Lorenzo Orsetti “Orso”, per i suoi amici e compagni italiani di Firenze, “Tekoşer (Colui che lotta)” per i compagni delle Forze democratiche siriane e della Brigata internazionalista delle Ypg, è caduto in combattimento durante la liberazione di al-Bagouz. Aveva 33 anni. Per arruolarsi volontario internazionalista nelle Ypg aveva lasciato oltre un anno fa la sua casa e il lavoro nel settore della ristorazione.
Non è mia intenzione scrivere un articolo celebrativo. Spero di riuscirci. Orso non è il primo italiano caduto in Siria. Prima di lui il 7 dicembre è morto, in un incidente, Giovanni Asperti, 53 anni. Era un tecnico dell’Eni, specializzato nella bonifica e dismissione degli impianti petroliferi.
Orso e Giovanni non erano e non sono gli unici italiani ad aver raggiunto la Siria per combattere in difesa della rivoluzione e contro i fascisti religiosi di Al Qaeda e di Daesh. Altri italiani li hanno preceduti (fra essi Karim Franceschi, il più noto e il primo di cui, in questo numero di “Sinistra sindacale”, ripubblichiamo un’intervista rilasciata a Sergio Sinigaglia per “Reds”). Karim Franceschi è rientrato dopo aver partecipato alla liberazione di Raqqa ed essere stato gravemente ferito. Come sono rientrati Luiseddu Caria, sardo, Paolo Andolina, Davide Grasso, Fabrizio Maniero e Maria Edgarda Marcucci torinesi, e altri più o meno noti. Altri ancora, uomini e donne, sono là a combattere.
Ho citato Luiseddu e gli altri perché sono stati “attenzionati”, al rientro in Italia, da solerti magistrati e dalle questure, su evidente indicazione del ministero degli interni. Si è cercato di processare Caria come “mercenario”, insieme ad altri due compagni sardi. Mentre per gli altri (ed anche per Caria, successivamente) si sta cercando di imporre la “sorveglianza speciale” – quello che una volta era il confino – in quanto “potenziali terroristi”. Il 25 marzo si terrà l’udienza per il gruppo torinese.
Abbiamo letto in questi giorni articoli ed editoriali in ricordo di Orso, la cui morte ha colpito più di quella di Asperti, vuoi per la giovane età, vuoi per la composta dignità del padre e della madre che hanno rivendicato con dolore e orgoglio la scelta del figlio. Vuoi per il fatto che Orso aveva la tessera onoraria dell’Anpi, riconosciutagli proprio per la sua scelta di combattente.
Anche io vorrei tributargli il mio omaggio, a nome anche delle compagni e dei compagni della sinistra sindacale Cgil. E vorrei farlo sottolineando la coerenza politica e ideale della sua scelta di vita e di lotta. Orso era un compagno anarchico, come anarchici sono tanti altri compagni italiani, tedeschi, spagnoli, turchi, inglesi, e di altri paesi, che hanno scelto di combattere in Rojava per difendere un modello sociale, il “confederalismo” democratico, che è la cosa più simile che sia esistita (dopo la Comune) al modello di società che gli anarchici collettivisti propugnano (una società autogestita senza stato organizzato), così come altri sono marxisti-leninisti o maoisti, perché si riconoscono nella storia e nel percorso del Pkk o in partiti legati internazionalmente tra loro, e altri ancora vengono dai percorsi di solidarietà nati all’interno dei centri sociali.
Sono spinti non soltanto dalla necessità di reagire alla violenza barbarica degli attentati che colpiscono anche l’Occidente come a New York, a Londra, a Madrid, a Parigi, a Bruxelles, ma dall’idea che chi alza muri e affoga la gente in mare, la richiude nei lager libici e turchi, o li fa morire di fame sulle montagne dei Balcani o sulle Alpi, è lo stesso nemico che arma e motiva gli eserciti del califfato e gli attentatori in casa nostra.
Quale che sia la nostra opinione sulle loro posizioni, essi si muovono nell’alveo di un impegno internazionalista di lotta per un mondo migliore, di libertà e uguaglianza, universalmente proponibile.