia che milioni perdano ogni voce. Il problema c’è anche per la Camera, sia pure in misura minore. Il danno alla rappresentatività non è bilanciato da una maggiore efficienza. Anzi. Solo i soggetti politici maggiori - due, tre – avranno abbastanza eletti da distribuire in tutte le commissioni, sedi cruciali del lavoro parlamentare. Gli altri dovranno assegnare a ciascuno dei propri - pochi - eletti più commissioni, con ripercussioni negative sulla qualità del lavoro, e sulla rappresentanza di elettori e territori. L’esito ultimo del taglio può essere solo spianare la strada alle lobbies e alle oligarchie politiche ed economiche”.
Il taglio dei parlamentari è una sorta di ‘provvedimento bandiera’ per i Cinque stelle. Per certo è stato votato anche dalla destra, che notoriamente in Italia non ha le fattezze di una destra liberale. Ma perfino dal Pd e da Leu, che pure in un primo momento si erano detti contrari alla riduzione di deputati e senatori.
“Pd e Leu – e non solo - sapevano bene che sarebbe stato necessario avere prima il quadro delle modifiche costituzionali di completamento e soprattutto della legge elettorale. Il voto subito e a prescindere è stata una forzatura M5s. Si aggiunga che Leu è tra le forze politiche candidate a scomparire in molte regioni con la riduzione dei seggi, soprattutto in Senato. Lo stesso può dirsi di Forza Italia. Persino Fratelli D’Italia potrebbe non avere seggi nelle regioni dove due o al massimo tre soggetti politici riusciranno ad ottenerne. E se continuasse la caduta nei consensi, anche M5s dovrebbe temere una identica situazione”.
Se entrasse in vigore la legge su cui è stato indetto il referendum, la percentuale italiana di deputati ogni centomila abitanti scenderebbe allo 0,7, inferiore a tutti gli altri paesi dell’Unione Europea. Attualmente è appena superiore a Germania, Francia, Paesi Bassi e Spagna. Mentre in tutti gli altri paesi dell’Unione europea già oggi gli eletti alla Camera ogni centomila abitanti sono di più. Lei pensa che sarebbe un successo per la democrazia questa riforma?
“La comparazione conferma che la riforma non trova motivazioni. Si iscrive oggettivamente in un quadro di anti-parlamentarismo e disfavore per la rappresentanza politica. Quadro che il Movimento 5Stelle fa esplicitamente proprio, aggiungendo al taglio dei seggi il mandato imperativo, il referendum propositivo, e la democrazia diretta della rete. È un indirizzo pericoloso, che però si può battere. Il primo passo è votare No”.
Scuole chiuse e revoca dello sciopero nazionale. Quali anticorpi per sconfiggere l’emergenza.
Lo sciopero della scuola indetto per lo scorso 6 marzo da Flc Cgil, Cisl Fsur, Uil Scuola Rua, Gilda e Snals è stato revocato stante la grave situazione sanitaria venutasi a creare in Italia a seguito della diffusione del contagio da covid-19. La decisione è risultata obbligata anche in considerazione del fatto che, tra le prime misure assunte per far fronte alla diffusione del contagio, c’è stata proprio quella di chiudere tutte le scuole di ogni ordine e grado, chiusura dapprima limitata alle cosiddette zone rosse e poi estesa all’intero territorio nazionale.
Sulla chiusura delle scuole, per quanta necessaria, si è arrivati in maniera pasticciata e confusa perché, anziché l’interesse generale, è prevalso spesso il protagonismo (e l’incompetenza) di questo o quel governatore regionale, dando così evidenza dei danni che ha causato la riforma del titolo V della Costituzione che ha sottratto competenze allo Stato su funzioni fondamentali (come la scuola ma anche la sanità) che invece hanno bisogno di un governo unitario.
L’interruzione delle attività didattiche per un periodo così lungo (fatto del tutto eccezionale) dà la misura della gravità della situazione e della difficoltà di fronteggiare un’epidemia dalle conseguenze molto preoccupanti per la salute dei cittadini ma anche per la sostenibilità del sistema sociale ed economico del Paese.
Quale sarà il complessivo bilancio dei danni, e purtroppo dei lutti, che il covid-19 causerà, lo potremo sapere solo quando l’epidemia sarà completamente debellata, ma già da ora è possibile prefigurare la vastità e profondità dei suoi effetti su tutti gli aspetti della nostra vita.
I primi effetti riguardano il nostro sistema pubblico di servizi sociali, a partire dalla sanità, messo a dura prova dal virus ma prima ancora da decenni di tagli di finanziamenti, di riduzioni di organico, di privatizzazioni e dismissioni, che ne hanno fortemente compromesso la capacità di tenuta di fronte all’emergenza con conseguenze diffuse per tutti i cittadini a partire da quelli più deboli.
Lo stesso vale per il sistema scolastico, in cui in questi giorni si tenta di sopperire alla chiusura forzata delle scuole con le attività didattiche a distanza e lezioni on line. Nella grande maggioranza le scuole, nonostante la propaganda e la tempestiva e non disinteressata disponibilità di imprese commerciali del settore, non sono attrezzate e non hanno né gli strumenti né le competenze per organizzare la didattica on line. Inoltre non tutti gli alunni hanno il pc o la possibilità di potersi connettere da casa alle piattaforme digitali e, come sempre, quelli che rischiano maggiormente di essere tagliati fuori sono proprio i più poveri e i più bisognosi. Infine, e non per ultimo, le lezioni on line non potranno mai sostituire la didattica in classe, la relazione alunni-docente, l’interazione di tutte le componenti scolastiche nel garantire il diritto costituzionale all’istruzione per tutti. Certo, la tecnologia può sopperire temporaneamente, come con merito stanno cercando di fare in questi giorni i tanti docenti per ridurre il danno derivante dalla chiusura delle scuole. Ma la scuola è altro e molto di più, perché non sarà mai una lezione a distanza che potrà risolvere le disuguaglianze e la povertà educativa.
Occorre allora che questa emergenza da covid-19 diventi l’occasione per riconsiderare profondamente le priorità del Paese, e tra queste vanno comprese sicuramente il diritto alla salute e all’istruzione. Per fare questo, contro ogni velleità regionalistica e progetto di autonomia differenziata, occorre affidare al governo centrale il compito di garantire i diritti fondamentali mediante servizi pubblici di qualità per tutti. L’istruzione è tra questi diritti e per assicurare una scuola di qualità non si potrà non ripartire proprio da quelle rivendicazioni che, non a caso, erano già alla base della proclamazione dello sciopero del comparto scuola del 6 marzo, ovvero: assunzione dei precari, potenziamento degli organici, rinnovo contrattuale, investimenti. Solo così il nostro Paese potrà sviluppare quegli anticorpi necessari a prevenire ogni tipo di emergenza, sia virale che sociale.
Flai Cgil: ora le sezioni territoriali in tutte le province.
Il 20 febbraio scorso il ministro del Lavoro e delle politiche sociali, Nunzia Catalfo, ha presentato al tavolo contro il caporalato il primo “Piano triennale di contrasto allo sfruttamento lavorativo in agricoltura e al caporalato (2020-2022)”. Il progetto è nato dalla collaborazione tra ministero del Lavoro, ministero delle Politiche agricole, ministero per il Sud e coesione territoriale e ministero dell’Interno. Il piano, che prevede anche uno stanziamento di fondi significativo (circa 88 milioni di euro), segue quattro assi strategici: prevenzione, vigilanza e contrasto, protezione e assistenza, reintegrazione socio-lavorativa.
Fai Cisl Flai Cgil e Uila Uil, presenti al tavolo al ministero del Lavoro e delle politiche sociali, hanno definito il piano “un lavoro ambizioso, che affronta in modo organico le tante problematiche che si sovrappongono nelle azioni di prevenzione e contrasto al caporalato. E’ stato avviato il percorso giusto, ora si può alzare l’asticella delle battaglie contro lo sfruttamento, nessuno ha più alibi per non agire”.
“Abbiamo ribadito – hanno affermato i sindacati – che su un milione di lavoratori agricoli il 90% è a tempo determinato e necessita di costanti azioni di tutela. A tutti i lavoratori, attraverso la contrattazione, possiamo garantire dignità, strumenti di welfare, lavoro in sicurezza, ma occorre togliere qualsiasi margine di azione ai caporali, che spesso organizzano pacchetti ‘all inclusive’ e offrono a chi cerca lavoro anche alloggi, trasporti e servizi, il tutto nella totale illegalità. Va affrontata in particolare la condizione di tanti migranti divenuti irregolari, che quando lavorano lo fanno in nero e non possono avvalersi degli strumenti offerti dallo Stato. Se sono stimati 400mila sfruttati, non si può continuare a fare finta di niente, a queste persone va riconosciuta dignità, va data la possibilità di emergere nella legalità”.
Anche in questa occasione i sindacati di categoria hanno ribadito un’esigenza già più volte avanzata, cioè quella che “non è più rinviabile l’istituzione, in tutte le province, delle sezioni territoriali della Rete per il lavoro agricolo di qualità. Per questo è necessario che le istituzioni preposte si attivino immediatamente e dalle parole si passi alle azioni concrete”.
Per la Flai Cgil è intervenuto anche il segretario generale Giovanni Mininni: “Finalmente non si parla più di modificare la legge 199 del 2016 e si assume l’atteggiamento corretto: andiamo prima ad applicare la legge, verifichiamo se funziona e poi magari la cambiamo. Il piano si articola in diverse azioni che sono soprattutto propositive e non repressive, perché c’è la legge che permette di perseguire il reato di sfruttamento e di caporalato anche dal punto di vista penale. Noi come Flai Cgil abbiamo partecipato ai tavoli che hanno portato alla definizione di questo piano importante perché guarda il tema non solamente da un punto di vista ristretto e di parte. Il tema dello sfruttamento e del caporalato si affronta con un approccio complessivo”.
Il piano, ha aggiunto Mininni, “dovrà essere calato nei territori. Purtroppo ad oggi solamente la Puglia ha in tutte le sue provincie una sezione territoriale della Rete del lavoro agricolo di qualità, il nodo territoriale dove si devono attuare le politiche propositive e di prevenzione. Se mancano le sezioni territoriali, su quali gambe camminerà il piano? Rischia di fare più fatica a procedere”. “Con grande lentezza – ha infine spiegato il segretario generale della Flai Cgil – sono state attivate una decina di sezioni territoriali, quando la legge 199 varata nel 2016 prevedeva l’immediata creazione delle sezioni”.
Ora ci si augura che questo nuovo strumento possa contribuire alla piena applicazione della legge 199/2016, puntando sulla prevenzione e togliendo alibi e linfa ai caporali e a quanti a loro si rivolgono per avere braccia a pochi euro da sfruttare nei campi.