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L’amministrazione Trump con un atto di terrorismo, assassinando uno dei massimi esponenti militari dello stato iraniano e un comandante di milizie irachene, ha di fatto dichiarato guerra all’Iran, distruggendo con la violenza gli sforzi diplomatici per preservare gli accordi internazionali che gli Stati Uniti stessi avevano denunciato e cercato di far saltare, contro la volontà della comunità internazionale.
La rappresaglia iraniana ha prodotto l’orrore di un “errore umano” che ha fatto strage di ignari viaggiatori di un aereo civile. L’azione scellerata decisa da Trump, senza neppure consultare il Congresso, innesca un’ulteriore spirale di violenza e di guerra, colpendo in un paese, l’Iraq, formalmente alleato, violandone la sovranità, mentre è impegnato nella coalizione internazionale (di cui anche l’Iran fa parte) per combattere il cosiddetto stato islamico. Una pericolosa escalation per il controllo geopolitico di un’area strategica già in fiamme, e nella quale, faticosamente, i popoli hanno ripreso voce con movimenti di massa in Libano, in Sudan, in Iran, nello stesso Iraq.
La crisi che investe il mondo arabo islamico dalla prima guerra del Golfo nel 1990-1991, provocata anch’essa dagli Stati Uniti e dai loro alleati, non ha fine. E tutti i paesi occidentali, la Turchia e la Russia sono pesantemente coinvolti dall’Afghanistan all’Iraq, alla Siria, alla Libia. Il governo italiano deve dissociarsi chiaramente dalla politica bellicista degli Stati Uniti d’America, e operare nelle sedi internazionali per far prevalere la linea del dialogo e della coesistenza pacifica, in Medio Oriente come in Libia, dove rischia di moltiplicarsi un’altra “guerra di prossimità” con interventi stranieri simili a quelli che hanno sconvolto la Siria. Non va consentito l’utilizzo del territorio italiano per nessun tipo di operazione di guerra, anzi è ora di rimettere in discussione le basi Usa e Nato nel nostro paese.
Evitare l’allargarsi dei conflitti, far vivere una cultura della pace e del dialogo, conformemente alla nostra Costituzione democratica che ripudia la guerra come strumento di risoluzione dei conflitti internazionali: anche il movimento sindacale e la Cgil possono dare un contributo coerentemente con la propria storia e cultura, quella che ci ha portato in piazza nel 1990 e il 15 febbraio 2003, e alla partecipazione al Forum sociale europeo di Firenze nel 2002.
Ora la nostra voce si leva accanto a quella delle associazioni, delle chiese, dei movimenti. Certi di rappresentare le nostre iscritte e i nostri iscritti, in sintonia con la stragrande maggioranza del popolo italiano. Opponiamoci alla guerra. Vogliamo la pace!
“Dopo tanti anni c’è un provvedimento che vede l’aumento del netto in busta paga, e la riduzione delle tasse sui lavoratori dipendenti”. Le parole di un soddisfatto Maurizio Landini fotografano bene la proposta del governo Conte di un taglio del cuneo fiscale, che partirà dal primo luglio 2020, e che permetterà ogni mese un aumento fino a 100 euro dello stipendio netto per circa 4,3 milioni di lavoratori, integrando poi il già esistente bonus di 80 euro, per un totale di 16 milioni di italiane e italiani coinvolti. Il provvedimento interesserà i redditi fino a 40mila euro annui e seguirà un doppio percorso: 100 euro al mese arriveranno a chi guadagna fino a 28mila euro, mentre dopo i 28mila euro e fino ai 35mila euro la riduzione delle tasse calerà gradualmente fino ad arrivare a 80 euro al mese. Infine, oltre i 35mila euro di reddito, la riduzione scenderà ancora, fino ad azzerarsi per chi ha redditi superiori ai 40mila euro.
Unica pecca della proposta del governo, il capitolo dedicato ai cosiddetti “incapienti”, cioè i lavoratori e le lavoratrici che non superano un reddito di 8.000 euro annui: per loro si pensa alla possibilità del “reddito di cittadinanza”, con tutto quel che ne consegue, e sempre che non superino i 9.600 euro di reddito Isee. Decisamente poco. Comunque sia si tratta di una doverosa, buona partenza dell’esecutivo M5s-Pd-Leu, se si pensa a quanto siano stati penalizzati in questi anni i redditi da lavoro dipendente. Anche se il segretario generale della Cgil puntualizza: “Dovrà esserci un confronto con il governo che dovrà portare ad una vera riforma fiscale, perché questo provvedimento va esteso oltre i 35-40mila euro annui, e dovrà riguardare tutti i lavoratori ma anche i pensionati. Soprattutto c’è bisogno di una riforma che intervenga sull’Irpef, intensificando la lotta all’evasione, e avviando un ragionamento che riguardi anche l’Iva”.
Una volta tanto le cose sono andate come dovevano. La Corte Costituzionale ha giudicato inammissibile la richiesta di un referendum proposto dalla Lega per trasformare in senso completamente maggioritario il sistema elettorale. La decisione pare sia stata presa a maggioranza, comunque netta: 11 giudici per la inammissibilità sui 15 componenti della Consulta. Le motivazioni saranno depositate entro il 10 febbraio; andranno lette con attenzione, ma già ora è chiaro che la Corte, in coerenza con la propria giurisprudenza, ha considerato “eccessivamente manipolativa” la richiesta referendaria, tale cioè da trasformare il referendum da abrogativo in propositivo, cosa non prevista dalla Costituzione.
Ora interessa sottolineare almeno due questioni. La prima riguarda la necessità, e a questo punto la piena possibilità, di una nuova legge elettorale in senso proporzionale. Infatti il referendum sul maggioritario non si farà, però abbiamo una legge elettorale in piedi, il Rosatellum, che presenta diversi aspetti di incostituzionalità.
Una nuova legge elettorale coerente con il dettato costituzionale è quindi ancora un obiettivo da raggiungere. A quanto si sa l’ultima ipotesi di accordo su un testo, già nominato Germanicum, non soddisfa affatto questa caratteristica. Infatti questo prevede uno sbarramento troppo alto, il 5%, al di sotto del quale non vi sarebbe rappresentanza parlamentare, che verrebbe ristretta ai partiti maggiori e non risolverebbe il problema della libera scelta dei cittadini dei loro rappresentanti in Parlamento, con il meccanismo delle liste bloccate.
La seconda questione riguarda il referendum sul taglio dei parlamentari. Una delle obiezioni era che avrebbe potuto favorire un giudizio positivo della Corte sul referendum salviniano perché dava tempo per ridelineare i confini dei collegi elettorali, questione fondamentale per rendere praticabile il sistema integralmente maggioritario. L’argomento se non inconsistente era comunque già debolissimo, ma ora anche questa foglia di fico è stata spazzata via dalla Corte.
Come è noto, le firme per convocare il referendum sulla modifica della Costituzione che ha portato al taglio del 37% dei parlamentari sono state raccolte in Senato in numero più che sufficiente. Il 15 gennaio si è costituito formalmente il Comitato per il No che deriva direttamente dal Coordinamento per la democrazia costituzionale, che si batté contro la (contro)riforma Renzi-Boschi, sconfiggendola nettamente nel voto referendario. Si attende solo la fissazione della data.
Trattandosi di un referendum in materia costituzionale non vige la stessa norma, prevista per i referendum abrogativi ordinari, per cui non è possibile tenerli nello stesso anno di eventuali elezioni anticipate. Viene meno l’arma di chi pensava di utilizzare la convocazione del referendum per facilitare elezioni anticipate. Infatti se queste vi fossero, sulla base della attuale composizione del Parlamento, e subito dopo si verificasse una conferma referendaria del taglio dei parlamentari, il Parlamento novello sarebbe del tutto delegittimato, essendo la sua composizione pletorica rispetto alla nuova norma costituzionale. Quindi, a rigore di logica, la necessità di nuove elezioni si imporrebbe. Insomma ne verrebbe fuori un pasticcio istituzionale davvero aggrovigliato e senza precedenti.
In ogni caso il No al taglio dei parlamentari va sostenuto con una battaglia referendaria certamente difficile, ma utile comunque, ricordando anche che in questo caso non vige nessun quorum dei votanti. Si tratta di contrapporre alla meschina logica dei risparmi di spesa la centralità della funzione del Parlamento nel nostro sistema. La qualità del suo lavoro non migliorerebbe con meno membri. Al contrario, mantenendo le due camere identiche, si impedirebbe al parlamento di funzionare in modo corretto. Le commissioni, ad esempio, che possono anche operare in sede legislativa, quindi approvare testi di legge senza passare dall’Aula, sarebbero composte necessariamente, particolarmente al Senato, da appartenenti ai partiti maggiori. L’opposizione sarebbe quindi compressa fino ad essere annullata. La supremazia del governo, che già avviene attraverso i decreti legge, sarebbe così codificata. La distanza tra i cittadini elettori e i loro rappresentanti aumenterebbe, rendendo il Parlamento un organo sempre più lontano dalla società. Insomma sarebbe la fine della democrazia parlamentare, saremmo pienamente dentro una post-democrazia, dove le lotte, a cominciare da quelle sindacali e dei movimenti sociali, troverebbero spazi ancora più ridotti per farsi ascoltare e valere.
La 25esima Conferenza dell’Onu sul clima (Cop25), tenuta a Madrid lo scorso dicembre, si è chiusa con un totale fallimento. Ancora una volta hanno prevalso gli interessi delle multinazionali e delle istituzioni finanziarie che dominano questo sistema di sviluppo insostenibile, basato sull’estrattivismo e la mercificazione delle risorse naturali, che genera e accresce ingiustizie sociali, violazione dei diritti umani, disuguaglianze, conflitti, devastazione ambientale e emergenza climatica.
La politica ha deciso di non ascoltare gli appelli disperati degli scienziati, né le richieste delle mobilitazioni che nell’ultimo anno hanno inondato il pianeta con il movimento dei #FridaysForFuture che, nei giorni della Conferenza, ha portato oltre 500mila persone a marciare a Madrid per la giustizia climatica.
La presidenza della conferenza, mantenuta dal Cile nonostante la certificata violazione dei diritti umani e l’uso della violenza per reprimere le pacifiche proteste per i diritti e la giustizia sociale, non lasciava presagire niente di buono. Per rispondere all’emergenza climatica l’attuale sistema va radicalmente cambiato, e non potevamo aspettarci un ruolo di leader proprio dal governo del Cile, che questo sistema neoliberista continua a difendere con la repressione e la violenza.
Il tempo per il pianeta è già scaduto e si continua a rinviare le decisioni, aggravando gli effetti devastanti dell’emergenza climatica. Si continua a investire sulle fonti fossili, e il 2020 è addirittura cominciato con una nuova drammatica guerra per il controllo del petrolio.
Eppure gli esempi degli effetti distruttivi dell’emergenza climatica non mancano: dall’Australia con 10 milioni di ettari di terreno distrutti dagli incendi, 25 morti e 100mila sfollati, all’Indonesia con 53 morti e 200mila sfollati per le alluvioni. Nel 2019 nel continente africano 2,6 milioni di persone sono state costrette a migrare a causa di siccità e grandi piogge, conseguenti alla crisi climatica. Il nostro paese, come attesta il report Germanwatch, è sesto nel mondo negli ultimi 20 anni per eventi estremi.
L’ennesimo fallimento della conferenza Onu per il clima, proprio nel momento in cui il movimento per la giustizia climatica è forte e numeroso come non lo è mai stato, ci dice che dobbiamo intensificare ancora di più la lotta per la giustizia sociale e climatica, rafforzare le alleanze, praticare la contrattazione e la partecipazione ma anche il conflitto. Fra pochi giorni a Davos avrà inizio il Word Economic Forum, con l’impegno dichiarato di discutere di un progresso globale sui cambiamenti climatici.
Ormai non c’è contesto politico, economico e finanziario in cui l’emergenza climatica e la sostenibilità non siano in primo piano: grandi dichiarazioni per rifarsi una “verginità” verde, e piccoli interventi per dare l’impressione che le cose stiano cambiando. Ma non è così: ancora oggi gli Stati sovvenzionano l’industria dei combustibili fossili con 5.200 miliardi di dollari l’anno, il 6,3% del Pil mondiale. I consumi energetici sono cresciuti del 70% dal 1990 al 2018 e sono previsti in ulteriore crescita del 28% tra il 2015 e il 2040. I combustibili fossili (petrolio, gas e carbone) rappresentano l’85% dei consumi globali e le emissioni sono cresciute da 21 miliardi di tonnellate nel 1990 a 33 miliardi di tonnellate nel 2018.
Il nuovo corso della Commissione europea con il “Green Deal”, un primo provvedimento per un fondo europeo per la transizione di 7,5 miliardi, è un segnale positivo ma tutto da verificare.
La prossima conferenza Onu, la Cop26, si svolgerà a novembre a Glasgow in Scozia. L’Italia e il Regno Unito sono i paesi ospitanti. In particolare, il nostro paese ospiterà a ottobre a Milano la pre-Cop e un evento dedicato ai giovani. Ma non si presenta bene a questo appuntamento, almeno al momento, avendo un Piano nazionale integrato clima-energia con obiettivi più bassi rispetto ai target europei, che dovranno anche essere rivisti alla luce delle indicazioni della nuova Commissione, senza nessuno strumento per affrontare la giusta transizione dei lavoratori, e senza un percorso democratico e partecipativo.
Il ruolo della Cgil, anche in vista dell’appuntamento di Milano, può essere determinante. Dobbiamo continuare nel nostro impegno per il clima e per lo sviluppo sostenibile con forza e determinazione a tutti i livelli dell’organizzazione, realizzare la contrattazione per lo sviluppo sostenibile, fare assemblee e formazione. Dobbiamo far crescere, nei lavoratori e nei delegati, la consapevolezza degli effetti devastanti del cambiamento climatico e delle opportunità positive, di sviluppo e di occupazione, della transizione ecologica. La consapevolezza è la premessa indispensabile per creare una forte capacità di mobilitazione sindacale, e definire un ruolo da protagonista del sindacato nel movimento per la giustizia climatica, con l’obiettivo di realizzare il radicale cambiamento di sistema di cui c’è disperato bisogno.