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Il nuovo governo Conte – 5 Stelle-Pd-Leu - si è insediato, con i suoi 22 ministri e i suoi 29 generici titoli programmatici. Una novità positiva, soprattutto perché ha segnato la fine di quello precedente, pericoloso e di destra, guidato da un ministro degli interni nazionalista e razzista, che stava portando il paese alla rovina. Ma non bisogna farsi facili illusioni: è un esecutivo anomalo e fragile.

La fase politica che si apre potrebbe essere diversa, dipende dalle scelte economiche e sociali dei prossimi mesi. L’economia è ferma, in Europa ci stiamo avviando verso recessione e stagnazione. In Italia permangono diseguaglianze, povertà diffusa, arretramento dello stato sociale, privatizzazioni dei beni pubblici, disoccupazione giovanile, precarietà di vita e di lavoro, sfruttamento e morti sul lavoro, e distruzione ambientale.

La Cgil verso il nuovo governo è ben posizionata; come sempre starà al merito. Con la propria autonomia, che non è mai indifferenza al quadro istituzionale e alle derive fasciste, razziste e anticostituzionali. Giudicheremo dalle scelte concrete e dalla legge di bilancio, primo vero banco di prova del programma di governo. Verificheremo se sarà riconosciuto il ruolo del sindacato confederale e considerate le proposte della piattaforma Cgil, Cisl, Uil, sostenuta dalle mobilitazioni unitarie.

Il lucido disegno reazionario e classista di Salvini - condiviso da una parte dell’imprenditoria e dai presidenti di Lombardia e Veneto, bramosi di ottenere quell’autonomia differenziata che lacera il paese - è stato sconfitto, per ora, nel Parlamento. Ma occorre sconfiggerlo nella società.

Questo è possibile solo aprendo nel paese una continua, coerente campagna culturale antifascista e antirazzista, mettendo al centro il lavoro, la condizione sociale delle persone, l’emergenza climatica e ambientale. Si possono contrastare l’onda nera e la deriva anticostituzionale e battere la destra politica e sociale se la sinistra ritrova le sue radici valoriali e sociali e mette al centro il lavoro. Se torna nei luoghi di lavoro e nella società per farsene interprete e non specchio, come dovrebbe fare una politica non autoreferenziale. E se cambia approccio sull’immigrazione, aprendo i porti, superando la Bossi-Fini e cancellando i decreti sicurezza e l’accordo con la Libia, chiedendo il conto sui disumani carceri lager dove si seviziano e si uccidono profughi e migranti.

La Cgil, con il congresso, ha confermato la sua identità e le sue radici, indicato la sua idea alternativa di Europa sociale e democratica, delineato il suo orizzonte strategico, la sua idea progettuale di sviluppo sostenibile, per un paese unito da nord a sud. Per questo contrasta ogni formula di autonomia differenziata, che aumenterebbe la divisione del paese, facendo vincere l’ideologia del più forte. Per la Cgil la lotta economica e sociale non può prescindere da quella culturale e valoriale contro l’imbarbarimento della società, in difesa dei diritti universali e del lavoro, per la piena applicazione della Costituzione. Tutto questo è la Cgil.

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Da gennaio a luglio, 599 persone sono morte mentre lavoravano. E il tragico elenco degli omicidi bianchi si è allungato ancora nelle ultime settimane. I nomi delle sei vittime di questi giorni dicono molto a chi guarda alla “strage inaccettabile”, lucida definizione data dai sindacati confederali e di base. Quattro erano indiani, sikh del Punjab: due fratelli prima dipendenti e poi titolari di un’azienda agricola del pavese, Prem e Tarsem Singh, e due operai, Harminder e Mnjinder Singh, uccisi dalle esalazioni di una enorme vasca di compostaggio per creare fertilizzanti dagli escrementi delle 500 mucche della stalla vicina. Un altro operaio, morto in un’azienda di calcestruzzi ad Altamura nel barese, era un giovane albanese, Kreshnik Gockaj. Solo il sesto operaio, morto anche lui in una azienda agricola del lecchese, ha un nome a noi più familiare, Gianluca Giovinazzo.

Le statistiche – ricorda il quotidiano “il manifesto” - dicono che il lavoro in Italia uccide un lavoratore ogni 8 ore, e ne ferisce uno ogni 50 secondi. A farne le spese soprattutto gli sfruttati, i precari, gli emarginati, i migranti che lavorano come schiavi nelle campagne e nei cantieri di tutta Italia. Un sistema, con l’enorme responsabilità delle istituzioni, latitanti da anni e anni. Gurmukh Singh, che insieme a Flai Cgil, Cgil e alla coop In Migrazione nel 2016 organizzò a Latina il primo e più importante sciopero di braccianti indiani in Italia, ribellandosi al caporalato e allo sfruttamento, è amarissimo: “Ogni anno perdiamo decine di connazionali, tutti morti che potevano essere evitati. A morire sono prima di tutto i più sfruttati, chi vive ai margini, chi deve chiamare il datore di lavoro padrone e fare anche venti chilometri in bicicletta per andare a lavorare perché non può permettersi neanche un motorino”. 

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“Per redistribuire la ricchezza” - di Alessandra Valentini

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Con l’assemblea nazionale di 1.200 delegate e delegati, la Flai Cgil lancia i rinnovi dei contratti. La piattaforma unitaria rivendica un aumento di 205 euro. 

A Roma il 5 settembre il Teatro Brancaccio si è colorato del rosso delle bandiere della Flai Cgil per l’assemblea delle delegate e dei delegati dell’industria e della cooperazione alimentare; una grande assise che ha visto la partecipazione e il coinvolgimento di 1.200 delegati, alla vigilia dell’avvio della trattativa per i rinnovi dei rispettivi contratti nazionali.

L’assemblea è stata aperta da un interessante video realizzato con le foto dell’archivio storico della Flai Cgil e con una testimonianza di Andrea Gianfagna, già segretario della Filziat e della Federbraccianti, che ha ripercorso le tappe principali e i momenti salienti del percorso di unificazione contrattuale nel comparto dell’industria alimentare. Nello stesso periodo (metà anni ‘70) inizia il processo di unificazione tra Filziat e Federbraccianti che avrebbe portato alla nascita della Flai, e ad ottenere importanti risultati sui contratti del settore alimentare, proprio grazie al contributo, in alcuni momenti decisivo, dei lavoratori e dei delegati, delle loro battaglie, degli scioperi e delle mobilitazioni.

Dopo il video ha preso la parola Giovanni Mininni, segretario generale della Flai Cgil, che nella relazione ha voluto ricordare con alcuni eloquenti numeri lo stato del settore e le richieste del sindacato e dei lavoratori: “Un fatturato di 140 miliardi nel 2018; export con valori positivi e in crescita nell’ultimo semestre 2019; occupazione che cresce del 6% dal 2015 al 2018; 61mila imprese alimentari, duemila cooperative: questi sono i numeri del settore alimentare, e per questo abbiamo le carte in regola per aver presentato piattaforme importanti come sono quelle per il rinnovo del contratto dell’industria alimentare e della cooperazione alimentare. La richiesta di aumento salariale di 205 euro è stata definita importante – ha proseguito Mininni – e sicuramente lo è, come importante è il settore, le sue performance e le sue potenzialità, per questo riteniamo la nostra richiesta giusta e coerente rispetto allo stato del settore”.

“Le richieste contenute nelle piattaforme – ha spiegato ed esortato Mininni - le vogliamo conquistare una ad una, dall’aumento salariale all’orario di lavoro, alla conciliazione dei tempi di vita e lavoro, alla comunità di sito, per sviluppare e far vivere veramente la contrattazione inclusiva, fino ai temi della sicurezza, solo per ricordare alcune nostre priorità. La straordinaria assemblea di oggi, con il contributo di delegate e delegati da tutta Italia, ci dà forza e ci incoraggia per il lavoro che abbiamo davanti nei prossimi mesi e settimane”.

Delegate e delegati sono stati i veri protagonisti dell’assemblea. All’intervento del segretario generale della Flai Cgil, che ha voluto sottolineare anche con iniziative come questa “un rinnovato protagonismo dei delegati”, sono seguiti undici interventi di delegati di varie parti di Italia e di diverse aziende che compongono il nostro settore alimentare: Mara della Basilicata per la Barilla, Paolo del Lazio per Peroni, Nadia dal Piemonte per la Ferrero, Pino dalla Calabria per Acque Mangiatorella, Fabrizio dalla Sicilia per Coca Cola, Simona dall’Umbria per la Perugina, Loris dal Veneto per la Knorr, Anna Maria dalla Puglia per Conserve Italia, Alessandra dalla Sardegna per il Caseificio Argiolas, Lamghebbar dalla Lombardia per il Gruppo Inalca, Alessandro dalla Campania per la Doria.

Un elenco di nomi che ci dà il senso, la complessità e la varietà del settore nel quale convivono realtà grandi, multinazionali, e aziende medio piccole. Per tutte il contratto deve rappresentare l’elemento unificatore, in grado di tutelare i lavoratori. Come ha sottolineato Giovanni Mininni, “lo strumento per redistribuire la ricchezza prodotta dal settore e per creare reale inclusione”.

Le conclusioni sono state affidate al segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, che in un ampio intervento, dopo alcune considerazioni sul nuovo scenario politico nazionale, ha espresso il suo apprezzamento per le proposte portate avanti dalla Flai Cgil nelle piattaforme per il rinnovo dei contratti, sottolineando che “dobbiamo riaffermare il concetto che la ricchezza di un paese la produce chi lavora, per questo nelle loro tasche deve tornare una ridistribuzione della ricchezza”.

Proporzionale sì, ma senza sbarramento - di Alfonso Gianni

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Si torna a parlare di legge elettorale proporzionale. Ma questa volta a farlo non è una minoranza di nostalgici della prima Repubblica, sono le stesse forze che compongono il nuovo governo, fino a poco tempo fa fautrici del maggioritario. A cosa dobbiamo questa positiva conversione? In effetti il Rosatellum, in presenza di una riforma costituzionale che dimezza il numero dei parlamentari, renderebbe evidente anche ai ciechi la propria incostituzionalità, perché incrementando l’ampiezza dei collegi accrescerebbe la distanza fra gli eletti e gli elettori, comprimerebbe oltre misura il pluralismo politico, approfondirebbe la distorsione fra la volontà espressa dagli elettori e il risultato ottenuto in termini di seggi.

Tutto bene, quindi? No, per una serie di motivi, fra i quali il primo è proprio l’irragionevolezza della modifica costituzionale che si vuole attuare. Diversi costituzionalisti, fra cui il compianto Rodotà, fin dai lavori della Commissione bicamerale Bozzi (1983-1985) - che però poi adottò a maggioranza una soluzione diversa di cui comunque non si fece niente – hanno proposto di passare da un sistema bicamerale “perfetto” ad uno monocamerale. Il disegno di legge di revisione costituzionale attuale, che ha già ricevuto tre voti favorevoli in Parlamento con la precedente maggioranza, prevede la permanenza di due camere con le stesse funzioni. Tanto più che si prevede l’abbassamento dell’età dei votanti e degli eletti per il Senato, uniformandola a quella per la Camera.

Nel primo caso si avrebbe avuto un effettivo snellimento nel processo legislativo, evitando inutili “navette” tra Camera e Senato e il rischio di maggioranze disomogenee o di diversa consistenza, rendendo ancora più autorevole e centrale il ruolo del Parlamento. Nel secondo caso l’unica motivazione è quella del risparmio per il bilancio statale, cosa che non c’entra niente con l’efficientizzazione della democrazia. Quindi non vi è alcuna fretta, a differenza da quanto dichiarato da Conte, perché l’iter della modifica costituzionale si concluda quanto prima con il quarto voto della Camera. Se non per il fatto che l’eventuale referendum confermativo, e le stesse norme contenute del testo di revisione costituzionale, procurerebbero diversi mesi di vita garantiti all’attuale legislatura. Ma è sempre un grave errore mascherare con modifiche costituzionali quelle che sono esigenze e obiettivi politici.

I problemi non si fermano qui. Non è un mistero che, dietro al programma ufficiale in 29 punti del governo, esista un accordo tra M5stelle e Pd per una ulteriore miniriforma della Costituzione. La novità più importante sarebbe l’istituzione della cosiddetta sfiducia costruttiva, ovvero della necessità quando viene tolta la fiducia a un governo di avere una maggioranza già pronta a sostituirlo. Ci si ispira al modello tedesco. Ma quest’ultimo ha una diversa impalcatura istituzionale. Infatti prevede che il Cancelliere venga eletto direttamente dal Bundestag, quindi si può capire che il Parlamento, avendo eletto il capo del governo, per sostituirlo ne debba presentare un altro. Ma nella nostra Costituzione le cose funzionano diversamente. E’ il Capo dello Stato a conferire l’incarico al futuro Presidente del Consiglio, il quale si presenta per la fiducia alle Camere solo dopo avere costituito il governo e giurato davanti al Presidente della Repubblica. Nel nostro caso la sfiducia costruttiva servirebbe soltanto a inibire per l’opposizione la possibilità di sconfiggere la maggioranza. Non solo, si potrebbe verificare il caso per cui un governo che non ha più la maggioranza continua a restare in carica, perché nel Parlamento non si trova un’altra maggioranza capace di partorire un governo diverso. Non è un caso che in Germania la sfiducia costruttiva abbia dato in tanti anni un solo esito favorevole: nel 1982 quando Kohl succedette a Schmidt.

Ma il pericolo più grosso è quello che corre la futura legge elettorale proporzionale. A quanto si sa l’accordo “segreto” tra M5stelle e Pd prevede sì di abolire qualunque traccia di maggioritario, ottenendo una legge proporzionale pura, ma mantenendo e peggiorando lo sbarramento per l’accesso delle forze minori, che verrebbe addirittura elevato rispetto all’attuale, fino al 4 o 5%. Simili valori sarebbero in realtà ancora maggiori una volta dimezzati i parlamentari, e quindi la difesa del pluralismo politico verrebbe del tutto contraddetta. Con quel numero di parlamentari non ha senso apporre alcuna soglia di sbarramento, oltre quella implicita data dal calcolo della attribuzione dei seggi.

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