La Corte d’Appello di Roma, con la sentenza dello scorso 8 luglio, ha reso giustizia alle vittime e ai loro familiari che, dopo oltre quarant’anni, hanno potuto sentire la parola ‘colpevoli’ per quei torturatori che inflissero le peggiori violenze a militanti politici, studenti e sindacalisti che si opponevano alle dittature militari in Uruguay, Argentina, Cile, Perù, Bolivia, Brasile e Paraguay.
Ventotto ergastoli a vertici politici e militari e agli esecutori materiali delle torture, ribaltando la sentenza di primo grado del 17 gennaio 2017, quando furono condannati solamente i vertici, mentre agli aguzzini fu imputato il solo reato di sequestro, decaduto per prescrizione. Quindi assolti, non per non aver compiuto il fatto, ma per decorrenza dei termini.
Una sentenza subito impugnata dal governo uruguayano che presentò il ricorso in appello, e diede mandato ad un nuovo pool di avvocati di produrre nuove testimonianze e nuove prove che potessero ricondurre l’impianto d’accusa alle più gravi responsabilità penali della tortura, e della consapevolezza di produrre violenza e morte. Incarico condotto con dedizione, passione e militanza straordinaria da parte di avvocati, ricercatrici, familiari delle vittime e associazioni per i diritti umani, che hanno creduto fino in fondo alla possibilità di arrivare a ‘verità e giustizia’.
Alla lettura della sentenza, in un’aula di un tribunale quasi deserto, in una Roma avvolta da un caldo tropicale torrido, a fatica i familiari presenti e gli avvocati hanno trattenuto le urla di gioia, potendosi sfogare solamente in silenzio per rispetto della Corte, bagnando il corpo non più di sudore ma di lacrime, dolci, meritate, affettuose, con il pensiero rivolto ai propri cari, al figlio o alla figlia perduta, al marito o alla moglie scomparsi, a fratelli e sorelle. Donne e uomini che finalmente hanno avuto la giustizia dalla loro parte. Ora la parola finale spetterà alla Cassazione per confermare o meno la sentenza, la sua correttezza e la sua fondatezza.
Questo processo - serve ricordarlo ancora una volta - nasce dalla volontà dei familiari di ventitré vittime, di origine italiana, che hanno subito il sequestro, le torture, la “disapparizione” e la morte da parte dei corpi speciali, militari e paramilitari al servizio delle dittature latinoamericane tra gli anni ‘70 e la metà degli anni ‘80 del secolo scorso, coordinati e manovrati dal dipartimento di Stato degli Usa, in quello che fu chiamato il ‘Plan condor’, per annientare ed eliminare fisicamente le opposizioni a quei regimi, contrastando così il pericolo del comunismo in America Latina.
Quella che oggi può sembrare una follia e un racconto di macabra fantasia, fu invece una delle peggiori tragedie del secolo scorso, che produsse decine di migliaia di morti e di desaparecidos, di neonati strappati alle proprie famiglie e cresciuti negando loro la propria vera identità. Un dramma che, a distanza di oltre quarant’anni, non ha ancora trovato i tempi ed i modi di restituire verità e giustizia alle vittime, dove si ripetono i tentativi da parte dei governi di turno di cancellare la memoria e le responsabilità. Facendo nuova violenza e procurando nuovo dolore a chi ha perso i propri cari e chiede verità e giustizia, lasciando così aperte le ferite in una società sofferente e che avrebbe invece il bisogno ed il diritto di chiudere quei conti, per voltare pagina ma senza perdere memoria e dignità.
I familiari delle vittime e le associazioni per i diritti umani dell’Uruguay, collegati in videoconferenza, subito dopo la lettura della sentenza, hanno sì pianto di gioia ma si sono anche chiesti: riuscirà questa sentenza, a smuovere anche i governi latinoamericani a riaprire i processi là dove questi fatti si sono compiuti? Noi speriamo di sì, noi ci impegniamo perché avvenga.