Con l’elezione dell’ex militare razzista e omofobo, il Brasile fa un salto indietro di trent’anni. Il modello è quello dell’iperliberismo dittatoriale del Cile di Pinochet.
Tornano i “Chicago boys” in America Latina, gli iperliberisti duri e puri che hanno fatto scuola negli anni ’70, trasformando il Cile nel loro sanguinoso laboratorio sociale ed economico. Questa è la sostanza della vittoria in Brasile di Jair Messias Bolsonaro, che il 28 ottobre si è aggiudicato il ballottaggio con il 55,13% dei consensi, contro il 44,87% del candidato del Pt, Fernando Haddad.
Una vittoria, quella dell’ex militare, razzista, omofobo, nostalgico della dittatura, che fa tremare la già fragile democrazia brasiliana, e fa tornare indietro tutto il continente di trent’anni. Dicevamo del liberismo. L’uomo forte di Bolsonaro, che ricoprirà l’incarico di ministro dell’economia, è quel Paulo Guedes, quasi settantenne, allievo fedele di Milton Friedman, che negli anni ’80 è riuscito ad ottenere l’unica cattedra della sua vita proprio all’Università di Santiago, mentre imperversava la repressione in tutto il paese andino. Tornato a casa ha fatto della guerra alla sinistra brasiliana, che lo aveva emarginato, la sua missione. E ora che finalmente ha trovato il treno che lo porterà al governo, potrà applicare le sue sciagurate ricette fatte di privatizzazioni, indipendenza della Banca centrale, e del ministero che presiederà, con una riduzione ai minimi termini del ruolo dello Stato nella gestione dell’economia.
In un’intervista rilasciata al quotidiano spagnolo El Pais, Onyx Lorenzoni, possibile capo di gabinetto di Bolsonaro, non nasconde la sua ammirazione per un modello che in tutti questi decenni ha creato povertà e privilegio per i più ricchi: “Il Cile per noi è un esempio, perché è riuscito a basare la propria economia su elementi macroeconomici molto solidi e completamente differenti dal resto dell’America Latina”.
Ma non è tutto. Dal Palacio del Planalto, dove il primo gennaio si insedierà il nuovo capo dello Stato, arriveranno ordini molto precisi per quanto riguarda la risoluzione del problema della violenza, il rapporto con l’opposizione, il rispetto dei diritti umani e ambientali, la tutela dell’Amazzonia e via dicendo. Su tutti questi temi abbiamo registrato da parte di Bolsonaro delle vere e proprie dichiarazioni di guerra, tanto da suscitare l’allarme di Amnesty International.
Secondo Erika Guevara-Rosas, direttrice dell’organizzazione umanitaria per il continente americano, “il neoeletto presidente ha portato avanti una campagna elettorale con un programma apertamente ostile ai diritti umani, e ha spesso fatto dichiarazioni discriminatorie sui differenti gruppi sociali. Se questa retorica si trasformerà in azioni politiche, la sua elezione a presidente del Brasile potrebbe rappresentare un enorme rischio per le popolazioni native e le quilombolas (le comunità dei discendenti dagli schiavi), le comunità rurali tradizionali, le persone Lgbti, i giovani neri, le donne, gli attivisti e le organizzazioni della società civile”.
Il Brasile ha il triste primato nel mondo del maggior numero di difensori dei diritti umani uccisi, e certamente l’elezione di Bolsonaro e del vicepresidente Mourão rischia di peggiorare il già drammatico scenario brasiliano, appesantito da una più libera circolazione delle armi come vorrebbe attuare l’ex militare di origine italiana.
Ma perché siamo arrivati a questo punto, e che cosa devono fare il Pt e tutta la sinistra brasiliana, la quale pur sconfitta ha preso 47 milioni di voti? Senza entrare nel merito dell’incarcerazione di Lula, la cui condanna lascia comunque più di un dubbio come pure l’impeachment nei confronti di Dilma Roussef, sicuramente il Partito dei lavoratori ha pagato il prezzo di una eccessiva corruzione, e pur avendo fatto molto per combattere la povertà avrebbe dovuto fare ancora di più, ascoltando chi nel 2013 organizzò grandi manifestazioni di massa contro l’aumento del prezzo dei trasporti e l’anno dopo per l’eccessivo budget stanziato dal governo per i mondiali di calcio.
Per João Pedro Stedile, leader del Movimento Sem Terra, la sinistra dovrà rinnovarsi e unire tutti i movimenti popolari. E cercare soprattutto di intercettare i 14 milioni di disoccupati e i 33 milioni di precari che non hanno votato per Haddad. Partendo anche da un elemento di forza istituzionale, ovvero dai dodici governatori eletti, e da più di un terzo del Parlamento.