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La prima vera emergenza sanitaria nell’epoca dei social sta mettendo a dura prova il nostro paese sul piano politico, economico-occupazionale e del vivere sociale. È responsabilità delle istituzioni, delle autorità sanitarie, della politica e dell’informazione arginare la paura perché non si trasformi in panico irrazionale. Come sempre il paese sta dando il meglio di sé con le sue professionalità ed eccellenze, e con l’impegno generoso delle donne e degli uomini della sanità pubblica e del volontariato.
Le linee straordinarie emanate dal governo per il contenimento del virus, sorrette dalla scienza, vanno applicate su scala nazionale dinanzi a illogiche spinte regionaliste e localiste, il caos del “fai da te”. Per contro l’Ue, dinanzi a un’epidemia globale, non dispone di politiche comuni per fronteggiarla e permette ad alcuni Stati membri di alzare muri e pregiudizi nei confronti dell’Italia. È il frutto velenoso della demagogia sovranista, razzista e xenofoba della peggiore destra europea e nostrana. A questo si accompagnano manovre speculative e di mercato, e forme di sciacallaggio privato e politico in un’economia globalizzata e interdipendente.
L’emergenza mette in luce limiti e storture di un’Italia impoverita e in difficoltà per anni di scelte sbagliate sul fronte istituzionale, della salute, dell’istruzione, della ricerca e del lavoro.
Il coronavirus impatta su un’Italia fragile, divisa e impaurita, con un’economia e un tessuto industriale deboli e un mercato del lavoro precario. Oggi, a fronte dell’emergenza sanitaria ed economica - quella della salute è primaria - tutti chiedono risorse allo Stato e l’intervento pubblico per sostenere ripresa, occupazione e imprese. Liberisti nei profitti, statalisti nelle perdite e nelle emergenze. Una severa lezione per chi ha indebolito il Servizio sanitario nazionale, operato per sostituire il sistema pubblico con il mercato e un privato senza responsabilità sociale.
I tagli hanno mortificato lo Stato sociale, la ricerca, la sanità pubblica, dimezzato il personale ospedaliero e scientifico.
Come in Lombardia, dove si sono consegnati pezzi di sanità pubblica al privato, con conseguenze evidenti, mentre il governatore leghista scarica le proprie responsabilità sul governo per ordine del suo cinico capo. C’è’ sciacallaggio politico anche da parte di una forza di maggioranza.
Si vedono oggi le conseguenze nefaste della riscrittura del titolo V della Costituzione e dell’articolo 117 sulle competenze di Stato e Regioni, e i rischi di quell’autonomia differenziata, invocata solo quando conviene, che è un pericolo per l’unità del paese e per la garanzia dei diritti costituzionali.
La deriva valoriale, l’odio verso il diverso e il migrante, la ricerca del nemico, le discriminazioni producono insicurezza e rompono la solidarietà. La Cgil, come sempre, è in campo con le sue strutture, le sue donne e i suoi uomini per difendere diritti, lavoro, vivere civile, vita e salute di tutte e tutti.
Fra i tanti effetti collaterali del coronavirus, ci sono quelli che impattano sui lavoratori meno tutelati sotto il profilo contrattuale, per effetto dei provvedimenti di prevenzione emanati dalle autorità. Caso da scuola è quello dei lavoratori della gig economy, che rischiano di vedersi sospendere o interrompere il contratto, o di subire una riduzione dell’orario.
Ai sindacati della categoria dei cosiddetti “atipici” sono arrivate, ad esempio, decine e decine di segnalazioni da parte dei rider. Messaggi che vanno dal pesante calo del lavoro, alla mancanza di tutele che li mettono a rischio durante le consegne. I lavoratori del food delivery girano di casa in casa senza il minimo dispositivo di protezione individuale fornito dall’azienda. Ad aumentare le preoccupazioni, in diverse città le stesse piattaforme hanno tolto il minimo orario garantito ai loro “dipendenti”.
Più in generale, per i lavoratori che sono privi delle tutele tipiche dei lavoratori subordinati, subendo più di altri penalizzazioni e disagi, l’effetto del coronavirus è rilevante. Per questo i sindacati hanno iniziato a discutere con il governo di peculiari ammortizzatori sociali per loro. Ma per ora sono state assicurate garanzie solo per chi lavora nelle cosiddette “zone rosse”, lasciando scoperti tutti gli altri.
Per certo ai tavoli ministeriali, che in questi giorni sono diventati ormai permanenti, si va avanti. Con l’obiettivo di estendere diritti e tutele anche ai fattorini delle consegne a domicilio, a quelli con contratti atipici del mondo dello spettacolo, e nel complesso a tutti coloro che sono stati investiti dal (folle) clima di terrore innescato dal virus, e soprattutto dalla sua comunicazione alla collettività da parte di alcune forze politiche, Lega salviniana in testa.
L’8 marzo è una giornata di lotta, per tutte le donne che lavorano, e per la nostra organizzazione. Serve ancora oggi lottare per mantenere le conquiste sociali, economiche e politiche, e per contrastare le discriminazioni e le violenze di cui le donne sono state e sono ancora oggetto in quasi tutte le parti del mondo. Sono ancora all’ordine del giorno gli attacchi alle conquiste del passato che diventano oggi ancora più attuali, perché messe in discussione da politiche maschiliste e retrograde. Contro questi attacchi serve una posizione di condanna e di contrasto chiara e ferma da parte dell’organizzazione.
È necessario un confronto interno all’organizzazione su tematiche femministe. Le donne della Cgil vogliono un dibattito vero, nei direttivi, nei coordinamenti e nelle assemblee, in cui sia chiaro l’obiettivo finale: un cambiamento culturale radicale all’interno della nostra organizzazione. Serve un confronto indipendente dalle logiche della rappresentanza e vicino alle rivendicazioni femminili da cui è necessario ripartire. Non bastano i proclami e le iniziative di sensibilizzazione, bisogna denunciare e contrastare qualsiasi forma di violenza fisica e psicologica, garantendo alle donne adeguata protezione, bisogna difendere la parità di salario e tutele sul posto di lavoro, e cambiare l’approccio culturale e familiare rispetto al ruolo della donna.
Abbiamo il dovere di intraprendere un percorso di reale definizione del ruolo delle donne all’interno ed all’esterno dell’organizzazione. Il progredire di politiche e modelli culturali maschilisti e patriarcali deve renderci più forti e maggiormente incisive e incisivi nelle rivendicazioni. Serve quindi un cambio di prospettiva politica, in cui la discussione sulle tematiche femministe sia centro del dibattito anche all’interno dell’organizzazione, con il valore aggiunto della molteplicità e varietà di posizioni e senza prevaricazioni.
Il cambio di prospettiva deve passare anche dalla riaffermazione del principio di eguaglianza e condivisione del lavoro di cura, che non può essere esclusiva responsabilità delle donne. L’assistenza e la cura devono diventare responsabilità condivise.
Infine occorre ricordare che molte donne della Cgil sono attive anche in associazioni e organizzazioni che stanno difendendo le conquiste raggiunte, che rivendicano con la pratica quotidiana maggiori tutele, diritti ed indipendenza, e che l’8 marzo partecipano allo sciopero internazionale femminista. Nel rispetto di posizioni differenti, la discussione ed il confronto interno e con soggetti esterni all’organizzazione ha il valore aggiunto di porre attenzione a queste tematiche. Ancora oggi moltissime donne non partecipano perché impossibilitate a farlo, a causa del peso familiare e sociale e dell’impostazione culturale che le circonda. Molte donne inoltre non conoscono i propri diritti, e non sono consapevoli degli attacchi fascisti emersi negli ultimi tempi.
Come Cgil dovremmo ascoltare le voci dei movimenti transfemministi e il silenzio delle donne “nascoste”, e farci portavoce del riscatto del mondo femminile sia con un percorso di coinvolgimento capillare sia con l’adesione allo sciopero internazionale dell’8 marzo, anche con il coinvolgimento di Cisl e Uil e del sindacato internazionale.
Alle ragioni del No - già ben illustrate da Alfonso Gianni - mi limito ad aggiungere che il taglio del parlamento del 37% è grave in sé, in quanto scarica su Camera e Senato le contraddizioni, gli errori, i ritardi e i problemi non risolti di un intero assetto istituzionale - a partire dal governo. Che non trova di meglio che intaccare pesantemente la credibilità e il ruolo di un architrave come il Parlamento, che deve rappresentare lo snodo essenziale della rappresentanza dei cittadini. La motivazione dei costi è semplicemente ridicola. Per dimostrare un risparmio hanno dovuto arrotondare verso l’alto il totale e moltiplicare per 10 anni, un trucchetto da baraccone.
Altro sarebbe stato discutere del ruolo del Parlamento, in un quadro di suo rilancio. Lo fecero anni fa Ferrara e Rodotà, proponendo il monocameralismo a condizione che il Parlamento fosse messo in grado di svolgere a pieno il suo ruolo e venisse approvata una legge elettorale proporzionale, con la possibilità degli elettori di scegliere direttamente i propri rappresentanti. Oggi non è così, la scelta degli eletti appartiene ai capi partito che di fatto nominano i parlamentari, sconosciuti agli elettori.
Altri proposero un bicameralismo alla tedesca con la Camera e il Bundesrat, cioè la rappresentanza delle regioni che esprimono un voto unico sulle materie che le riguardano, sempre nel quadro di un rilancio del Parlamento.
Oggi, per effetto di una demagogia facilona e di un populismo che favorisce la destra, il Parlamento viene ridimensionato del 37% e relegato al ruolo di votificio, mentre il governo diventa sempre più il perno del sistema istituzionale. Controprova la proposta di Renzi dell’elezione diretta del Presidente del Consiglio, ulteriore conferma che si scaricano sul Parlamento contraddizioni anzitutto di altri.
Certo, i parlamentari meritano molte critiche, ma sono “nominati” dall’alto e non rispondono ai cittadini ma ai loro capi partito, che cercano l’unica qualità della fedeltà. La qualità del Parlamento è diminuita, un male per la democrazia italiana.
Il Parlamento è stato riconquistato dopo la Liberazione, con la Costituzione, mentre il fascismo aveva fatto della Camera un organo nominato dal regime. Va difeso con forza.
Le sinistre che avevano tante ragioni per dare vita alla nuova maggioranza, dopo che la Lega ha fatto cadere il Conte 1, hanno sbagliato ad accettare le modifiche della Costituzione, a cui avevano votato contro per ben tre volte. Dovevano chiedere di ridiscutere tutto. Un tatticismo che ha confuso ancora una volta programma di governo e Costituzione. Tanto è vero che - per riequilibrare - ci si è inventati ulteriori modifiche costituzionali, per ora avvolte dalla nebbia, e una promessa di legge elettorale che ha scarsa credibilità di merito (sbarramento troppo alto in presenza del taglio dei parlamentari, e assenza del diritto degli elettori di scegliere direttamente gli eletti), e soffre della instabilità del governo. Infatti per ora è anch’essa nella nebbia.
La cosa migliore, più ragionevole è bocciare il taglio del Parlamento. Questo farà bene anche al M5S, che ancora sembra non aver capito perché ha perso mezzo elettorato a favore della Lega, e rischia di cederne altro ancora se continua a cavalcare la facile demagogia, nella speranza di ritrovare energie perdute. In realtà il M5S è prigioniero della contraddizione: non si può fare anticasta e casta nello stesso tempo, quindi oggi è parte dei problemi.
Se il Parlamento svolgesse il suo ruolo le istanze della società, a partire dal lavoro, potrebbero ridiventare centrali. Il jobs act è stato possibile perché non c’è stata ribellione dei parlamentari ad una scelta inaccettabile, e il ricatto del capo (all’epoca Renzi) impedì dissensi. Il Parlamento deve tornare ad essere permeabile alla società, alle sue istanze, se possibile anche meglio che in passato. Deve finire l’epoca dei soldatini che votano sempre sì.
Se il Parlamento non funziona o funziona male ne risentono le istanze della società. La democrazia funziona male o per nulla. Il mondo del lavoro ha tutto da guadagnare da una democrazia funzionante. Certo, ci vorrebbero anche partiti degni di questo nome, capaci di raccogliere e progettare. Ma senza un ruolo forte del Parlamento tutto è concentrato negli accordi di potere, nei circoli ristretti, nell’obbedienza ai capi.
Se il Parlamento funziona male, o è di pessima qualità, è la democrazia che ne risente e i lavoratori ne subiscono le conseguenze: i poteri forti se la cavano sempre, perfino quando si fanno la guerra, ma il mondo del lavoro no, ha bisogno della democrazia, ha bisogno di ascolto, di decisioni politiche.
Ci sarà pure una ragione se i costituenti decisero la formula che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Una frase decisiva, fondante, che deve essere attuata giorno dopo giorno e che richiede che il 29 marzo vinca il No, per sbarrare la strada ai revisionisti del lavoro.